[852]
Mi dispiace assai quest'anno di non poterle comunicare nulla di consolante sui miei neri; perché, eccettuati Michele Ladoh e il piccolo Antonio, tutti gli altri caddero in una brutta malattia africana, che, nonostante tutte le cure fatteci prendere dalla carità cristiana, assunse una forma maligna per i poveri africani e per parecchi terminò in una morte impressionante. Se, per queste disgrazie che ci tolgono la speranza di poter educare in Europa i miei neri a beneficio della Missione dell'Africa Centrale, noi siamo abbattuti, tuttavia la vita angelica di questi amati fanciulli, che ci erano affidati, e la loro preziosa morte ci riempie di inesprimibile consolazione e questa può essere recata anche a Lei per i sacrifici da Lei fatti a beneficio dei neri di Verona.
[853]
Questa volta Le voglio parlare del nostro Pietro Bullo che, dopo una vita esemplare, fece una morte da angelo. Prima però devo dire come ottenni questo ragazzo e informarLa infine del viaggio da me fatto sul Mar Rosso per racimolare insieme un numero considerevole di allievi per il nostro Istituto africano.
[854]
Nel settembre 1860 ricevetti lettera dall'India dal Rev.mo Signor Celestino Spelta, Vicario Apostolico dell'Yu-pè e visitatore generale della Cina (io avevo conosciuto questo signore l'anno prima del mio viaggio dal Cairo a Roma e lo avevo messo al corrente del fine del mio Istituto), nella quale mi comunicava che a Aden c'era un gran numero di fanciulli neri, i quali erano proprio adatti per il nostro Istituto di Verona. Lo dissi al mio Superiore Don Nicola Mazza, il quale tuttavia volle accertarsi anzitutto in modo ancor più preciso della verità di questa informazione e soltanto dopo prender una risoluzione. Ma come desumere queste più precise informazioni egli allora non lo sapeva ancora. Nondimeno la divina Provvidenza ci mostrò ben presto la sua adorabilissima volontà. Il 10 ottobre dello stesso anno un missionario carmelitano ci portò a Verona due neri, che il Rev. P. Giovenale da Tortosa, prefetto di Aden, gli aveva affidati, quando la sua nave, proveniente dal Malabar, si fermò a Aden. Il prefetto aveva pregato questo missionario dell'India di prender seco parecchi altri di questi fanciulli; ma avendo troppo poco denaro non ne potè prendere che due. Noi esaminammo questi due e li trovammo molto adatti e disposti ai nostri fini. Allora senza rifletterci più a lungo il mio Superiore mi comandò di partire per l'India.
[855]
Mi ricordo ancora come Don Mazza mi consegnò un preventivo per le spese di viaggio e per la compra dei neri e, pensando io di trovare dai 40 ai 50 ragazzi, pensavo mi fossero necessari ben 25.000 franchi. Il mio Superiore esaminò la sua borsa e mi disse: "Non ho che 13 fiorini". "Allora io dovrò restare a Verona", gli risposi io. "Nient'affatto", replicò lui, "fra tre giorni tu partirai per l'India".
[856]
Per me fu una fortuna il non essermi incaponito nella mia opinione. Andai a Venezia a procurare i passaporti per i fanciulli neri che io dovevo condurre a Napoli e il terzo giorno D. Mazza benedisse la mia partenza, mi diede 2.000 franchi (che aveva ricevuto dal conte Giuseppe Giovanelli e dalla sua pia Signora, la quale offrì 900 fr.) e disse "Parti ugualmente; ecco 2.000 fr.; però ora non ti posso dare di più; prega Dio che mi faccia trovare altro denaro; perché voglio aiutarti; ma tu parti lo stesso".
Due ore dopo lasciavo Verona e al P. Lodovico da Casoria nell'Istituto della Palma consegnavo 4 ragazzi che non potevano tollerare il clima di Verona.
[857]
Conversando col P. Lodovico venni a sapere che la bell'opera del P. Olivieri era abbandonata a terribili persecuzioni, tanto da parte dei Turchi quanto da parte di parecchi consoli europei.
[858]
L'anno prima tornando in Egitto dal Centro dell'Africa fui io stesso testimonio delle afflizioni di Don Biagio Verri, col quale furono incarcerate 5 nere, che in seguito al rapporto di alcuni signori del consolato inglese, che si erano sempre mostrati ostili ai progressi del cattolicesimo, furono dal governo egiziano considerate come schiave.
Dopo la guerra d'oriente nelle stipulazioni il trattato di Parigi aveva proibito la schiavitù e la tratta dei neri e questa legge giusta, che era stata promossa dalla civiltà europea e dal Vangelo, fu dai Turchi manipolata, mal interpretata e cambiata. Ossia essi considerarono Don Olivieri e il suo compagno Biagio Verri come schiavisti, poiché essi comperavano con denaro le povere nere dalle mani dei giallaba (schiavisti). D'altra parte io avevo già saputo che i più implacabili nemici del P. Olivieri sono i signori del consolato inglese di Alessandria, i quali avevano assicurato il pascià che i preti cattolici esercitavano il commercio degli schiavi, e che bisognava porre riparo a questo disordine. Questi falsi ragguagli degli inglesi e la falsa interpretazione che il governo egiziano dava al riscatto degli schiavi, procurarono a Don Verri grandi noie e innumerevoli difficoltà. Saputo tutto questo e sentito che la lotta contro l'opera del P. Olivieri continuava, decisi di andare a Roma dove io speravo di procurarmi buone raccomandazioni presso il consolato inglese d'Egitto.
[859]
Dio adempì il mio desiderio. Mons. Nardi, amico e benefattore del mio Istituto, mi condusse dal Sig. Hennesy Pope, membro della Casa dei Comuni di Londra, il quale, conosciuto lo scopo del mio viaggio, mi procurò da Odo Russel, ambasciatore britannico a Roma, una lettera commendatizia, nella quale sollecitava il console generale di sua Maestà britannica in Egitto di accordarmi piena protezione e di ottenermi dal pascià d'Egitto il permesso di portar da Alessandria in Europa tutti quei neri che io gli avessi presentato, e che poi non sarebbero più stati schiavi ma pienamente liberi. Inviandomi questa lettera, Lord Hennesy Pope mi scrisse nello stesso tempo che, qualora in Egitto trovassi difficoltà da parte del consolato inglese o del governo egiziano, mi potevo rivolgere a Londra alla Casa dei Comuni, ove egli sarà felice di accordarmi protezione, affinché io venga a capo della mia impresa.
[860]
Con questa lettera commendatizia e con parecchie altre che mi potevano essere di utilità presso parecchi consoli di Egitto, ricevuta la benedizione del S. Padre, partii dall'eterna Città e montai a Civitavecchia sul "Carmel", bastimento francese, che mi portò fino a Malta. Questo viaggio sul "Carmel" riuscì più fortunato di quello che avevo fatto sulla "Stella d'Italia" da Genova a Napoli, nel quale i miei quattro neri ebbero molto a soffrire. Ma ancor più periglioso fu il viaggio da Malta ad Alessandria sul piroscafo francese "Euphrat", che si lasciava spronfondare nel mare a cagione d'una terribile burrasca, la quale ci gettò in grande spavento. Con l'aiuto di Dio giungemmo sulla sponda africana davanti ad Alessandria.
[861]
Al Cairo ebbi la fortuna di parlare col polacco P. Anastasio, che era appena arrivato dall'India. Là egli aveva saputo che sia a Bombay che sulle coste del Malabar c'era un gran numero di neri che io avrei potuto acquistare con grande facilità; parecchi di loro erano stati offerti anche a lui ma egli non aveva potuto accettarli con sé, perché non sapeva che farne. Senza fermarmi di più in Egitto, partii in treno per Suez, dove m'imbarcai sul "Nepual", un piroscafo della società inglese di navigazione peninsulare-orientale. Per un posto di seconda classe dovetti pagare 450 fr.
Dopo sette giorni di pericoloso viaggio, lungo tutto il Mar Rosso, giunsi ad Aden.
