XXIII Settimana del Tempo Ordinario – Anno B: ““Fa udire i sordi e fa parlare i muti!””

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Nella lettura di oggi, Marco presenta a Gesù in territorio “pagano”, in una regione dove abitavano persone che non praticavano la religione ebrea, quella di Gesù stesso. Ma, aldilà delle differenze religiose o culturali tra gli abitanti della Decapoli e quelli di Nazareth o Gerusalemme, davanti a Gesù c’è un uomo concreto, con un problema “umano”, che lo è tanto per credenti come per i non credenti, ricchi e poveri, colti e analfabeta: quell’uomo è sordomuto, una condizione fondamentale della sua umanità. (...)

GESÙ GUARISCE LA COMUNICAZIONE

Fa udire i sordi e fa parlare i muti!
Marco 7,31-37

L’episodio della guarigione del sordomuto raccontato nel vangelo di oggi si trova solo in San Marco. Viene situato fuori dai confini della Palestina, nella Decàpoli, in territorio pagano. L’annotazione geografica è un po’ strana perché Gesù per scendere verso il lago di Genesareth si sposta prima a nord (da Tiro verso Sidone, nell’attuale Libano) per poi scendere dal versante orientale del Giordano, in territorio della Decàpoli (nell’attuale Giordania). Gesù è uno “sconfinatore” e spesso non segue la via dritta, perché vuole raggiungere tutti sulle nostre vie tortuose e portare il vangelo nei vasti territori pagani della nostra vita.

Dice il testo che il sordomuto venne “portato” a Gesù da altre persone che “lo pregarono di imporgli la mano”. Troviamo altri casi nei vangeli in cui l’iniziativa per chiedere la guarigione di qualcuno è presa da altri. Ciò avviene particolarmente quando il malato è nell’impossibilità di recarsi da Gesù (vedi il paralitico di Cafarnao: Mc 2,1-12; e il cieco di Betsaida: Mc 8,22-26). Ma tutti abbiamo bisogno di “essere portati” dai fratelli e dalla comunità. Gesù allora “lo prende in disparte, lontano dalla folla”, non solo per evitare la pubblicità, ma per favorire un incontro personale con questo uomo.

La modalità di guarigione è piuttosto insolita: “gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!»”. Di solito basta un gesto o una parola di Gesù per operare la guarigione. Qui l’evangelista forse vuole sottolineare la nostra resistenza, da una parte, e il coinvolgimento di Gesù nella nostra situazione, dall’altra. Questo racconto ci ricorda la guarigione del cieco di Betsaida, in territorio della Galilea, che avverrà più tardi (Marco 8,22-26). Pagani o credenti, tutti abbiamo bisogno di essere guariti nei nostri sensi spirituali per avere un rapporto nuovo con Dio e con i fratelli. Così si avvera quanto Isaia aveva profetizzato nella prima lettura: “Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi. Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto”.

Spunti di riflessione

1. Tutto inizia dall’ascolto. Nella Sacra Scrittura il senso privilegiato nel rapporto con Dio è l’udito. Troviamo 1.159 volte il verbo ascoltare nel Primo Testamento, spesso avendo Dio come soggetto (biblista F. Armellini). Ecco perché il primo comandamento è Shemà Israel, Ascolta Israele (Dt 6,4). Essere sordo era una patologia grave, una sorta di maledizione perché impossibilitava l’ascolto della Torah. Ecco perché i profeti annunciavano per i tempi messianici: “Udranno in quel giorno i sordi le parole del libro” (Isaia 29,18). In realtà, il cammino del credente è una progressiva apertura e sensibilità verso l’ascolto: “Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come i discepoli. Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza” (Isaia 50,4-5).

Viviamo in una società acusticamente inquinata, con il rischio di una “otosclerosi”, l’indurimento del nostro orecchio, per assuefazione o per difesa. Questa “sordità fisica” può ripercuotersi nella sfera spirituale. La voce di Dio diventa una fra tante e, addirittura, sovrastata da altre voci amplificate dai media. Il credente ha un estremo bisogno di essere continuamente guarito dalla sordità del cuore.

2. Dall’ascolto nasce la parola. Dall’ascolto di Dio e del fratello nasce la parola vera, la comunicazione autentica. La guarigione della lingua è conseguente a quella dell’udito. All’apertura delle orecchie si sussegue lo scioglimento della lingua.

