Tra le promesse esplicite di Gesù ce n’è una particolarmente consolante: «Troverete ristoro per la vostra vita» (Mt 11, 29). Si tratta della risposta a uno dei nostri desideri più profondi, che spesso si trova alla base di una certa stanchezza e insoddisfazione che sentiamo senza capirne bene il motivo. (...)
Matteo 11,25-30
Dopo il discorso apostolico (Matteo 10), troviamo adesso una sezione narrativa (Matteo 11-12), secondo il procedimento letterario caro a Matteo di alternare discorsi e racconti.
Questa sezione narrativa è caratterizzata da un clima di tensione crescente. Gesù si rende conto che il suo messaggio e la sua opera non sono capiti: Giovanni Battista ha dei dubbi sul suo messianismo; la gente si rivela capricciosa come i bambini; le città del lago, dove aveva fatto tanti miracoli, non si convertono; scribi e farisei gli si oppongono… Quindi Gesù si trova davanti all’insuccesso e alla prospettiva del fallimento! Questo è il contesto tragico del brano del vangelo di oggi.
Il testo è formato da tre paragrafi ben distinti: nel primo, la preghiera di lode che Gesù rivolge al Padre; nel secondo, lo stretto rapporto tra il Padre e il Figlio; nel terzo, il rapporto tra Gesù e noi, con l’invito ad andare da lui.
Il brano, in greco, inizia in un modo strano: “In quel tempo Gesù, rispondendo, disse…”, ma prima non troviamo nessuna domanda! Si direbbe che Gesù risponde all’interrogativo che questa situazione di apparente fallimento nella sua missione gli colloca! E qual è questa risposta? “Ti rendo lode, Padre”!
1. Gesù deluso, ma non scoraggiato!
Ci chiediamo: come mai Gesù, in questo contesto di opposizione e di fallimento reagisce con la preghiera della lode, con un suo “magnificat”? Gesù non si abbatte, non si scoraggia, come avremmo fatto noi. Anche se era deluso della chiusura e della mancanza di fede di tanti suoi ascoltatori e testimoni dei suoi miracoli. Gesù elabora questa situazione nella preghiera, nel colloquio con il Padre e scopre che il Padre porta avanti il suo piano di amore, non attraverso i sapienti e i dotti, ma con i piccoli.
Si tratta di una situazione molto attuale. Oggi assistiamo alla diserzione di tanti cristiani e alla marginalizzazione della fede cristiana nella cultura occidentale, e ci domandiamo a ché serve l’annuncio del vangelo in un simile contesto. Forse anche noi ci sentiamo delusi delle promesse di Dio che tardano in avverarsi! Siamo invecchiati con la speranza di una chiesa rinnovata… Ed è forte la tentazione della rassegnazione, dello scoraggiamento, del pessimismo cinico… Ebbene, Gesù ci invita al coraggio della preghiera per discernere da dove e verso dove soffia lo Spirito!
2. Nuova chiamata, a tutti: Venite, prendete, imparate!
Gesù esce dall’incontro col Padre riconfermato nella sua missione messianica: “Tutto è stato dato a me dal Padre mio!”. E riparte con i piccoli: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me”!
Chi è questo popolo stanco e oppresso? Quanti erano sotto il giogo della Legge. Per la tradizione rabbinica, infatti, il giogo era l’immagine della Legge: i 613 precetti ricavati dalla Scrittura e le migliaia di prescrizioni minori, che obbligavano a “filare dritto”! Il giogo rappresentava la schiavitù, dato che in genere erano gli schiavi a usarlo per trasportare carichi pesanti (vedi Levitico 26,13).
Gesù invita a spezzare quel giogo e ad andare da lui per trovare ristoro, cioè il riposo promesso da Dio al suo popolo (vedi lettera agli Ebrei 3-4). Di seguito, però, invita a prendere il suo giogo e a imparare da lui, “mite e umile di cuore”. Che possiamo imparare da lui, maestro dal cuore mite e umile, che non fa come gli scribi e i farisei che “legano fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente” (Matteo 23,4) ne siamo certi, ma non ci aspetteremmo questa associazione tra giogo e riposo.