[862]
Tralascio di parlare della mia sosta a Bombay e sulle coste del Zanguebar, perché queste scappate restarono senza successo, giacché tutti i neri che vi trovai o erano stati impiegati presso gli indiani o presso i cattolici portoghesi o non mi furono consegnati. Mi soffermo solo su quello che mi accadde d'interessante ad Aden.
[863]
Ritengo necessario spiegare il fenomeno di quel trovarsi così tanti neri sulla costa dell'Arabia. All'inizio del 1860 parecchi giallaba (schiavisti abissini) percorsero il loro paese e le vaste regioni dei Galla, del Tigrè, di Ankober, del Gudru, di Omara, degli Ascialla, di Damo, Nagaramo, Dobbi, Ammaia, Sodo, Nono, Sima ecc. e catturarono più di 400 schiavi, uomini e donne. E' orribile il modo con cui questi ladroni s'impadroniscono dei poveri neri. Essi si servirono dell'ospitalità trovata presso alcune famiglie galla per conoscere con precisione la preda che essi volevano fare e di notte rubarono i fanciulli, li posero sui cavalli e dromedari e fuggirono verso il sud. Parecchi genitori che conoscevano il pericolo dei loro figli, furono uccisi allorché tentarono di opporsi alla mostruosa rapina.
[864]
Il nostro povero Pietro Bullo era stato rubato in simile maniera. Si era scostato un po' dal tukul in cui abitavano i suoi genitori, per giocare con gli altri fanciulli; là ricevette in regalo da un giallaba, Haymin Badassi, alcuni frutti di bosco, e fu condotto sempre più lontano dalla casa insieme con la maggioranza dei compagni di gioco. Ma tutto ad un tratto i giallaba si impadronirono di lui e degli altri fanciulli e li posero sui cavalli. Per impedire le sue grida gli si chiuse saldamente la bocca e si avvolse la sua testa in fasce di cotone, così da togliergli ogni possibilità di vedere e di gridare. Ma ciò non arrestò le grida degli altri fanciulli, che erano stati rapiti e allorché poi la madre di Pietro si affrettò in questa direzione e tra i lamenti reclamò il suo figliolo, cadde a terra morta, colpita da una lancia.
[865]
I giallaba per tre mesi viaggiarono sempre verso sud; poi si riunirono insieme sulle coste di Zanzibar; colà caricarono 400 neri, dei quali i più erano fanciulli, su tre navi a vela. Li condussero quindi in direzione del Golfo Persico e di Maskat, sui cui mercati, come pure su quelli dell'interno dell'Arabia, essi pensavano di vendere i fanciulli. Vale a dire che in questi paesi la tratta degli schiavi non è sorvegliata dalle potenze europee e perciò può esservi esercitata senza tema di punizione. Non posso esprimere quanto abbiano sofferto questi poveri fanciulli nel viaggio da Zanzibar al capo Guardafui. In Aden venni a sapere da parecchi, che si erano trovati su queste navi arabe, che i fanciulli avevano ricevuto da mangiare una volta ogni tre giorni e che alcuni, i quali soccombettero per fame o morirono in seguito a maltrattamenti o ad altre sofferenze, erano stati gettati in mare. Parecchi di loro morirono ancor nel viaggio tra il paese dei Galla e le coste di Zanzibar.
[866]
Mentre poi le tre navi giravano il capo Guardafui, furono assalite dai Somali. Costoro sono gli abitatori delle coste, i quali, quantunque siano anch'essi neri, tuttavia dal governo inglese di Aden avevano l'incarico di sorvegliare la tratta dei neri e di denunciare al governatore di Aden tutti coloro che essi avessero trovato possessori di neri e che essi sospettassero esercitare la tratta sulle coste del loro vasto paese. S'impadronirono dei fanciulli e degli strumenti di questo infame traffico i quali, senza raggiungere il loro intento, cercarono di aizzare contro ognuno e specialmente i più forti che erano sulle navi, dicendo loro che i somali li ucciderebbero tutti. I somali allora montarono sulle navi, legarono gli schiavisti e i ragazzi più pericolosi e fecero vela verso la costa di Aden. Avvicinandosi essi a questa città, venne loro incontro una truppa di soldati inglesi; gli schiavisti e i padroni delle tre navi i quali, temendo di incorrere nella pena di morte, tremavano di paura, fecero gli ultimi sforzi per eccitare i ragazzi alla ribellione contro i domatori, continuando ad assicurar loro che in potere di quelli sarebbero morti certamente a furia di sofferenze e di bastonate; e che prima li avrebbero nutriti abbondantemente senza dubbio per poi ucciderli nel modo suddetto e prepararli a modo di pasto.
E i ragazzi infatti si sollevarono e ne gettarono alcuni in mare, ma nello stesso tempo ebbero anche da piangere la morte e il ferimento di parecchi loro camerati. Il nostro piccolo Pietro non aveva avuto da soffrir alcunché dei trattamenti a cui tutti erano stati sottoposti. Finalmente giunsero a Aden, discesero, ivi furono circondati dai soldati inglesi e condotti nel mezzo di una gran piazza, ove dovettero restare per più giorni.
[867]
Nulla dico delle dissolutezze che poterono aver luogo nel viaggio da Zanzibar a Aden tra quella truppa di poveri ragazzi e ragazze, che nelle navi erano fortemente legati assieme come capre e che erano abbandonati all'arbitrio di uomini immorali e bestiali, dai quali furono custoditi e accompagnati per più di un mese. Che sorte abbiano avuto gli schiavisti, questi strumenti dell'ingiustizia, non posso notificarglielo, perché di questo non seppi nulla di certo a Aden. So unicamente che i fanciulli alcuni giorni dopo il loro arrivo a Aden furono disposti in fila indiana nel mezzo di una gran piazza, dove poi ragazzi e giovanette furono destinati l'un per l'altro secondo la statura. Di tali matrimoni se ne conclusero più di un centinaio in un sol giorno. Furono quindi messi tutti in libertà dagli inglesi. Parecchie di queste coppie nere, che erano forti e adatte al lavoro, s'imbarcarono e furono portate a Bombay e sulle coste del Malabar.
[868]
Un certo numero di ragazzi che a causa della loro giovane età non erano ancor abili al matrimonio, restarono a Aden. Ivi 14 ragazzi e similmente 3 ragazze furono collocate presso un mercante spagnolo per pulire il caffè nei suoi grandi magazzini. Questo mercante era il Sig. Bonaventura Mass, del quale aveva una grandissima stima tanto la Missione come il Superiore della stessa, un cappuccino spagnolo. A nessuno nel frattempo era venuto in mente di prendersi cura dei poveri neri. Nessuno pensò di procurar loro il più grande beneficio, la più bella benedizione celeste, la fede cattolica.
[869]
Ma la Divina Provvidenza, sempre ricca in misericordia, mandò loro a Aden un angelo di pace nella persona di Mons. Spelta, vescovo del Hu-pè, visitatore apostolico della Cina, il quale nel suo passaggio per Aden vi si fermò sei ore. Venne a conoscenza della storia di questi fanciulli e indusse il Prefetto apostolico di Aden, il P. Giovenale da Tortosa a interessarsene, a istruirli, a farli prender parte ai lavori della stazione missionaria e a mandarli in Europa dove parecchi Istituti si sarebbero incaricati della loro educazione e si sarebbero adoprati di metterli su una buona strada. Il P. Giovenale corrispose al consiglio del vescovo e distribuì i fanciulli nelle case dei cattolici; tre li tenne lui per il servizio della sua casa. Ogni sera si radunavano nella casa della Missione. Ivi un soldato irlandese impartiva loro con zelo straordinario l'insegnamento meccanico del catechismo inglese, che i fanciulli imparavano a memoria in modo non meno meccanico. Essendo i fanciulli di grande talento impararono ben presto anche la lingua indù, parlata a Aden come l'arabo.