In un mondo iperconnesso cresce la Babele dell’incomunicabilità, che si manifesta nel linguaggio falso e manipolatore, nel bullismo e sopraffazione. La parola viene banalizzata, mortificata e resa insignificante, generando un blocco comunicativo, la solitudine e il mutismo. Questa situazione si ripercuote sia nell’ambito familiare e nei rapporti interpersonali che nella società e nella Chiesa.

Ci dovrebbe preoccupare in modo speciale l’afonia della Chiesa e del cristiano. Un cristiano afono difficilmente può comunicare la buona novella del vangelo. L’afonia della Chiesa rode la dimensione profetica della fede, col rischio di renderla complice dell’ingiustizia che dilaga nel mondo.

Cosa fare per “parlare correttamente” come l’uomo del vangelo? Come recuperare la voce profetica di “colui che grida nel deserto”, per far risuonare la Parola nei numerosi deserti del mondo di oggi?

Forse ci manca quella mezz’ora di silenzio di cui parla l’Apocalisse: “Quando l’Agnello aprì il settimo sigillo, si fece silenzio nel cielo per circa mezz’ora.” (8,1). Forse nella Chiesa siamo troppo abituati a salire in cattedra e meno a tacere e fare silenzio. Senza silenzio: non c’è discernimento per cogliere la “gravità” del momento che viviamo; non c’è sensibilità per aprirsi allo stupore dell’intervento divino; non c’è parola illuminata per leggere il presente! Come il profeta Elia, abbiamo bisogno di frequentare l’Oreb della nostra fede, la croce di Cristo, per cogliere la nuova modalità della presenza di Dio nella “voce del silenzio” (1Re 19,12).

Forse ci manca l’igiene mattutina dell’anima. Laviamo con cura le orecchie e la bocca, ma spesso trascuriamo il lavaggio delle orecchie e della bocca del cuore. Bisognerebbe ricordare, ogni mattina, l’evento del nostro battesimo e, immergendo in quelle acque le nostre mani, ripetere interiormente, in preghiera, l’Effatà battesimale: “Il Signore Gesù, che fece udire i sordi e parlare i muti, ti conceda di ascoltare presto la sua parola e di professare la tua fede, a lode e gloria di Dio Padre”!

P. Manuel João Pereira Correia, mccj

“Libero per ascoltare e per parlare”
Commentario a Mc 7, 31-37

Nella lettura di oggi, Marco presenta a Gesù in territorio “pagano”, in una regione dove abitavano persone che non praticavano la religione ebrea, quella di Gesù stesso. Ma, aldilà delle differenze religiose o culturali tra gli abitanti della Decapoli e quelli di Nazareth o Gerusalemme, davanti a Gesù c’è un uomo concreto, con un problema “umano”, che lo è tanto per credenti come per i non credenti, ricchi e poveri, colti e analfabeta: quell’uomo è sordomuto, una condizione fondamentale della sua umanità.

Sembra evidente che, in questo brano,  Marco vuole mostrarci, davanti a questo caso concreto di umanità bisognosa, qual è la missione di Gesù.

Lui usa il potere-amore di Dio (simbolizzato nell’imposizione delle mani) per liberare all’essere umano, non solo dalla sua sordità fisica, ma, soprattutto, da quella più profonda, quella sua incapacità di ascoltare Dio e gli altri, perché racchiuso in se stesso, nella sua auto-referenzialità. Da quella sordità procede la sua incapacità di comunicarsi autenticamente, veritieramente con gli altri.

Quando io ero un giovane prete, ho conosciuto un ragazzo di dieci anni a chi tutti consideravano sordomuto, finché una giovane religiosa cominciò a prestarli molta attenzione, a seguirlo da vicino, a mostrarli un amore concreto, sincero, gratuito e costante. Dopo un po’ di tempo, capì che aveva un problema fisico all’udito e lo portò dai dottori. Risolto quel problema (che prima tutti avevano trascurato), il bambino cominciò a sentire le parole e a ripeterle, imparando ad ascoltare e a parlare. Io sono rimasto colpito di vedere il grande potere dell’amore, capace di scattare impensati processi di liberazione.