Qual è questo giogo di Gesù? Il giogo era uno strumento di legno che univa due bestie, per arare o tirare il carro. Il giogo di Gesù è la croce, quella che lui ha caricato per noi, quindi è la nostra croce, è il nostro giogo! Gesù è il cireneo che si mette a nostro fianco. È il nostro partner, il nostro… coniuge! Sì, perché il termine coniuge deriva dal latino “cum-iugum”, cioè portare lo stesso giogo, condividere la stessa sorte, “coniugare”! Si tratta, quindi, di un’immagine sponsale!
Gesù afferma: “Il mio giogo è dolce e il mio peso leggero!”. Come mai è dolce? Perché è il giogo dell’amore! Come mai è leggero? Perché lui lo porta con noi!
Davanti a questo invito di Gesù ci sono due tentazioni. La prima è quella di voler spezzare ogni giogo, ogni vincolo, incluso quello “dolce e leggero” dell’amore. Come il falso profeta Anania che spezzò il giogo simbolico di Geremia, di legno, promettendo al popolo libertà e prosperità. Cosa può capitare in questo caso? Ritrovarsi con un giogo di ferro! (vedi Geremia 28).
La seconda tentazione è quella di riporre la nostra fiducia nel giogo delle leggi per assicurare l’ordine e il potere, sia questo in ambito sociale, ecclesiale, familiare o di qualunque altro genero, aumentando la fatica e l’oppressione e sacrificando la solidarietà e l’amore!
Esercizio settimanale di riflessione
– Come reagisco davanti ai fallimenti e delusioni?
– Chi è il mio “coniuge” nel portare la croce: Cristo o il nuovo messianismo culturale?
– “Voglio ringraziarti, Signore, per il dono della vita. Ho letto da qualche parte che gli uomini sono angeli con un’ala soltanto: possono volare solo rimanendo abbracciati. A volte, nei momenti di confidenza, oso pensare, Signore, che anche tu abbia un’ala soltanto. L’altra la tieni nascosta: forse per farmi capire che tu non vuoi volare senza di me” (don Tonino Bello)
P. Manuel João Pereira, comboniano
Castel d’Azzano (Verona), luglio 2023
Mt 11, 25-30
C’è un infantilismo nocivo che non ci permette di spiccare il volo della vita con libertà e responsabilità. C’è un’età infantile tipica di una determinata fase della storia personale. C’è anche un essere infanti tipico dei discepoli di Gesù, di coloro che “ancora non parlano” per condizione di vita e non per accidia o mollezza. L’essere piccoli dei cristiani è l’atteggiamento di chi desidera crescere, scoprire e imparare ad amare. «Se non ritornerete come bambini nella novità del cuore e della vita»: è il cammino lungo e faticoso di chi trova il senso del vivere non in certezze granitiche ma in domande provocanti, non in risultati appaganti ma in mete esaltanti, non in astuzia a buon mercato ma in semplicità di cuore. I piccoli secondo il Vangelo sono coloro ai quali viene s-velato il senso autentico della storia e di Dio. Si tratta di rivelazioni quotidiane e inattese sotto gli occhi di chi riesce a stupirsi del molto donato come poco: «Uomini, se volete una goccia almeno di gioia, alzatevi di buon mattino, guardate la faccia nuova della terra. La gioia è una stilla di rugiada che il sole disperderà... » (D. M. Turoldo).
Chi smarrisce il gusto della piccolezza diventa autosufficiente come “i saggi e i sapienti” — epiteti riconducibili a scribi e farisei — che si reputano all’altezza dei fatti complessi e delicati dell’esistenza e quindi esegeti autorevoli delle vite altrui alle quali applicare rigore e giudizi dimenticandosi del metro della misericordia. A chi non ritorna come bambino resta nascosta la bellezza del Regno di Dio perché la cercano in posti sbagliati e in scorciatoie disumanizzanti. Quanti semi di bontà e verità restano nascosti agli occhi di chi non ritorna bambino! Essere infanti allora è questione di stato d’animo: accogliere gli eventi e le cose come parte di una storia più grande della piccolezza umana. Sentirsi coinvolti nella bellezza infinita dell’amore tra il Padre e il Figlio, non per i meriti ma per dono, è la fonte più autentica della gioia («troverete ristoro per la vostra vita»). Non è forse racchiusa tutta qui la gioia del bambino: sentirsi al sicuro tra le braccia del padre?