[870]
Al mio arrivo a Aden trovai 12 ragazzi e due giovanette (galla) nelle condizioni surriferite. Mio primo pensiero fu quello di celare lo scopo del mio viaggio a tutti ed anche allo stesso P. Giovenale, poscia per poter provvedere al mio interesse mi studiai per prima cosa di non insospettire il governo e il clero inglese, giacché quest'ultimo con occhi gelosi vede arrivare qualsiasi straniero, ma soprattutto qualsiasi prete. P. Giovenale perciò mi credette solo di passaggio da Bombay a Suez e quindi mi narrò ingenuamente tutta la storia dei fanciulli. Procurai di esaminarli bene e per questo andai a trovarli nelle loro abitazioni. Io li avevo già esaminati nella casa della Missione, dove una sera si erano radunati per imparare le preghiere e il catechismo cattolico. In fine posi l'occhio su 9 fanciulli, tra i quali si trovava anche il nostro Pietro Bullo che, sebbene uno dei più piccoli, tradiva però un'intelligenza straordinaria, una rara docilità, unita a una grande docilità alla grazia di Gesù Cristo; si poteva sperare di lui che sarebbe diventato un cattolico zelante e utile. Gli altri ragazzi non mi sembravano atti allo scopo del mio Istituto; le giovanette si ricusavano di seguirmi.
[871]
A questo punto palesai i miei piani al P. Giovenale, il quale mi aiutò a riuscire nel mio intento. Andò dai padroni dei ragazzi e li indusse a rilasciarmeli. Naturalmente io cercai con ogni espediente di guadagnarmi il cuore dei fanciulli. E tutti, eccetto Antonio Dubale si decisero di seguirmi in Europa.
Il nostro Pietro, il quale abitava presso un medico indiano, non era capace di star lontano da me, per più di due ore. Dichiarò poi al suo padrone che non apparteneva più a lui, ma a me e volle inoltre abitare con me nella casa della missione. Inutilmente il medico chiedeva al piccolo di rimanere lo stesso con lui fino alla mia partenza, quando gli avrebbe dato il permesso di seguirmi. Pietro non volle e venne da me. E fece tanto baccano per cagion mia che col suo entusiasmo mise in favor mio anche il figlio del medico; l'indianello dodicenne veniva ripetutamente da me nella casa della missione e mi pregava di accogliere anche lui per i collegi di Europa. Nonostante che io glielo negassi sempre, egli non cessava di supplicarmi ad ogni istante di portarlo meco in Europa. Un giorno dopo che aveva insistito di nuovo, a lungo e con insistenza, io gli dissi: "Non ti posso prendere perché tu non sei nero, mentre il mio Istituto è fondato solo per i neri". "Allora", mi rispose, "diventerò nero; proverò a colorirmi di nero con l'inchiostro, e poi potrò venire e restare con te; io lascio volentieri mio padre per seguire te".
[872]
Ebbi un bel da fare per avere Giovanni e Battista, ma alla fine con l'aiuto del P. Giovenale potei avere più di otto fanciulli. Ora mi restavano da superare le difficoltà più gravi, che avevo da temere da parte del governo inglese dell'India, dato che è sempre contrario al cattolicesimo. P. Giovenale non poteva aiutarmi in ciò, perché era in discordia col governatore, che l'aveva obbligato a pagare il 4% di tassa per la chiesa e considerava come cosa privata l'arredamento della chiesa e i paramenti sacerdotali.
[873]
Pieno di fiducia in Dio che è morto anche per l'Africa, mi presentai al governatore e lo pregai di interrogare i due ragazzi che io gli portavo, se volessero seguirmi in Europa, e inoltre lo pregai che, qualora avesse trovato che essi avevano abbracciato di spontanea volontà una tal decisione, li mettesse in libertà, procurasse loro un passaporto e facesse il favore di sottoscriverli come sudditi anglo-indiani. Fatta dapprima qualche difficoltà, mi accordò poi ciò che desideravo. Allora presi coraggio e pensai bene di portargli dinanzi anche gli altri 6 giovani galla; ma egli non ne voleva sapere. Però non smettendola io di seccarlo con suppliche, lo indussi a chiedere consiglio ai membri del governo tra i quali c'era anche il pastore inglese. Discussero la cosa e avanzarono il sospetto che io fossi venuto per far proseliti; inoltre dichiararono che io agivo contro la legge, che proibisce il commercio degli schiavi.
[874]
Decisero pertanto di non accontentarmi. Allora io dichiarai all'adunanza che mi sarei rivolto al governo stesso per ottenere protezione a questi poveri fanciulli, che volevano far uso pieno della loro libertà e, secondo il loro desiderio, volevano seguir me in Europa; ma tutto era inutile. Dimostrai allora al governatore che egli era obbligato a proteggere la libertà di questi fanciulli dimoranti in territori britannici e che se egli dava loro il permesso di seguirmi non faceva altro che proteggere la loro libertà. Gli esposi anche altre ragioni e argomenti per ottenere la protezione inglese, e infine il governatore decise di esaminare i fanciulli. Presentai quindi al governatore, consigliere municipale Playfair, i fanciulli, che avevo già ammaestrati tutti sul modo con cui dovevano rispondere. Egli li esaminò tutti ad uno ad uno, diede a tutti la dichiarazione di libertà insieme a un passaporto indiano e li iscrisse come sudditi inglesi. Con queste tre carte io ero sicuro di poter portar meco gli otto fanciulli galla.
[875]
Ora mi mancava Antonio, il quale avrebbe avuto piacere di seguirmi, ma non si era ancor deciso a farlo, perché il suo padrone, un inglese di nome Greek, che lo trattava molto bene non voleva lasciarlo. Questi, appena s'accorse che io avevo l'intenzione di portarmi via il piccolo, della qual cosa aveva paura per gli eccellenti servizi che prestava a casa sua, proibì ad Antonio di frequentare la casa della missione. Sennonché Antonio, il quale intelligentissimo capiva che se restava nella casa del suo padrone, non avrebbe potuto abbracciare il cattolicesimo, si decise di seguirmi contro la volontà del padrone. Il Sig. Greek (impiegato governativo) scoprì l'intenzione del suo piccolo nero, non lo lasciò più solo un momento e lo portava sempre seco nel suo ufficio per timore che io, approfittando della sua assenza, avessi a convincere il ragazzo a seguirmi. E certamente aveva ragione. Io andai più volte alla casa del Signor Greek e lo pregai di cedermi il ragazzo; ma tutte le mie suppliche furono vane. Allora mandai il P. Giovenale dall'ufficiale inglese, ma questi gli diede per risposta che se il Signor Comboni voleva insistere a portar via con sé il ragazzo e a chiederlo al Governatore poteva arrivare al punto di vedersi tolti di nuovo anche gli altri fanciulli.
[876]
Il P. Giovenale mi riportò questa risposta, che io interpretai in un senso buono per me. Due giorni dopo feci visita al Sig. Greek nel suo ufficio che si trovava nella casa dal Governatore; discutemmo di politica, di commercio, della gloriosa storia d'Inghilterra, delle sue conquiste, dell'influsso che essa esercitò sulla civilizzazione dell'America e dell'Australia. Dopo aver passato così in chiacchiere un'ora, arrivò all'ufficio gente per sbrigare i loro affari. Il Sig. Greek sembrava disposto a volermi licenziare, ma io fingevo di non accorgermene. Lasciai entrare molta gente e io mi ritirai un po' indietro per osservare i quadri e le carte geografiche in quella parte della stanza dove stava Antonio. Visto il Sig. Greek molto occupato con le persone venute da lui, mi avvicinai pian piano alla porta, feci segno ad Antonio di seguirmi e col ragazzo lasciai l'ufficio ad insaputa dell'inglese. Andai immediatamente dal Sig. Playfair, gli presentai Antonio e gli dissi: "Ecco qui un altro fanciullo che vuole seguirmi; abbia la bontà di esaminarlo e, se trova che ha veramente voglia di divenire allievo del mio Istituto di Verona, lo dichiari libero, gli rilasci un passaporto e lo iscriva nella lista dei sudditi inglesi". Il Governatore accondiscese a tutte le mie domande.