Certo, non sempre succede così, anzi nella maggior parte dei casi, la persona deve tenersi quel suo problema e imparare a superarlo in altre maniere. Ma, come nel Vangelo, il tema qui non è tanto la sordità fisica quanto un tipo più profondo di incapacità di comunicazione: quella che ci porta a chiudere i canali di comunicazione e di amore con i membri della nostra famiglia, con i fratelli della mia comunità, con le persone di un’altra cultura, di idee politiche differenti, di altre religioni...

Sovente noi diventiamo “sordi” e “muti” nel cuore della nostra personalità: Ci rifiutiamo di ascoltare quello che gli altro hanno da dirci… e per la stessa ragione noi rimaniamo senza una parola “rilevante” da dire: una parola sincera, autentica, rilevante, liberatrice. Tutti ricordiamo il passaggio di Emmaus, dove Gesù si avvicina ai discepoli, cammina con loro e li ascolta; solo dopo dice parole illuminanti.

A volte sembra che le stesse comunità ecclesiali sono diventate sorde a mute: non ascoltano i gridi dell’umanità (migranti, rifugiati, giovani, coppie rotte, donne…), né ai profeti del nostro tempo che ci aprono cammini di libertà e solidarietà. Questa “sordità” ci fa diventare “muti”, incapaci di dire parole rilevanti, che costruiscano una nuova umanità.

Una Chiesa missionaria è una Chiesa che ascolta, libera dalla sordità dell’orgoglio e dall’arroganza. Soltanto così può diventare veramente liberatrice, annunziatrice di buone nuove.

Nell’Eucaristia Gesù “tocca” il nostro corpo. Chiediamoli di guarire la nostra sordità e liberi la nostra lingua perché possiamo essere suoi missionari, guariti a guaritori, in cammino verso la comunione con il Padre.

P. Antonio Villarino, mccj

Missione è ascolto di Dio e opzione per i poveri
Isaia  35,4-7°; Salmo  145; Giacomo  2,1-5; Marco  7,31-37

Riflessioni
Il brano evangelico inizia con un tocco di apertura a regioni e popoli lontani. Le indicazioni geografiche del Vangelo di Marco inquadrano il miracolo della guarigione del sordomuto in zone periferiche, lontane dai centri abituali del popolo ebraico. Tiro, Sidone, mare di Galilea, Decàpoli... (v. 31) corrispondono oggi al sud del Libano e alla regione settentrionale di Israele. Fanno parte degli attuali scenari di conflitti bellici che insanguinano vaste regioni del Medio Oriente. Per quelle strade, che erano zone di ‘pagani’ e di commercianti, passò un giorno Gesù, suscitando lo stupore di tutti: “Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!” (v. 37). Il miracolo della guarigione del sordomuto può avere anche un’applicazione emblematica alla situazione attuale del conflitto medio-orientale e di ogni altro conflitto: le soluzioni nascono ascoltandosi e dialogando.

Il messaggio della Parola di Dio in questa domenica è globale, va in profondità: è un invito ad ascoltare Dio e ascoltare il povero per amore di Dio, fino ad annunciargli che Dio fa bene ogni cosa (v. 37) e opera il bene per tutti, indistintamente. Il verbo ascoltare abbonda nell’Antico Testamento (più di 1100 volte), riferito in primo luogo a Dio che ascolta sempre il grido del povero; e riferito spesso all’uomo: “Ascolta, Israele...” (Dt 6,4). Perciò la sordità è considerata, nella Bibbia, una patologia grave, perché evoca il rifiuto della Parola di Dio. Quando Dio interviene per salvare il suo popolo, gli apre simbolicamente gli occhi, gli orecchi, la bocca... (I lettura), perché possa vedere, ascoltare, parlare, saltare: entrare, cioè, in contatto con Dio e con i fratelli. In questo modo, assicura il profeta, l’acqua vitale scorrerà anche nella steppa e nel deserto (v. 6-7).