[Roberto Oliva – L’Osservatore Romano]
Il “luogo”
dell’esistenza cristiana
Matteo 11, 25-30
Tra le promesse esplicite di Gesù ce n’è una particolarmente consolante: «Troverete ristoro per la vostra vita» (Mt 11, 29). Si tratta della risposta a uno dei nostri desideri più profondi, che spesso si trova alla base di una certa stanchezza e insoddisfazione che sentiamo senza capirne bene il motivo. A volte ci troviamo ad affrontare problemi grandi e drammatici, come è successo a molti nei tempi più acuti della pandemia o nell’attuale incertezza e instabilità che si respira dentro e intorno alle nostre case. Ma anche quando la situazione esterna non è così problematica, spesso abbiamo una sensazione di malessere e oppressione che si riassume in due frasi: “qui non sto bene” e “adesso non ho tempo”. Qui, cioè a casa mia, nel mio attuale lavoro, in mezzo ai vincoli che mi tengono bloccato e mi impediscono di andare altrove, dove penso che vivrei meglio. E adesso, cioè prima di questa scadenza che mi angoscia, in questa stagione troppo calda, in questo periodo in cui non ho mai tempo per me e, quando finalmente lo trovo, mi viene mal di testa… «Non si è mai contenti dove si sta», dice il controllore al Piccolo Principe che si domanda dove vadano i passeggeri sui treni che sfrecciano senza sosta.
Gesù sembra rispondere proprio a questo bisogno che ognuno sente nel profondo del cuore, quando dice: «Venite a me voi tutti che siete stanchi e oppressi e io vi darò ristoro» (Mt 11, 28). Non siamo abituati a pensare che a Dio stia a cuore il nostro riposo, come se la vita secondo il Vangelo fosse «una sorta di “ginnastica” di santità, qualcosa che le persone normali non riescono a fare», come disse una volta Ratzinger, mettendo in luce il frequente malinteso legato alla parola “eroico”, come se Dio pretendesse dalle sue creature una prestazione impeccabile: «Virtù eroica propriamente non significa che uno ha fatto grandi cose da sé, ma che nella sua vita appaiono realtà che non ha fatto lui, perché lui è stato trasparente e disponibile per l’opera di Dio».
È proprio il Creatore che ci ha insegnato che il bisogno di riposo è nel cuore della realtà, e l’ha fatto dedicando al riposo un intero giorno dei sette che hanno scandito la creazione. A Dio non interessa tanto la nostra efficienza quanto la nostra gioia, qui e adesso. L’invito di Gesù è duplice: «Venite», come a dire che il ristoro promesso lo troveremo insieme alle persone che abbiamo intorno a noi. I vincoli familiari, professionali e amicali non soltanto non sono ostacoli per la nostra gioia, ma sono l’unico luogo dove potremo mai trovarla. E «prendete il mio giogo sopra di voi»: nel momento in cui smetterai di subire i vincoli che hai e ti deciderai ad accoglierli, anzi a sceglierli con amore, ti accorgerai che «il mio giogo è dolce e il mio peso leggero» (Mt 11, 29). E i doveri che ti opprimono diventano più sostenibili, il luogo dove ti trovi più abitabile, il tempo più riposato. «È la vita ordinaria il vero “luogo” della vostra esistenza cristiana», insegna san Josemaría Escrivá: «Lì dove sono gli uomini vostri fratelli, lì dove sono le vostre aspirazioni, il vostro lavoro, lì dove si riversa il vostro amore, quello è il posto del vostro quotidiano incontro con Cristo».
Abbiamo bisogno di riscoprire che il Creatore vuole riposare con ognuno dei suoi figli, lì dove si trovano adesso, uno per uno e tutti insieme. Perché Dio è Padre di tutte le «cose create». E quando invece il luogo dove siamo ci sembra diventare una prigione, forse abbiamo bisogno di rivolgerci alla Madre di Dio che, come insegna sant’Anselmo, è «Madre delle cose ricreate». La Madonna è capace, in ogni luogo e in ogni momento, con la sua sensibilità femminile e materna, di farci ritrovare la via della ricreazione e della fiducia nel Padre.
[Carlo De Marchi – L’Osservatore Romano]
Dio
si rivela ai più semplici e ai più piccoli
Zc 9,9-10; Salmo 144; Rm 8,9.11-13; Mt 11,25-30
Il brano evangelico di questa domenica, che inizia con la lode di Gesù al Padre, è preparato dal testo profetico della prima lettura, tratta dal libro di Zaccaria. Questo testo riporta un oracolo di speranza maturato nel post esilio.