[877]
Appena di ritorno alla casa della missione dissi al Prefetto Apostolico: "Ecco il ragazzo desiderato, vada dal signor Greek e gli dica che ho adempiuto la sua volontà, gli dica che per la di Lei mediazione mi aveva fatto comprendere come, se volevo avere il ragazzo, dovevo andare dal governatore; ora io sono in possesso del fanciullo appunto perché sono andato dal governatore il quale mi ha concesso tutto, come Lei può vedere da queste carte". Il Prefetto andò dal signor Greek e gli riferì tutto; il signor Greek era adiratissimo; venne alla casa della missione, minacciò di battermi e di farmi perdere nuovamente tutti i fanciulli.
[878]
Egli voleva togliermi con la violenza il piccolo Antonio, ma io gli dissi: "Signore, con la vostra condotta voi vi compromettereste, voi agite contro la libertà del nero il quale vuol venire dietro a me; se voi volete impadronirvi del fanciullo con la forza voi vi mettete contro la legge, vi rendete colpevole del delitto dei giallaba e incorrerete nella stessa punizione di loro. Il governatore non può muovere un dito contro di me e contro il ragazzo, perché io tengo in mano l'autorizzazione legale scritta, che mostrerò al governo a Londra, qualora osasse richiedermi i documenti. Voi allora, come il governatore riceverete la punizione della vostra ingiustizia". Queste mie parole e gli argomenti del Prefetto Apostolico disarmarono il signor Greek che bevve con noi un paio di bottiglie di buon Porter (birra inglese) e diventammo amici.
[879]
Ad Aden potevo far conto solo su 9 ragazzini; ma questo numero era troppo piccolo per lo scopo del mio viaggio. Sul "Nepaul" seppi da un missionario il quale andava ad un congresso di missionari che doveva aver luogo nella parte sud-orientale del Madagascar, che nel canale di Mozambico c'era un gran numero di schiavi neri, i quali venivano venduti per 50 fr. l'uno. Il signor Mass di Aden, il quale era stato più volte a Mozambico e aveva un intenso traffico con le isole adiacenti Mayotte, Nos-Beh e Comore, mi accertò della verità di questa relazione. Mi promise la sua protezione e trasporto gratuito dei neri da Mayotte a Marsiglia e proprio sulle sue navi, le quali dovevano prendere la via del Capo di Buona Speranza e attraversare l'Oceano Atlantico. Ma come eseguire questo piano, quando non mi restavano che 600 fr.? Il mio Superiore Don Mazza avanti la mia partenza mi aveva dato 2000 fr. e mi aveva detto: "Prendi questo denaro; di più non ne ho; prega il buon Dio che me ne faccia arrivare dell'altro; allora ti spedirò un'altra buona somma". Supplicai il Signore con insistenza e costanza, ma il Signore non esaudì la mia preghiera, perché il mio Superiore in tutto il mio viaggio non mi mandò neppure un quattrino.
[880]
Allora risolvetti di rimandare l'attuazione di tutto il mio piano, di recarmi in Europa e di trattare la questione della compera dei neri di Mozambico con il P. Olivieri. Infatti proposi quest'affare al Cairo a Don Biagio Verri, che mi pareva molto disposto a seguirmi sulla costa sud-orientale dell'Africa; ma poi quando mi consigliai col P. Olivieri, quel santo vecchio mi rispose che non si sentiva abbastanza in gamba per l'attuazione di questo immenso piano e per la lotta contro le innumerevoli difficoltà e pericoli che erano da aspettarsi nel viaggio attorno al Capo e sull'Oceano Atlantico.
Restai quindi a Aden coi miei 9 ragazzi e coi 600 fr. che mi sopravvanzavano e con una somma tale non sapevo proprio come fare a portarmi in Europa. Ma la Provvidenza nell'esecuzione delle opere che tornano a gloria di Dio viene sempre in soccorso. Arrivò ben presto a Aden una fregata francese, la "Du Chayla", comandata dal capitano Tricault, l'attuale segretario generale della marina francese a Parigi. La fregata proveniva dalla Cina e era diretta per Suez; aveva a bordo sua Ecc. il barone Cross, ambasciatore straordinario presso le corti del Giappone e della Cina. Il Barone Cross aveva concluso un trattato commerciale tra la Francia e l'impero celeste. Mi presentai al comandante e all'ambasciatore e parlai loro dell'Africa Centrale e dello scopo della mia impresa; gli mostrai come io avrei potuto provvedere all'ufficio di cappellano della nave, dato che questi era caduto ammalato a Ceylon. Il barone Cross e il signor Tricualt furono così generosi da concedere viaggio e posto gratuito sulla fregata da Aden a Suez non solo a me ma anche ai miei 9 negri.
[881]
Il viaggio lungo il Mar Rosso fu compiuto in 11 giorni; ma tra Mokha e Suakim fummo colti da una furiosa burrasca che raggiunse il culmine di fronte a Dieddah. Finalmente il 25 marzo arrivammo a Suez, 19 colpi di cannone salutarono l'arrivo dell'ambasciatore francese sul suolo egiziano. Al 26 giungemmo al Cairo assieme a Said Pascià, vicerè d'Egitto, il quale tornava da un pellegrinaggio alla Mecca. I miei neri si trovavano benone. Appena arrivato al Cairo, mi recai subito da Sua Ecc. Sir Colquehonn, agente e console generale di sua Maestà britannica in Egitto, per consegnargli la lettera di raccomandazione del signor Odo Russel, ambasciatore inglese a Roma. In questa lettera si pregava il governo inglese di lasciar passare tutti i ragazzi che io conducevo da Alessandria in Europa.
Il console generale mi accolse con molta cortesia e ci recammo insieme dal Pascià; mostrandogli i passaporti e la carta nella quale i fanciulli erano dichiarati sudditi inglesi dell'India (poiché Aden è sotto il governatore generale di Bombay), mi si fece un firmano, sottoscritto dal Pascià e nel quale si ingiungeva al capo doganiere di Alessandria di lasciar passare i piccoli indiani accompagnati da Daniele Comboni. Allora essendomi riuscito così bene questo affare, il signor Kirchner, provicario apostolico dell'Africa Centrale, mi affidò un'altra giovinetta di nome Caterina Zenab.
[882]
Caterina Zenab dimorava presso le suore del Buon Pastore; essa ci aveva aiutati un giorno nella compilazione di un vocabolario, quando noi lavoravamo tra i Kich, che abitano sul Fiume Bianco al 6 di latitudine nord.
Poi partii per Alessandria coi 9 fanciulli e pregai le suore del Buon Pastore di condurmivi tra due giorni anche la negra Caterina Zenab. Trovandomi in gravi strettezze pecuniarie per prima cosa cercai un viaggio gratis in Europa. La Provvidenza mi aiutò di nuovo: all'ufficio del viceammiraglio francese mi si concesse il viaggio da Alessandria a Marsiglia e dovetti pagare soltanto 400 fr. per il vitto. Allora feci sottoscrivere il firmano al governatore di Alessandria, Rashid Pascià. Dal console generale austriaco ottenni anche per Caterina Zenab un passaporto ed una carta con la quale questa nera veniva dichiarata suddita austriaca, come proveniente dalla casa della missione austriaca di Khartoum. Quattro ore prima della partenza del "Marsey" andavo al porto coi 9 ragazzi per imbarcarci; e prima avevo incaricato due suore di carità che due ore più tardi mi portassero sulla nave la nera.
[883]
L'anno prima avevano preso il P. Olivieri con i suoi 5 neri, e ora si sospettò che io fossi un suo aiutante e che avessi comperato neri per portarli in Europa. Perciò mi si obbligò ad entrare coi ragazzi nell'ufficio del capodogana e a spiegarmi meglio sull'affare degli schiavi; i miei neri li ritenevano per abissini (e difatti i galla hanno la stessa carnagione e la stessa fisionomia). Trassi di tasca il firmano del Pascià, e il capo o meglio lo sceicco lo lesse, osservò attentamente il volto dei fanciulli ed esclamò: "Questi fanciulli non sono indiani, ma vengono dall'Abissinia. Il Pascià (continuò) non ha veduto i fanciulli, perché se li avesse veduti, certamente non avrebbe fatto questo firmano". Allora io tirai fuori le carte del governatore di Aden, mentre gli facevo osservare che, se i fanciulli non fossero indiani, il governatore di Aden non mi avrebbe rilasciato alcun passaporto. Io insistevo che i fanciulli erano realmente sudditi del governo inglese. Lo sceicco ci fece circondare di guardie e ordinò loro di condurci in una stanza del palazzo delle carceri, dove si tenevano gli accusati prima della condanna.