Il primo servizio che dobbiamo rendere ai fratelli è quello dell’ascolto. Chi non sa ascoltare il proprio fratello, presto non saprà neppure ascoltare Dio, sarà sempre lui a parlare, anche con il Signore” (Dietrich Bonhöffer). Chi ha fatto veramente l’esperienza di ascoltare Dio, sa ascoltare anche il fratello e farsi suo accompagnatore per condurlo a Dio, come nel caso del sordomuto, che qualcuno condusse presso Gesù pregandolo di imporgli la mano (v. 32). Accompagnare, condurre altri è il gesto missionario per eccellenza, un gesto che corrisponde ai genitori, ai padrini, agli educatori nella fede..., nella consapevolezza, però, che solo Dio può pronunciare con efficacia l’effatà (apriti: v. 34), che tocca il cuore delle persone e le fa giungere alla fede.

Gli effetti del miracolo di Gesù sono descritti come apertura degli orecchi, come scioglimento della lingua, come correttezza nel parlare, come stupore e proclamazione missionaria del fatto avvenuto (v. 35-37). Il card. Carlo M. Martini, nella sua lettera pastorale “Effatà, Apriti” (Milano 1990) commentava: “Tale capacità di esprimersi diviene contagiosa e comunicativa… La barriera della comunicazione è caduta, la parola si espande come l’acqua che ha rotto le barriere di una diga. Lo stupore e la gioia si diffondono per le valli e le cittadine”. Nel mondo attuale, che insegue ad ogni costo la comunicazione rapida, on-line, resta la sfida di umanizzare la comunicazione, aprirne i canali a tutti i livelli e con ogni persona, con un’attenzione speciale ai più deboli e ai più lontani. (*)

Fra le persone da ascoltare  -che sono poi tutte le persone, senza esclusione di alcuna!-  Dio ci insegna che ci sono i ‘preferiti’, cioè i poveri. Egli dà coraggio ai più deboli, cura i malati e i derelitti (I lettura). Da parte sua, San Giacomo (II lettura) dichiara perversi (v. 4) i giudizi di quanti discriminano le persone in base alla condizione socio-economica e afferma un principio generale di condotta: “Dio non ha forse scelto i poveri agli occhi del mondo, che sono ricchi nella fede ed eredi del Regno?” (v. 5). Questa scelta dei poveri non deve escludere nessuno; non è un’opzione facoltativa o alternativa, ma un criterio di azione: è lo stile di Dio, e quindi diventa un’imposizione per l’attività pastorale e missionaria della Chiesa, come afferma con forza Giovanni Paolo II: “Stando alle inequivocabili parole del Vangelo, nella persona dei poveri c’è una Sua presenza speciale (di Cristo), che impone alla Chiesa un'opzione preferenziale per loro. Attraverso tale opzione, si testimonia lo stile dell'amore di Dio, la sua provvidenza, la sua misericordia” (Novo Millennio Ineunte, n. 49). Soltanto così l’annuncio missionario diventa credibile e universale.

Parola del Papa
(*)  “Gesù guarisce in terra pagana un sordomuto. Prima lo accoglie e si prende cura di lui con il linguaggio dei gesti, più immediati delle parole; e poi con un’espressione in lingua aramaica gli dice: «Effatà», cioè apriti, ridonando a quell’uomo udito e lingua... Possiamo vedere in questo segno l’ardente desiderio di Gesù di vincere nell’uomo la solitudine e l’incomunicabilità create dall’egoismo, per dare volto ad una nuova umanità, l’umanità dell’ascolto e della parola, del dialogo, della comunicazione, della comunione con Dio”.
Benedetto XVI
Omelia a Viterbo (6.9.2009)

A cura di: P. Romeo Ballan, MCCJ

Gli "incoraggiamenti" di Dio e la fiducia nella vita

Is 35,4-7; Salmo 145; Gc 2,1-5; Mc 7,31-37

L'intonazione tematica di questa domenica è data dal vangelo di Marco, che riporta il racconto di guarigione da parte di Gesù di un sordomuto nella regione della Decàpoli. L'acclamazione finale dei presenti. «Ha fatto bene ogni cosa; fa udire i sordi e fa parlare i muti» favorisce l'innesto del testo di Isaia (prima lettura), dove gli esiliati sono incoraggiati con l'annuncio della liberazione e il ritorno in patria con le immagini di risanamento dei ciechi e sordi: "Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si chiuderanno gli orecchi dei sordi". Questo brano, tratto dal grande poema apocalittico di Isaia 34 – 35, vi associa la riabilitazione del zoppo che "salterà come un cervo", e la guarigione del muto che "griderà di gioia". L'abbondanza d'acqua sarà tale che la "terra bruciata diventerà una palude, il luogo riarso si muterà una sorgenti d'acqua".