L’autore invita la comunità religiosa ad esultare grandemente e di giubilare per la venuta del suo re. Egli precisa le qualità di questo re ideale che giustificano il duplice insistente invito alla gioia: “Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino e un puledro figlio d’asina”. Il suo ruolo o la sua azione è quello di un re di pace: egli fa sparire gli strumenti caratteristici della guerra (i carri, i cavalli e l’arco) ed istaura una pace sicura “da mare a mare, e dal fiume ai confini della terra”.
Per noi cristiani, in questo re mite e pacifico vediamo la figura di Gesù di Nazaret. Impariamo inoltre che la vittoria del Signore non è nella prepotenza, ma nella giustizia. Non contano qui le sicurezze della regalità mondana, ma si trovano a valere soltanto l’umiltà e la mitezza. Perciò la tradizione evangelica non esita di riprendere, in una prospettiva cristologica, questo testo di Zaccaria per interpretare l’ingresso messianico di Gesù a Gerusalemme, prima della sua passione e morte. Dio re è celebrato anche nel salmo responsoriale che inizia con questa dichiarazione solenne: “O Dio, mio re, voglio esaltarti e benedire il tuo nome in eterno e per sempre”. La strofa successiva evidenzia il motivo dell’esaltazione e della benedizione, che corrisponde con le qualità distintive della signoria di Dio nella storia dell’alleanza: “Paziente e misericordioso è il Signore, lento all’ira e ricco di grazia…Buono è il Signore verso tutti, la sua tenerezza si espande su tutte le creature” e soprattutto ai suoi “fedeli”. Egli sostiene quelli che vacillano e rialza chiunque è caduto.
Nel brano evangelico, Gesù innalza al Padre una commovente preghiera: “Ti benedico, o Padre del cielo e della terra”. Segue la motivazione di questa benedizione iniziale: “Perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli”. Gesù confessa la bontà dell’opera di Dio nella storia a favore del suo popolo e riconosce il Padre come Signore dell’universo e della storia. I “piccoli” sono i credenti in Cristo, e il duplice appellativo dei “sapienti e intelligenti” designa i maestri della legge, quegli esperti della religione ebraica che si distinguono e separano dal “popolo ignorante”. Infatti, gli scaltri e chi è superbamente ingolfato, nei propri pregiudizi e nella propria bravura ed illusione, non è capace di com-prendere il mistero di Cristo, di conoscerlo e di amarlo. Tutto l’interesse del Padre è per i piccoli, perché neppure uno vada perduto. Essi sono destinatari della libera e benefica iniziativa del Padre, in quanto Egli fa conoscere a loro i misteri del regno dei cieli.
“Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò”. Gli affaticati ed oppressi sono i piccoli, tutti quelli che sono sottoposti al rigorismo soffocante e sterile dei “sapienti e intelligenti” che pretendono, con arroganza, di monopolizzare l’interpretazione della volontà di Dio. In antitesi con questi falsi maestri, che affaticano e opprimono la gente, Gesù si autopresenta come il maestro “mite e umile di cuore”, ed invita i suoi discepoli alla sua scola per imparare la sua stessa attitudine religiosa davanti al Padre: egli è il prototipo dei “poveri in spirito” che nel vangelo di Matteo sono i “miti”, i “misericordiosi” e i “pacificatori”.
Gesù rivolge il suo invito dicendo: “Prendete il mio giogo su di voi”. Nella tradizione biblica questa espressione indica l’impegno religioso a vivere nell’alleanza. Gesù, alla fine, precisa: Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero”. Questi due sinonimi, il giogo di Gesù e il suo carico, corrispondono all’impegno ad attuare la volontà del Padre concentrata nel comandamento dell’amore. Si tratta lì del bellissimo e facilissimo dono fatto dal Padre ai “piccoli” ed umili per mezzo di Gesù Cristo.