[884]
Tutte le mie discolpe riuscirono vane, inefficaci tutte le ragioni che portavo per indurli a lasciarmi andare con i fanciulli sul bastimento francese. Anzi si ordinò di condurci in prigione. Mi industriai anzitutto di riavere indietro dallo sceicco tutte le carte poiché più tardi mi potevano servire per la mia discolpa e inoltre feci recapitare alle buone suore di carità una lettera in cui le pregavo di tenere in convento la nera fino a ulteriori notizie. Poi fummo condotti in carcere. Vi trascorremmo un paio d'ore, durante le quali gli ufficiali turchi di guardia rivolsero ai fanciulli mille domande. A me minacciarono tre fucilate nel petto. Io sorridevo senza rispondere nulla, mentre in indiano, che in Egitto non è compreso, ordinavo ai fanciulli: "Tanda Makharo, ciprausap boito - state quieti e fate silenzio, - daiman ciprau daiman ciprau - fate silenzio e non rispondete".
[885]
Dopo un paio d'ore io dissi a uno degli ufficiali: "Chiamatemi il capodogana ovvero conducetemi da lui". Ripetei con energia questa domanda, e allora egli si decise di andare dallo sceicco e di condurlo da me. Appena fu entrato io gli dissi: "Voi mi intrattenete qui dentro; non sapete che io sono europeo? Il vostro delitto vi costerà caro"; mi rispose lui: "Lei ha comperato Abissini al Cairo o ad Alessandria e per poterli porta via da Alessandria in Europa, il che è già per se stesso proibito, ha corrotto alcuni ufficiali del consolato inglese per aver le carte con cui i fanciulli vengono dichiarati indiani. Ma io so distinguere molto bene gli indiani dagli abissini, perché i neri il passaporto lo portano sui loro volti; questi sono abissini che lei ha comperato nonostante il recente divieto di Said Pascià; perciò lei pagherà cara la sua infrazione".
[886]
I miei tentativi per provargli che i fanciulli erano indiani e non abissini e che venivano dall'India (infatti Aden quanto a governo è sotto l'India) furono senza successo. Con altrettanto insuccesso gli provai che l'Egitto doveva render conto all'Inghilterra dell'ingiuria che uno dei suoi doganieri commetteva contro la libertà di un europeo e contro i sudditi appartenenti alla corona inglese, tutti muniti dei necessari passaporti. Infine gli dissi in tono severo: "Non sapete che io sono europeo? non sapete che tenendomi in prigione nonostante che io abbia tutte le mie carte in regola, voi vi rendete reo? Se entro tre ore non mi metterete in libertà, vi garantisco che voi non sarete più sicuro della vostra testa; io saprò giungere a tanto da farvi punire con la morte, perché avete imprigionato un europeo. Ancorché io mi fossi reso reo dei più gravi delitti, non vi sarebbe lecito tenermi prigioniero; voi allora dovrete condurmi dal rappresentante della mia nazione, dal Console, perché soltanto lui avrebbe il diritto di giudicarmi; io conosco la vostra legge meglio che non la conosciate voi. Guai a voi se non mi mettete in libertà".
[887]
Parlammo insieme in modo animato certamente per un altro quarto d'ora; nel frattempo lo sceicco si era lasciato prendere nuovamente da una gran paura. Si apparecchiava ad andarsene, quando poi tornò indietro a rimettermi in libertà. Prima di seguirlo ordinai in indiano ai fanciulli di non parlare né arabo né abissino né galla, ma di conservare il più rigoroso silenzio, perché altrimenti poteva andar di mezzo la loro testa. Uscendo dal carcere, io dissi in arabo allo sceicco: "Oggi a me, domani a te", per le quali parole lo incolse una gran paura.
[888]
Cercai subito dal signor Sidney Smith Launders, console commerciale britannico ad Alessandria, che il fatto mio riguardava in quanto che in Egitto era considerato come una cosa di commercio. Gli consegnai una lettera scrittagli per me dal Cairo dal console generale inglese Colquehonn e io gli spiegavo come stava la mia faccenda. Il console mi trattò molto amichevolmente, ma restò sorpreso alla mia supplica, e mi negò la sua assistenza; infatti egli aveva dovuto immischiarsi già altre volte in questi affari di neri del P. Olivieri, la qual cosa l'aveva seccato molto, perché, quando si trattava di neri, aveva trovato il governo egiziano sempre ostile. Lo supplicai con le lagrime agli occhi di prestarmi appoggio lo stesso presso il Pascià di Alessandria e di poter far valere davanti a lui il firmano del vicerè Said che conteneva ordini. Con rincrescimento ma mi negò il suo aiuto. Allora io gli dissi con tutta l'energia: "Voi siete obbligato a interessarvi presso il Pascià per questi neri, che sono non già schiavi, ma sudditi inglesi. Il governo egiziano con ciò stesso che li ha messi in prigione e non vuol lasciarli partire da Alessandria, ha abusato del suo potere, ha leso i diritti di uomini liberi, ha offeso il governo inglese disprezzando il sigillo e la firma di un governatore inglese. Voi ad Alessandria rappresentate l'Inghilterra. E perciò dovete vendicare l'onta recata al nome e all'autorità inglese".
Il console allora riconobbe il suo dovere e volle prestarmi la sua protezione; ma l'ingerirsi in quest'affare gli costò sacrificio. Molto afflitto per questo io gli dissi: "Se voi non vi convincete che il nome del governo inglese è stato gravemente offeso dal governo egiziano per essersi rifiutato di lasciar salpare da Alessandria per l'Europa questi fanciulli, sudditi di sua Maestà la regina Vittoria muniti di passaporti inglesi, mi sento obbligato ad andare io stesso a Londra e a portare l'affare dinanzi allo stesso governo inglese, un passo dal quale voi certo ricaverete nessuna lode. Pensate bene che in forza del vostro dovere voi siete obbligato a proteggere questi fanciulli e a impedire che il nome inglese sia disprezzato".
[889]
Sir Sidney allora conobbe quello che doveva fare e, quando andai dal Rascid, governatore di Alessandria, mi diede il suo interprete.
Le mie minacce avevano prodotto sul capodogana una impressione tale, che subito dopo la mia liberazione dal carcere se n'era andato dal Pascià e gli aveva raccontato a modo suo l'affare dei neri. Giunti al Divano davanti al Pascià Rascid, io presi la parola e dissi il Pascià: "Perché i vostri doganieri non hanno permesso ai miei indianelli il passaggio per il porto di Alessandria verso il bastimento francese, nonostante che portassero con sé passaporti in regola e il firmano dell'Effendina (= nostro signore), vicerè d'Egitto?". "I miei impiegati hanno fatto il loro dovere", rispose il Pascià, "perché questi anciulli non sono indiani, come lei ha dichiarato dinanzi all'Effendina Said. Sono convinto che siano schiavi abissini che lei ha comperato al Cairo o ad Alessandria e che per poterli portare in Europa lei ha corrotto alcuni ufficiali del consolato inglese i quali poi, hanno abusato del sigillo e del visto del console, avendo ei dichiarato che i fanciulli non erano abissini, ma che provenivano dall'India. Gli indiani non sono neri, questi fanciulli invece sono neri. Il vicerè si lasciò gabbare dalla dichiarazione degli impiegati inglesi e concesse loro un firmano, senza aver visti i fanciulli. Lei ha commesso un grave delitto che verrà a costarle caro; glielo assicuro dal Dio misericordioso e buono: bism Allah errahmàn errahim".
A quest'accusa era facile rispondere.