L'accento finale di questo testo di Isaia cade sulla gioia e la felicità e sull'annuncio che fuggiranno tristezza e pianto. Agli uomini preoccupati dalla prepotenza del male, sono rivolte parole di speranza messianica. Queste profezie o quest'oracolo profetico che annuncia l'imminente venuta del Signore, garanzia di salvezza, ha il suo compimento plenario in Gesù. Il mondo rischiava di diventare un deserto, ma con Gesù-Messia il deserto può fiorire. Non si tratta, quindi, di un generico ottimismo umano, ma di una certezza garantita da un Dio fedele che mantiene per sempre la sua promessa.

La stessa tematica con accenti analoghi si prolunga nel salmo (145) responsoriale, dove si passano in rassegna le grandi opere di Dio a favore dei poveri e degli oppressi. Questo inno tra i più classici apre l'ultima sezione del salterio, formata dai salmi 145 – 150 e chiamata 1' “Hallel finale” (il grande canto di lode che conclude la raccolta di preghiere dei fedeli di Israele), narra davvero lo stile dell'agire di Dio, re giusto e fedele, che viene a instaurare il suo regno di liberazione, di grazia, di giustizia e di pace.

Quindi i due testi dell'Antico Testamento preparano molto bene la comprensione del brano evangelico odierno. CRISTO lottando contro la sofferenza e contro il male esistenziale, eliminando i guasti visibili nell' uomo, riporta la creazione al suo splendore originale, o anzi inaugura la nuova creazione. Occorre quindi riconoscere nel gesto di Gesù che guarisce il sordomuto il segno che è giunto il tempo messianico della salvezza annunciata dai profeti. E ciò costituisce motivo di fiducia e di speranza, poiché dal momento che Dio ha iniziato la sua opera di salvezza, la porterà a compimento.

Spesso la nostra sordità e il nostro mutismo sono ricorrenti. Da oggi tocca a noi, come al miracolato del vangelo, di riacquistare immediatamente la capacità di ascoltare la parola di Dio e di proclamarla con l'esistenza quotidiana.
Don Joseph Ndoum

Fa udire i sordi e fa parlare i muti

Commento di Paolo Curtaz al Vangelo
Mc 7,31-37

Essere sordi, nella Bibbia, significa non accogliere il messaggio di salvezza di Dio. È Israele, di solito, a manifestare sordità, come ci ricorda la prima lettura di Isaia. Anche noi, travolti dalla mille cose da fare, attorniati da rumori, da chiacchiere, da opinioni, fatichiamo ad ascoltare il desiderio profondo di senso che portiamo nel cuore, fatichiamo a cercare Dio. Proprio come accade al protagonista del vangelo di oggi, un sordo muto.

Meglio, nel greco particolare di Marco, un sordo/balbuziente, che non riesce a farsi capire, che stenta a relazionarsi, destinato ad una chiusura al mondo esterno. Immagine dell’uomo contemporaneo, solo e narcisista, smarrito e alla ricerca di una qualche visibilità, tutto incentrato nella propria (improbabile e sempre più inaccessibile) realizzazione. L’insoddisfazione è la caratteristica principale dell’uomo post-moderno. E la nostra.

Fuori dal recinto

Al tempo di Gesù, si credeva che la santità fosse inversamente proporzionale alla distanza da Gerusalemme. La Giudea poteva ancora salvarsi, ma la Galilea e la Decapoli, oltre la Samaria, zone di confine, abitate da popolazioni miste, erano decisamente perdute. La Decapoli: dieci città a maggioranza pagana che Roma aveva voluto autonome dall’amministrazione ebrea, nella perfida politica del dividi et impera. I pii israeliti, per scendere a Gerusalemme, passavano oltre il Giordano, sulla strada che attraversava i territori pagani, ma senza mai entrare nelle città considerate perse.

Gesù, invece.