Don Joseph Ndoum
Gesù inaugura la Missione dalla pace,
piccolezza e povertà
Zaccaria 9,9-10; Salmo 144; Romani 8,9.11-13; Matteo 11,25-30
Riflessioni
Questo brano del Vangelo di Matteo va letto in parallelo con quello dell’evangelista Luca (10), il quale colloca questo passaggio della vita di Gesù in un contesto missionario: cioè, il ritorno gioioso dei discepoli dopo la loro prima esperienza di missione. Sia pur limitata nello spazio e nel tempo, era stata un’esperienza efficace, capace di sottomettere anche i demoni. Gesù invita i discepoli a non rallegrarsi per questo, quanto piuttosto perché i loro nomi “sono scritti nei cieli”, cioè nella mano e nel cuore di Dio. Luca continua: “In quello stesso istante Gesù esultò nello Spirito Santo e disse: «Io ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra…» (10,20-22). Queste brevi parole sono una ulteriore rivelazione della Trinità Santa: Padre, Figlio e Spirito!
Il testo di Matteo (11) si trova nel cuore del suo Vangelo e viene definito dagli studiosi come una grande manifestazione del mistero di Dio, un inno di giubilo nella Trinità Santa. È il Magnificat di Gesù, un’espressione del suo mondo interiore, come il Magnificat lo è per Maria (Lc 1). In effetti, questa preghiera di Gesù, riportata da Matteo y Luca, riprende tutto il programma delle Beatitudini (Mt 5,3s), con particolare attenzione ai poveri, miti, afflitti, misericordiosi, puri di cuore, operatori di pace, perseguitati... La pagina di Matteo ci offre uno sguardo panoramico su tutto il Vangelo di Gesù, che qui viene riassunto intorno ad alcuni temi fondamentali: la lode al Padre, Signore e Creatore (v. 25); la vita di intima comunione della Trinità (v. 27); l’atteggiamento compassionevole ed operoso di Gesù verso la sofferenza umana, offrendo ristoro a quanti sono “stanchi e oppressi” (v. 28); la nuova scuola e lo stile del Maestro, che dice a tutti: “Imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita ” (v. 29-30). Siamo alla scuola di un Maestro speciale: se lo contempliamo nella povertà di Betlemme e nell’umiliante sconfitta del Calvario, comprenderemo quanto siano diversi i cammini umani e i cammini di Dio (Is 55,8-9).
Dopo un periodo di polemiche con scribi e farisei, e dopo gli abbandoni da parte di alcuni discepoli, il bilancio umano del nuovo Maestro era certamente deludente, fallimentare. Gesù, però, lungi dall’abbandonare la sua missione o ritirarsi, si conferma nel cammino iniziato, loda e ringrazia il Padre per aver scelto i piccoli, gli ultimi, come destinatari privilegiati delle Sue straordinarie rivelazioni (v. 25-26).
L’ideale della Chiesa è di farsi discepola di Cristo, tanto nel messaggio come nello stile, fino al punto di poter dire a tutti i popoli: venite a me, voi tutti “stanchi e oppressi” di tutti i tempi e luoghi… imparate da me che sono mite e umile… troverete ristoro, il giogo vi si farà leggero… È questo il volto autentico ed attraente della Chiesa, l’unico che interessa alle moltitudini, e che i missionari e l’intera comunità cristiana sono chiamati a incarnare e proporre. Fra le più belle immagini della Chiesa vi sono queste due: la locanda e la casa di Paolo. La locanda, casa per tutti (pandokeion), alla quale il buon samaritano portò quel poveraccio incappato nei briganti (Lc 10,34); e la casa di Paolo, il quale, giunto prigioniero a Roma, viveva in una casa affittata, dove accoglieva tutti, annunziava il Regno di Dio e insegnava Gesù Cristo con franchezza (Atti 28,30-31). Due immagini che parlano di apertura e accoglienza, annuncio nella povertà e umiltà, coraggio evangelico (parresía). All’inizio del suo pontificato, Papa Francesco ha dato prova di questi valori evangelici nel viaggio a Lampedusa (8 luglio 2013), sua prima visita fuori di Roma. Da quel mare di tragedie inumane, egli lanciò al mondo intero un forte appello all’accoglienza e alla solidarietà, partendo dalle domande che Dio rivolse ad Adamo e a Caino dopo il loro peccato. (*)
Alcuni anni fa (2003) fui invitato in Guatemala a un Congresso missionario per tutto il Continente americano con un tema significativo: “La missione dalla piccolezza, la povertà e il martirio”. La Chiesa missionaria offre spesso questa immagine di umiltà, accoglienza e austerità, soprattutto nei paesi poveri del pianeta, ma anche nei meandri delle metropoli industrializzate. Questo stile di vita e di missione, inaugurato da Gesù, è possibile (II lettura) nella misura in cui lo Spirito di Dio abita in noi. Grazie alla Sua presenza, i frutti sicuri saranno la vita, la pace (v. 9.13). Il profeta Zaccaria (I lettura), da parte sua, presenta il sogno di un re giusto, pacifico e umile, che cavalca un asino (v. 9), che farà sparire i carri e i cavalli da guerra, e avrà un chiaro programma di pace per tutte le nazioni (v. 10).