[890]
Io risposi a Rascid Pascià: "Questi fanciulli non sono abissini, ma indiani, colui che vi ha detto che i fanciulli sono schiavi da me comperati al Cairo o ad Alessandria è un mentitore; essi sono indiani che vengono direttamente dall'India. Voi potete rivolgervi per questo al console francese che ha sentito molto parlare di me e dei miei ragazzi, e all'ambasciatore francese in Cina che è passato per Alessandria una settimana fa. Tre signori che al presente si trovano in città possono confermare questo fatto. Voi potete far telegrafare a Suez, dove si trova il "Du Chayla", che mi ha trasportato in Egitto con questi fanciulli. Infine voi dovrete ben dare valore anche al firmano del vicerè ed alle carte e passaporti che mi si diedero nelle Indie. Voi siete un uomo giusto, un figlio del profeta, il quale ha occhi puri, che non si lasciano offuscare dalle nubi dell'empietà. Esercitate perciò la giustizia e il vostro dovere; bism Allah errahmàn errahim".
[891]
Rascid Pascià sembrava persuaso, ma i suoi dubbi non lo lasciavano del tutto in pace, poiché egli mi disse: "Chi può garantirmi che questi fanciulli non siano abissini? Chi può provarmi in nome di Dio che siano indiani e che lei non li abbia comperati in Egitto?". "Queste carte", risposi io, mentre gli mostravo i passaporti firmati a Aden, "queste carte dimostrano che io dico il vero; se voi non lasciate passare i miei ragazzi voi disprezzate il sigillo della nazione inglese e io vi giuro da parte di Dio che l'Inghilterra vorrà da voi soddisfazione: bism Allah".
Questionammo così con animosità per una mezz'ora; il Pascià aveva una filastrocca di obiezioni ed io altrettanti argomenti per fargli apparir chiaro che i fanciulli erano sudditi del governo anglo-indiano. Lo sceicco dei doganieri, presente alla scena, sussurrò all'orecchio del governatore che la carnagione dei fanciulli era di colorito nero. Allora il Pascià volle vederli, protestando che se erano bianchi li metteva in libertà; ma in caso contrario li avrebbe tenuti in prigione. Ora la cosa diventava molto pericolosa per me, perché i fanciulli erano neri, circostanza molto pericolosa per me, se essa bastava a indurre ancor più il Pascià a seguire il consiglio e l'opinione dello sceicco. Più volte il Pascià mostrò desiderio di vedere i fanciulli dicendo: "Fate venir avanti i fanciulli; se sono bianchi, li metto in libertà, se no rimangono in arresto". "Per decidere la questione non è necessario vedere i fanciulli: il firmano del vicerè e i passaporti inglesi devono bastarvi".
[892]
"Ma io voglio vederli gli schiavi", diceva lui. Quattro volte mi rifiutai di condurgli davanti i fanciulli, perché ciò mi pareva troppo arrischiato. Ma alla fine dovetti cedere agli ordini del Pascià, e, accompagnato da due guardie, andai a prendere i fanciulli. Essi eran pieni di paura e nella prigionia avevano sofferto molto. Mostrai loro che li avrei presentati al grande Pascià, davanti al quale non dovevano parlare né arabo né abissino, ma soltanto indiano, altrimenti ne andava la loro testa. Questa cosa la ripetei più volte in indiano e li esortai a confidare in Dio che li avrebbe salvati.
Poi andai con i fanciulli e con le guardie da Rascid Pascià. Appena che fummo entrati nel grande divano, in cui stavano radunate più di 24 persone, tutto esclamarono: "Homma Hhabbaih Kollohom - sono tutti abissini". Io dicevo di no, perché, quantunque la fisionomia dei galla sia come quella degli abissini, tuttavia i galla non sono abissini. Ma si continuava lo stesso a dire che erano abissini e io da solo a sostenere che erano indiani. Dopo un lunga disputa, io mi rivolsi al Pascià e gli dissi: "Bene, se i miei fanciulli devono essere assolutamente abissini, fate chiamar qua qualcuno degli abissini che vivono in gran numero in Alessandria. Ordinate loro di far delle domande ai ragazzi e si vedrà chiaramente: se essi parlano o capiscono l'abissino, voi avete ragione e potrete tenerli in prigione, ma se non capiscono l'abissino, voi dovete metterli in libertà".
[893]
La mia proposta fu accettata da tutti i membri del grande Divano; si chiamarono lì subito tre abissini, che, appena visti i fanciulli, si dissero l'un l'altro: "Questi fanciulli vengono dalla nostra patria. Donde venite? Chi vi ha comperati? Dove avete visto per la prima volta il vostro padrone? Tutte queste domande erano molto insidiose. Ma i fanciulli non diedero risposta; invece ad ogni domanda rivolgevano gli occhi a me che in indiano ordinavo loro di tacere. Un abissino disse ai fanciulli: "Rispondete pure, o figli del profeta, il vostro signore comanda di rispondere". I fanciulli tuttavia facevano silenzio. Onde gli abissini dichiararono che i miei fanciulli evidentemente non capivano l'abissino e perciò non appartenevano alla loro nazione. In breve, ricorderò che il Pascià fece venire degli indiani, che erano impiegati presso il consolato inglese. Rivolsero ai fanciulli ogni sorta di domande, e questi risposero assai bene. Gli indiani dichiararono che i fanciulli parlavano l'indiano appena un pochino; ma io affermai che lo sapevano bene.
[894]
Nel dialogo il piccolo Bullo per poco non mi compromise, avendo egli risposto una volta di essere galla. Per fortuna però la risposta pronunciata timidamente non fu percepita e Dio mi aiutò a riparare il danno che poteva derivarne a me, rivolgendo la parola a Giovanni che sapeva benissimo l'indiano. Allora finalmente gli indiani dichiararono al Pascià che i fanciulli erano indiani. "Ora riconosco che sono veramente indiani", disse questi e ordinò di mettere i fanciulli a mia disposizione e di lasciarci partire liberamente per l'Europa. Appena Rascid ebbe dato quest'ordine, lo sceicco divenne pallido. Memore della parola che io gli avevo detto "se in tre ore non mi mettete in libertà i fanciulli, vi giuro per la barba del profeta che non sarete più sicuro della vostra testa" pensava che fosse giunto il momento della mia vendetta. E quindi egli voleva giungere fino al punto da rendermi innocuo. Tutto fuori di sé per la paura si avvicinò al Pascià e gli disse con risolutezza: "Effendina (signor nostro), vi giuro in nome del profeta che questi fanciulli non sono indiani ma abissini. Sono stato più volte in India ma non ho mai incontrato indiani di questo colore. Gli indiani sono quasi bianchi, mentre questi ragazzi sono neri". E infatti aveva ragione, perché gli indiani hanno un colorito diverso da quello degli abissini. Allora il Pascià mi ordinò di discolparmi.
[895]
Io mi trovavo in serio imbarazzo. Mai io avevo invocato con tanto fervore Dio e la Santa Vergine, Regina della Nigrizia, come in questa congiuntura in cui con tanta facilità potevano andar perdute le mie fatiche. Riprendendo animo, diedi uno sguardo di fuoco allo sceicco e in presenza del Pascià: "Può essere benissimo che voi abbiate visitato più volte l'India, ma non credo che siate stato in tutta l'India, altrimenti avreste visto certamente indigeni di questo colorito. L'India è molto grande e, com'è verosimile, voi aveste per meta del vostro viaggio i porti, come: Madras, Calcutta, Bombay, Mangalore, ecc., ma certamente noi non avete visitato l'interno dell'India. Ove vi sono molti territori e città che a voi non sono noti che di nome. Come potete perciò sostenere di conoscere le popolazioni dell'India ed esternare la persuasione che i miei fanciulli non siano indiani?".