Inizia la sua predicazione proprio da lì, dalle tribù di Zabulon e Neftali, le prime a cadere sotto gli Assiri, seicento anni prima. Perché egli è venuto per i malati, non per giusti. Non fugge gli impuri e li condanna, come fanno i Perushim, i farisei. Li salva. La guarigione del Vangelo di oggi, fa esclamare alla folla: ha fatto bene ogni cosa, ha fatto vedere i ciechi, ha fatto udire i sordi! Solo chi non si aspetta la salvezza sa gioire così tanto della salvezza inattesa!

Guarigioni

È condotto da amici, il sordo/balbuziente. Sono sempre altri a condurci a Cristo, a parlarci di lui, a indicarcelo. La Chiesa, a volte incoerente e fragile, è la compagnia di coloro che conducono a Cristo. È questa la funzione della Chiesa, a questo “serve” la Chiesa: a rendere testimonianza al Maestro. Ma, lo sappiamo, ci vuole umiltà per farsi condurre. Il nostro mondo ha fatto dell’arroganza uno stile di vita: trovo molte persone che sanno tutto, che pontificano, che giudicano, specialmente le cose concernenti la fede, ma che non sanno davvero mettersi in discussione. Del vangelo sappiamo già tutto: ci siamo sorbiti quattro anni di catechesi, cosa c’è altro da imparare? Nulla, perché la fede è anzitutto incontro.

E dopo l’incontro, l’amore spinge alla conoscenza. Ma per incontrare occorre muoversi, uscire dalle proprie presunte certezze acquisite. Gesù porta il sordo/balbuziente in un luogo riservato. In mezzo al caos quotidiano e alla folla non riusciamo davvero ad ascoltare. La ricerca di fede avviene personalmente, cuore a cuore, in un atteggiamento reale di accoglienza. Dio ci parla ma, per accoglierlo, occorre zittirci.

Gesti

Gesù compie dei gesti di guarigione: sospira, tocca la lingua del malato. Allora si pensava che la saliva contenesse il fiato, Gesù intende trasmettere il proprio spirito all’uomo, e vi riesce. La nostra vita di fede ha bisogno di segni, di concretezza, di sacramenti. La fede scoperta è vissuta e celebrata, fatta si gesti in cui riconosciamo l’opera del Signore per noi, per l’umanità. Ma, e accade, se siamo guariti è per annunciare agli altri la nostra guarigione profonda.

In Marco, però, Gesù impone il silenzio. Perché? Gli esegeti ci suggeriscono che, forse, Gesù non voleva essere scambiato per un guaritore qualunque. La guarigione è sempre segno ed esplicitazione di qualcosa di profondo. Aggiungo io, birichino, che se dietro Marco c’è Pietro, allora forse ci vuole dire di non professare il messianismo di Gesù se prima non si è passati attraverso la croce. Abbiamo bisogno di cristiani guariti, di annunciatori di speranza, di credenti riconciliati. Noi che abbiamo udito le meraviglie di Dio possiamo proclamare come la folla: ha fatto bene ogni cosa.

Sogno e son desto

È per questo che Isaia, il grande e tenero Isaia, spalanca gli occhi davanti a un popolo rassegnato, sfiancato da settant’anni di prigionia a Babilonia, ormai convinto che Dio non ci sia più, e sogna. Sogna un ritorno, una terra in cui la sofferenza non esiste più e l’abbondanza delle acque che riempie i cuori. Un sogno che è anche quello di Dio e che si avvererà per Israele con il ritorno a Gerusalemme e, per noi, con la venuta del Regno.

Questa salvezza, questa buona notizia, questo gioioso annuncio, ammonisce Giacomo, deve essere visibile sin d’ora nelle nostre comunità. Se l’asfalto del conformismo ha appiattito l’attenzione al povero, Giacomo ci richiama con forza alle nostre responsabilità di salvati. La Chiesa, che è il popolo di chi è stato sanato dalle proprie ferite con l’olio della consolazione di Gesù, imita lo stesso gesto verso l’umanità fatta a pezzi e ferita dall’odio e dal peccato. Noi siamo il volto di Dio per il fratello perduto.