Parola del Papa
(*) “Adamo, dove sei? È la prima domanda che Dio rivolge all’uomo dopo il peccato. E Adamo è un uomo disorientato… l’armonia si rompe, l’uomo sbaglia e questo si ripete anche nella relazione con l’altro che non è più il fratello da amare, ma semplicemente l’altro che disturba la mia vita, il mio benessere.
E Dio pone la seconda domanda: Caino, dov’è tuo fratello?... la voce del suo sangue grida fino a me, dice Dio… Queste due domande di Dio risuonano anche oggi, con tutta la loro forza!... Questa non è una domanda rivolta ad altri, è una domanda rivolta a me, a te, a ciascuno di noi. Quei nostri fratelli e sorelle cercavano di uscire da situazioni difficili; cercavano un posto migliore per sé e per le loro famiglie, ma hanno trovato la morte…
Chi è il responsabile del sangue di questi fratelli e sorelle? Nessuno! Tutti noi rispondiamo così: non sono io, io non c’entro, saranno altri, non certo io… abbiamo perso il senso della responsabilità fraterna… La cultura del benessere, che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri… porta alla globalizzazione dell’indifferenza... la sofferenza dell’altro non ci riguarda, non ci interessa, non è affare nostro!”
Papa Francesco
Omelia nella Messa a Lampedusa, 8 luglio 2013
P. Romeo Ballan, MCCJ
Il Battista è in carcere, in Galilea crescono rifiuto e ostilità, i miracoli di Cafarnao e di Betsaida non servono, eppure, nel pieno della crisi, Gesù benedice il Padre, fermandosi improvvisamente come incantato davanti ai suoi, ai piccoli.
Ora, le parole con cui si apre il brano evangelico odierno: “Ti benedico, Padre…”, sono introdotte nel testo originale in un modo un po’ strano: “In quel tempo rispondendo Gesù disse…”. Prima di questo versetto non c’è nessuna domanda e perciò la nostra versione CEI ha comodamente omesso quel rispondendo. Non più, Gesù rispondendo disse, ma Gesù disse. È vero che nessuno ha rivolto domande a Gesù, ma in questo caso c’è qualcosa di più grande a fare domanda. Quante volte anche per noi sono le situazioni a fare domanda, è la vita, è ciò che accade ad aprire le domande. E in genere si tratta delle domande più difficili.
Da quale situazione viene Gesù? Da diverse situazioni di delusione e amarezza. Lo ricordavamo all’inizio: il Battista in carcere, anch’egli sfiorato dal dubbio: “sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettarne un altro?”; poi l’incontentabilità della gente: era venuto il Battista ma non le andava bene perché troppo austero, era venuto Gesù e neanche lui andava bene perché era “uno che mangia e beve con i peccatori”; infine, le città nelle quali erano stati compiuti invano tanti miracoli. È tutto questo ad aprire una domanda nel cuore di Gesù. Per questo rispondendo disse. E che cosa risponde? Qualcosa che ci spiazza. Solitamente il nostro modo di rispondere a una situazione di delusione è il lamento, il mugugno. Quanto diversa la risposta di Gesù: “Ti benedico, Padre”. E il verbo originale potrebbe anche essere tradotto con: “Ti riconosco, Padre”.
È come se ci venisse detto, attraverso la vicenda di Gesù: guarda che la prima risposta alle situazioni dolorose della vita, quella più immediata è il lamento. Ma tu prova a guardare più a fondo la vita! Stando al criterio delle grandezze umane quello che registri è un insuccesso, non così dal punto di vista di Dio.
“Ti benedico, Padre”. Per fare nostra una simile esperienza dipende dal punto di osservazione. E per Gesù il punto di osservazione è il piccolo, sono le trame quotidiane della vita.
Il vangelo conosce una predilezione evidente per tutto ciò che è piccolo, umile. Non è possibile ignorare l’amore di Gesù per le creature fragili e oscure, per gli inizi incerti eppure tenaci, per il segreto di vita che è racchiuso nelle piccole cose. E allora ecco la predilezione per il bambino, il povero, il piccolo seme gettato, il granello di senapa. Tutte realtà che dietro un’apparente insignificanza, portano delle potenzialità segrete e promettenti.