[896]
A queste parole il povero sceicco cadde nella più grande costernazione e si vide completamente perduto. "Si, lei ha ragione", rispose costernato, "io non ero mai stato nell'interno dell'India e dei paesi indiani di cui lei mi parla. Si trovano forse presso il Capo di Gal?". "Oh no", gli risposi, "questi territori sono molto più distanti ancora dal Capo di Gal". Si può immaginare quanto io rimanessi lieto al vedere lo sceicco farsi così umile e come io abbia ringraziato di cuore il Signore per il suo pronto aiuto. Dopo questa violenta discussione il Pascià si levò dal suo seggio, prese le mie mani nelle sue e mi disse: "Oquod esteriahh - si segga, si risposi - Vedo chiaramente che lei ha ragione e che questi fanciulli sono indiani; le sue parole si accordano pienamente con le sue carte, perciò non le voglio neppur esaminare le sue carte, poiché mi basta la sua parola; lei è l'uomo della verità e della giustizia; la sua bocca non ha che da aprirsi per ordinare alla mia di far adempiere la sua volontà".
Dettemi queste parole, fece venire chibbuk e caffè; fumai e bevvi, alla salute del Pascià, il quale mi fece le più lusinghiere promesse d'amicizia. Io cercai nel frattempo di dare un'altra piega al discorso e gli dissi che lui era un uomo giusto e che tutta Alessandria risuonava di lodi a lui. Questo era vero. Poi congedatomi coi salam alèk, me ne andai coi miei ragazzi. Appena discesi le scale del palazzo, mi si avvicinò lo sceicco e mi disse: "Sua Altezza ha trovato giustizia secondo il merito; io pensavo che i fanciulli fossero abissini, ma ora sono persuaso che sono indiani. Possa la sua faccia esser risplendente e la sua bocca parlare solo di pace: la allah ila allah ou Mahhommed rassielallah" (non c'è Dio fuori di Dio e Maometto è il suo profeta). Allora io lo fissai con occhi di bracia e gli risposi: "Se io fossi musulmano e figlio del profeta come lo è lei, mi vendicherei di lei e la sua scelleratezza le verrebbe a costare cara, ma io aborrisco il profeta e il suo corano, che comanda la vendetta; io seguo il Vangelo di Gesù Cristo che vuole si perdoni al nemico; perciò io le perdono di tutto cuore e voglio dimenticare tutto ciò che di male lei mi ha fatto; i miei sono sguardi di pace e la mia bocca ha detto le parole del perdono".
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Appena io ebbi proferito queste parole, lo sceicco mi si gettò ai piedi, mi baciò il lembo del mantello esclamando: "La felicità abiti sempre in lei, siano benedetti la barba di suo padre e gli occhi di sua madre. Possa vedere figli e nipoti fino alla terza e quarta generazione; nel chaallah possiate essere eternamente felice ecc.". Poi si alzò e, scambiati e sallamalèk, io me n'andai nella casa dove avevo messo in alloggio i miei ragazzi al nostro arrivo ad Alessandria.
Queste dispute durarono fino al tramonto del sole; intanto il bastimento francese che ci doveva portare a Marsiglia se n'era andato. Ma due giorni dopo presi il bastimento austriaco Lloyd, e per Corfù decisi di navigare alla volta di Trieste. L'Ambasciata francese ebbe la bontà di imprestarmi il denaro. Mi feci dare 60 ghinee e cercai di partire, poiché temevo che i nemici del cattolicesimo denunciassero al governo che i miei fanciulli non erano indigeni dell'India. Coll'agente del Lloyd austriaco presi accordi per fissare a 1210 fr. il viaggio da Alessandria a Trieste e montai sul "Nettuno" con i 9 neri e con la nera Caterina Zenab.
[898]
Arrivati al porto di Alessandria trovammo lo sceicco che ci aveva tenuto pronta una comoda barca che ci portò gratis al piroscafo austriaco. La traversata durò non 5, ma 8 giorni; essendo stati assaliti da una tremenda burrasca, la più furiosa che il capitano avesse visto in 20 anni da lui trascorsi sul Mediterraneo. I fanciulli restavano attoniti al vedere i monti dell'isola di Candia biancheggiare; essi non avevano mai visto la neve. Il Nettuno, che era comandato da uno dei più bravi capitani del Lloyd austriaco, lungo la costa dalmata dovette ritornare indietro a Corfù. Tuttavia questa burrasca non fu la più tremenda delle 8 (otto) da me subite nei viaggi che questa piccola impresa mi aveva costretto a fare. Ma Dio mi protesse visibilmente fino al nostro felice arrivo a Verona che ebbe luogo il 14 aprile 1861. La Provvidenza mi aiutò anche a pagare in breve i debiti contratti ad Alessandria. Dio sia lodato in eterno!
[899]
Durante la fermata dei miei neri ad Alessandria, era stato raccontato loro dai musulmani che gli europei comperavano i neri per ingrassarli e poi mangiarli. La testa dei fanciulli non si liberò più da questo pregiudizio, tanto più che l'avevano sentito dire già altre volte dai musulmani anche prima a Zanzibar, e a Aden; più di tutti ne era spaventato Pietro Bullo.
[900]
Una volta ad Alessandria attraverso una finestra prospicente la loro abitazione era stato assicurato loro da un arabo che gli europei uccidevano i neri e con le loro teste, dopo averne estratto il cervello, preparavano uno squisito arrosto. Udita una simil cosa, il piccolo Pietro fuggì di casa e lo trovai soltanto dopo lunghe ricerche su un mercato di Alessandria. Ora quando sul "Nettuno" egli si vide davanti una tavola apparecchiata con pietanze varie non si potè indurlo in nessun modo a mangiare. Mi guardò più volte tutto stralunato poi mi disse: "So benissimo perché ci pone davanti tanta roba; lei vuole ingrassarci per poi mangiarci". Ma nel viaggio da Trieste a Verona mi riuscì di persuaderlo del contrario.
Capitatami l'occasione propizia una volta gli dissi: "Senti, Pierino mio, sai quanto mi sei costato da Aden fin qua?". "Molto", mi rispose. "Sai tu forse, continuai, quanto costa una mucca al tuo paese?". "Molto poco", pensò. "Orbene, con le centinaia di talleri che mi sei costato, al tuo paese io avrei potuto comperare ben 20 mucche; se io ti avessi comperato effettivamente con l'intenzione di mangiarti, sarei stato senz'altro un pazzo, perché avrei da mangiare più con 20 mucche, che non con te che sei più piccolo di una sola mucca". Questo ragionamento convinse lui; come pure gli altri fanciulli, e non pensarono più che io li avessi comperati per mangiarli.
[901]
Il piccolo Pietro possedeva qualità straordinarie; quando fu rapito dai giallaba sapeva soltanto il galla e l'abissino; ma nel viaggio dai Galla a Aden e da Aden a Verona imparò abbastanza l'arabo e precisamente la pura lingua dell'Yemen. Nella sua dimora tra gli indiani di Aden imparò assai bene l'indù e 6 mesi dopo il suo arrivo a Verona parlava assai correntemente anche l'italiano; nella scuola faceva grandi progressi; era di una perspicacia straordinaria, e voleva saper sempre la causa e il perché delle cose. Nelle scuole pubbliche d'Europa avrebbe potuto fare una riuscita più splendida degli scolari più esperti. Ma soprattutto era da rilevare il suo modo di sentire prettamente cattolico e il suo sublime concetto della morale cristiana; ultimamente era così scolpita nel suo cuore da aborrire il peccato in una maniera da far stupire.
[902]
Preferiva le conversazioni devote, s'intratteneva con predilezione sulla vita di Gesù Cristo, dei suoi santi e soprattutto dei suoi martiri. Inoltre aveva un desiderio ardente del martirio per Cristo Gesù; questo desiderio egli me lo manifestò più volte. Era di natura collerico, ma per ammansirlo bastava solo ricordargli il Salvatore crocifisso. Che egli avesse una grande inclinazione alla pietà si può vederlo da quanto abbiamo detto. Pregava con un fervore ardente e il suono della campana che lo chiamava all'adempimento dei suoi doveri religiosi per lui era la cosa più piacevole che potesse udire. Non posso descrivere la devozione e il raccoglimento con il quale due volte alla settimana si accostava alla S. Comunione. Benché i ragazzi dell'istituto di Verona solessero confessarsi solo ogni 15 giorni, Pietro, come pure la maggioranza dei suoi compatrioti, vi andavano ogni sabato e nelle feste principali si accostavano ai SS. Sacramenti. Pietro, Giovanni e Battista erano modelli di pietà per tutti i collegiali e per gli stessi Superiori che più volte assicurarono di voler educare 200 giovani galla, piuttosto che una dozzina di italiani e di europei in generale.