Ascoltare per rispondere
Is 35,4-7a; Sal 145; Gc 2,1-5; Mc 7,31-37

Commento di Mons. Follo

1) Effatà = apriti
Nel Vangelo di questa domenica, San Marco ci racconta di un miracolo fatto da Gesù mentre compie il suo lavoro di evangelizzazione nella regione pagana di Tiro. Il percorso descritto dall’Evangelista è molto significativo. Con una lunga deviazione Gesù cammina per una strada, che congiunge città e territori estranei alla tradizione religiosa di Israele. Il Messia percorre le frontiere della Galilea, alla ricerca di quella parte comune ad ogni uomo che viene prima di ogni frontiera, di ogni divisione politica, culturale, religiosa, razziale.

Operare in quella terra il miracolo significa l’apertura universale del Vangelo: ogni uomo e ogni donna, ovunque essi abitino e a qualunque cultura appartengano, possono essere raggiunti dalla Parola di Dio e toccati dalla Sua misericordia. In verità con il miracolo di oggi con cui Cristo guarisce un sordomuto abbiamo già avuto a che fare già nel giorno del battesimo, quando il sacerdote ha fatto su di noi esattamente quello che Gesù compì sul sordomuto.

Al centro del brano del Vangelo di oggi c’è una piccola parola che riassume tutto il messaggio e tutta l’opera di Cristo. San Marco la riporta nella lingua stessa in cui Gesù la pronunciò: “Effatà”, che significa: “Apriti”. C’è una chiusura interiore, che riguarda il nucleo profondo della persona, quello che la Bibbia chiama il “cuore”. È questo che Gesù è venuto ad “aprire”, a liberare, per renderci capaci di vivere pienamente la relazione con Dio e con gli altri. Ecco perché questa piccola parola, “Effatà – Apriti”, riassume in sé tutta la missione di Cristo. Egli si è fatto uomo perché l’uomo, reso interiormente sordo e muto dal peccato, diventi capace di ascoltare la voce di Dio, la voce dell’Amore che parla al suo cuore, e così impari a parlare a sua volta il linguaggio dell’amore, a comunicare con Dio e con gli altri. Per questo motivo la parola e il gesto dell’”effatà” sono stati inseriti nel Rito del Battesimo, come uno dei segni che ne spiegano il significato.

Toccandoci la bocca e le orecchie durante il rito del battesimo, il sacerdote ci ha detto: “Il Signore ti conceda di ascoltare presto la sua Parola e di professare la tua fede”. In questo rito dell’ “Effatà”, il sacerdote prego su di noi bambini perché potessimo presto ascoltare la Parola di Dio e professare la fede. Fin dall’inizio della nostra vita – quando non era ancora possibile comprendere le parole -ci è stato detto che l’ascolto della Parola è la nostra salvezza. Non è importante che la capiamo tutta e subito. I neonati non capiranno il significato intellettuale delle parole, ma sentono l’amore, da cui esse vengono, tant’è vero che rispondono con un sorriso alla mamma ed al papa che si rivolgono a loro con affetto grande e stupito.

Diventando grandi, abbiamo capito anche con l’intelligenza quelle parole che il cuore aveva da sempre percepito ed accolto. La prima lezione da trarre da ciò è che la sordità peggiore è quella del cuore. Se siamo sordi, non riusciamo a parlare: se siamo sordi all’amore che il Figlio di Dio ci ha mostrato, non riusciamo a comunicare correttamente né con Dio né con i fratelli e sorelle in umanità che Lui ci ha donato. “Che vita è la vostra, se non avete vita in comune e non c’è vita in comune se non nella lode a Dio” (T.S. Eliot, I cori della Rocca).

Dunque con la preghiera costante e frequente chiediamo al Signore che ridica anche oggi a ciascuno di noi: “Effatà – Apriti”, perché le nostre menti e i nostri cuori siano aperti alla sua Parola di Verità e Vita per ben camminare sulla Via.

2) Si diventa quello che si ama (cfr. Sant’Agostino)
Il significato spirituale del Vangelo di oggi è che Gesù guarisce il mutismo della bocca del cuore che è causato dalle orecchie sorde alla Verità, all’amore infinito di Dio. Agostino scriveva: “Ciascuno è ciò che ama. Ami la terra? Sarai terra. Ami Dio? Che cosa devo dire? Che tu sarai Dio? Io non oso dirlo per conto mio. Ascoltiamo piuttosto le Scritture: Io ho detto: ‘voi siete dei, e figli tutti dell’Altissimo’. Se, dunque, volete essere degli dei e figli dell’Altissimo, non amate il mondo, né le cose che sono nel mondo”. Dunque aprimo il cuore a Dio, il cui amore rompe il muro del nostro egocentrismo che ci impedisce di ascoltarLo. Chiediamo a Cristo, il cui dito che ha scritto sulla sabbia il cumulo di peccati della peccatrice perché il vento se li portasse via, di toccarci con la sua misericordia, che cancella inganni e peccati dalle nostre orecchie e della nostra bocca.