Il nostro Pierino aveva aborrimento in modo speciale della bugia; ascoltai spesso la confessione delle sue colpe e delle azioni che egli riteneva peccaminose, ma non si accusò mai di una sola bugia. Sono dell'opinione che ciò sia dovuto anche al carattere dei galla, i quali in questo si differenziano dagli altri Africani, che non dicono mai la verità e adulano la gente. Invece i galla amano la verità e Pietro non avrebbe detto una bugia neanche se con ciò avesse potuto salvare la sua vita. Inoltre egli possedeva un alto grado le virtù dell'abnegazione e dell'umiltà; aveva paura sempre di far male e chiedeva spesso ai suoi Superiori se questa cosa e quest'altra fosse lecita.
[903]
Voglio passare sotto silenzio le altre virtù che ornavano la sua bell'anima, inclinata alla meditazione e alla solitudine. Negli ultimi mesi della sua malattia era molto tranquillo e cercava in modo tutto particolare il raccoglimento; credo che ciò avesse il suo perché nella malattia, da cui era stato colpito. Quando l'ottobre dell'anno scorso io mi misi in viaggio per la Germania, prima della mia partenza venne ancor una volta nella mia stanza e mi disse: "Lei parte, Padre mio, ma non mi rivedrà più; perché quando sarà di ritorno io sarò già morto; io sento che morirò". Nell'estate noi l'avevamo esonerato dallo studio e mandato a Roveredo, ove passò tre mesi sotto la cura di un insigne dottore e dove era stato messo in pigione presso una famiglia che lo stimava molto e lo trattava con delicatezza materna. Tornò a Verona guarito e ricominciò a studiare; ma in settembre lo colpì di nuovo la sua malattia e, nonostante si sia rimesso ancora un pochino, la sua vita andò verso il tramonto.
[904]
In novembre tutti i galla, eccetto Antonio, furono colpiti da una malattia contagiosa che io avevo trovato solamente in Africa.
Mi si assicurò che Pietro la sopportò con ammirabile pazienza, anzi perfino con gioia. Io stesso lo scorso settembre lo sentii dire in mezzo ai dolori più atroci: "Ancor più mio Dio, fammi soffrire di più ancora, poiché tu sei morto in croce per me". Con tali sentimenti e munito del santo Viatico se ne moriva il gennaio 1864, risplendente di gioia celestiale.
[905]
Mando qui acclusa la mia relazione che, accolta negli Annali, aiuterà a promuovere l'opera di bene alla quale ci siamo consacrati.
Anzitutto devo annunciarle che giovedì scorso, 19 settembre, ebbi udienza dal S. Padre. Così ho potuto parlare a Sua Santità della sua Società e dal S. Padre ho ottenuto per la Società e soprattutto per i membri della presidenza una benedizione che le invio mediante questa mia. Informai Sua Em. il Card. Barnabò, Prefetto della S. Congregazione de Propaganda Fide, del molto bene che la sua preziosa Società va facendo e anche lui benedisse al suo nobile e difficile lavoro. Poi ebbi lettera da Marsiglia, nella quale Don Biagio Verri mi comunica che Don Olivieri è gravemente ammalato e che ne morrà.
[906]
Ho potuto raccogliere molte notizie sulla vita di questo sant'uomo. Due sacerdoti dell'età dell'Olivieri, convissuti con lui dalla sua infanzia fino al 1840, mi hanno dato molte informazioni sulla sua vita prima dell'inizio della sua opera per il riscatto dei neri. Casamara, Padre trinitario a Roma, e varie altre rispettabili personalità mi diedero molti particolari circa la storia della sua attività missionaria e me ne daranno ancora. Così, benché la cosa non sia facile, tuttavia con un po' di pazienza posso sperare di riuscire a stendere una biografia completa di quest'uomo straordinario.
[907]
Nella mia assenza da Verona, tiene il mio posto Don Francesco Bricolo, Direttore dell'Istituto Mazza. Vengo a sapere or ora da lui che anche Antonio Dubale il quale alla mia partenza da Verona era sanissimo (come dicevo in principio della mia relazione) è stato colpito del comun morbo, sicché è rimasto sano solo Michele Ladoh.
[908]
A Francesco Amano si dovette amputare la gamba destra. Posso però assicurarLe che sono tutti veramente modelli di abnegazione e di pietà. Battista, cui si dovette amputare gran parte delle coscie, disse al chirurgo e a quelli che lo aiutavano: "Perdonatemi se vi reco tanti disturbi e vi ringrazio di cuore dell'amore e della pazienza che avete per me". E durante l'atroce operazione non cessò mai di pregare.
[909]
Salvatore, Gaetano e Pietro sono morti.
Riguardo al collegio delle negre la cosa va benissimo. Quando ci sarà stato l'esame finale di quest'anno e si saranno distribuiti i premi Le nominerò quelle che si sono particolarmente distinte.
L'innegabile realtà da una parte, che i neri non possono vivere in Europa, come noi abbiamo dolorosamente sperimentato a Napoli, a Roma e ultimamente a Verona, e d'altra parte il fatto che i missionari europei non reggono al clima dell'Africa Centrale, mi fanno pensare continuamente al rimedio e mi spingono a mettere in effetto le idee che mi sono venute in mente l'anno scorso durante la mia presenza in Colonia. Attualmente mi trovo a Roma appunto per trattare con la S. Sede e particolarmente con la S. Congregazione de Propaganda Fide, circa un nuovo piano riguardante la missione africana. Questo piano io l'ho messo in iscritto e sottoposto a Propaganda. Esso non si limita soltanto alla vecchia missione dell'Africa Centrale, ma si estende a tutta la grande famiglia dei neri e abbraccia così tutta l'Africa.
[910]
Prima che questo piano abbia l'approvazione ecclesiastica, io per incarico del Card. Barnabò devo fare un viaggio, onde mettermi in relazione con tutte le Società e Compagnie religiose che fino ad oggi lavorano per la missione africana, quindi con il P. Olivieri, con Don Mazza, col P. Lodovico da Casoria, con la Società della propagazione della fede di Lione e di Parigi, con l'ordine francescano, con le società spagnole ecc.
[911]
Il S. Padre, al quale ho esposto il mio piano, ne è lietissimo e lo benedice. Egli, come si espresse, desidera chiamare a una battaglia generale, tutte le forze lavoranti alla conversione dell'Africa, affinché "viribus unitis" prendano d'assalto la cristianizzazione dei neri. Mi pare che il Piano da me sottoposto al Barnabò risponda bene allo scopo. Naturalmente, quando io avrò conosciuto le opinioni e le deliberazioni delle singole società e mi sarò fatta un'idea precisa della condizione dell'Africa e particolarmente della situazione dei singoli punti delle missioni, vi conformerò il mio piano. Quando poi con l'aiuto e il consiglio di molti uomini esperti si saranno fatti i primi passi, Dio ci mostrerà senz'altro la via giusta per la riabilitazione della razza nera.
[912]
Quello che hanno in mente il S. Padre e la S. Congregazione è semplice: non limitarsi a una parte dell'Africa, ma aver di mira tutta la razza nera, avendo essa tutti gli stessi costumi, le stesse abitudini e difetti e la stessa natura quindi si può venir loro incontro a tutti con gli stessi mezzi e con gli stessi medicamenti.
Se il mio piano viene approvato, la Società di Colonia, alla quale auguro tanto che si estenda sempre più, da ruscello diventerà un gran fiume.
[913]
Preghiamo intanto il Signore e la Regina della Nigrizia che benedicano me, che mi sono consacrato incondizionatamente alla conversione dell'Africa, e benedicano e propaghino il mio piano, che sarà destinato a fornire i mezzi per l'attuazione di questo piano.
Ricevano Lei e tutti i membri della Società i più sinceri sensi di ringraziamento, di stima e di affetto
Suo affezionatissimo
Daniele Comboni Miss. Ap.co
Traduzione dal tedesco.