L’amore del suo cuore trafitto trafigga la corazza d’orgoglio che ci fa sordi al suo amore. E la sua saliva, che reca impresse le parole della sua stessa bocca, sciolga la nostra lingua perché canti il suo amore “eccessivo” per noi. Faticoso e lento il cammino verso Cristo. Come il sordomuto del vangelo di oggi lasciamoci condurre da Lui. Immedesimiamoci in questo miracolato e chiediamo a Gesù di aprire le orecchie del cuore e della mente alle sue parole di verità e di amore. Accogliendo la parola di Cristo: “Effatà – apriti” acquisteremo la capacità di ascoltare ed ascoltare la verità, la parola vera, quella che ci mette in cammino verso l’eternità, facendo risuonare nelle nostre parole la Parola. Solamente ascoltando la Parola diventiamo capaci di parola, di risposta.

Questo implica andare oltre allo “Shemà” (ascolta) di Israele ed essere il nuovo Israele che ha inizio dall’ascolto della Vergine Maria, che risponde sì (=fiat) al suo Creatore. Grazie a questo “sì” il Verbo, la Parola si è fatta carna e ci ha messo sulla bocca la preghiera cristiana per eccellenza: il Padre nostro. Al n° 85 dell’enciclica Laudato si’ Papa Francesco, riportando le parole di Giovanni Paolo II, scrive: “la ‘contemplazione’ del creato è paragonata all’ascoltare… una voce paradossale e silenziosa, che si aggiunge alla Rivelazione delle Sacre Scritture, per cui prestando attenzione l’essere umano impara a riconoscere se stesso in relazione alle altre creature. E mi domando (è sempre Papa Francesco che scrive): Se Gesù ‘Ha fatto bene ogni cosa’ (Mc 7,37), e Gesù è il Signore, il Dio che ha creato e fatto buona e bella ogni cosa, quando l’uomo ascolta il suo Signore e gli risponde può far tornare bella la creazione come Dio l’aveva pensata sin dal principio?”.

Ho fatto questa citazione per sottolineare che la preghiera di risposta a Dio che ci parla, implica non solamente quello che Dio dice attraverso la parola della bibbia. Lui “ha scritto” anche il libro della natura ed anche questo libro va letto e rispettato.

3) Le vergini consacrate: donne dell’ascolto e madri della Parola
Nella vita quotidiana c’è spesso l’abitudine di dire tante parole, e di sostituire la Parola con le chiacchere. L’atteggiamento e la “virtù” dell’ascolto sono poco praticati. Imitando in modo speciale la Madonna, Vergine dell’ascolto e Madre della Parola, le vergini consacrate conducono una vita che le rende donne dell’ascolto e madri della Parola. Sulla tipicità della loro preghiera, l’istruzione Ecclesia Sponsae Imago ai nn. 29 e 30 insegna: “La preghiera è per le consacrate una esigenza di amore per «rimirare la bellezza di Colui che le ama», e di comunione con l’Amato e con il mondo in cui sono radicate.

Per questo amano il silenzio contemplativo, che crea le condizioni favorevoli per ascoltare la Parola di Dio e conversare con lo Sposo cuore a cuore. Desiderose di approfondire la conoscenza di Lui e il dialogo della preghiera, acquisiscono familiarità con la rivelazione biblica, soprattutto attraverso la lectio divina e lo studio approfondito delle Scritture.

Riconoscono nella liturgia il luogo sorgivo della vita teologale, della comunione e della missione ecclesiale, e lasciano che la loro spiritualità prenda forma a partire dalla celebrazione dei Sacramenti e della Liturgia delle Ore in obbedienza al ritmo proprio dell’anno liturgico, in modo che trovino unità e orientamento anche le altre pratiche di preghiera, il cammino di ascesi e l’intera loro esistenza”.
[Zenit]