Tuttavia, difficilmente, noi risuoniamo per delle cose insignificanti, umili. Per questo un giorno Gesù dovrà dire: “e beato chiunque non sarà scandalizzato di me”. Come a dire: non lasciatevi prendere troppo dall’immagine di un Messia potente, perché poi rimarreste delusi, scandalizzati di fronte a un Messia che non restituisce la vista a tutti i ciechi, che non fa camminare tutti gli zoppi della Palestina, un Messia che non apre le porte del carcere in cui è rinchiuso il Battista.
Di un Dio debole ci si può scandalizzare. Di un Dio forte no. È ovvio, è secondo le aspettative di tutti che Dio sia forte, potente.
Ma il Dio di Gesù Cristo non è e non sarà mai un Dio ovvio. Lo avvertiamo anche oggi, in questa liturgia, se ci misuriamo con le pagine della Scrittura che ci consegnano immagini e messaggi tutt’altro che ovvi e magari patiamo lo scandalo. Così come patiamo lo scandalo della debolezza di Dio, quasi quotidianamente, nella vita, quando vediamo la menzogna e l’arroganza vincenti, il povero senza voce, una giovane vita stroncata, l’amica che vive il dramma della separazione… e il miracolo? Il miracolo, semplicemente, non accade.
“E beato chiunque non sarà scandalizzato di me”.
Mi domando se non è da leggersi come un segno d’amore questo indebolimento di Dio, quasi un ritrarsi per far spazio ad altri.
Dio si è fatto debole forse anche per questo: perché nel cuore di ogni debolezza là dove un giorno saresti arrivato, tu trovassi il suo nome e il suo mistero. E dunque non scandalizzarti della tua debolezza. E non scandalizzarti della debolezza altrui.
Ma tu prova a guardare più a fondo la vita!
Don Antonio Savone
“In quel tempo Gesù disse…”. Così inizia il testo evangelico di questa 14a domenica del tempo per annum. Ma noi dobbiamo anche sapere qualcosa di “quel tempo”, per poter contestualizzare le parole di Gesù.
Siamo alla fine del capitolo 11 del vangelo secondo Matteo, un capitolo che potremmo definire carico di giudizi da parte di Gesù, un capitolo tragico. Gesù ha ormai iniziato il suo ministero da un po’ di tempo e registra però il fallimento, l’insuccesso della sua predicazione. Giovanni Battista, che era stato il suo maestro, che l’aveva battezzato e l’aveva presentato quale servo di Dio ai discepoli e alle folle accorse a lui, ora in carcere è assalito da dubbi sull’identità dello stesso Gesù. Per questo manda alcuni suoi discepoli a chiedergli, pronto all’assoluta obbedienza alla sua risposta: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?” (Mt 11,3).
La gente che segue Gesù costituisce uno strano uditorio: ascoltano ma non obbediscono. Non hanno obbedito a Giovanni, un asceta del deserto, e hanno concluso che era “indemoniato” (Mt 11,18); è venuto Gesù, “che mangia e beve” nella convivialità, e hanno concluso che “è un mangione e un beone, un amico di prostitute e di pubblici peccatori” (Mt 11,19). Poi Gesù guarda anche alle città in cui aveva predicato e operato – Corazin, Betsaida, Cafarnao –, e da profeta le giudica con severità (cf. Mt 11,20-24). Certo, molti di noi restano perplessi di fronte a queste parole violente, ma Gesù è un profeta e con diritto alza la voce per fare un appello alla conversione; minaccia, avverte con voce alta e forte, affinché avvenga la conversione. (Pier Paolo Pasolini nel “Vangelo secondo Matteo” ha ben rappresentato questo grido di Gesù, vero culmine artistico del suo meraviglioso film!).
Se le parole sono dure e il clima è quello del giudizio, in Gesù non c’è però abbattimento, scoraggiamento, dunque neppure nessun cinismo, tentazione in cui invece noi saremmo tentati di cadere. Anche nel fallimento e nel rifiuto incontrato dalla sua missione, Gesù non ha paura, non teme, ma si affida con fiducia al Padre. Non importa se la gente non ascolta, non importa se egli deve subire scacco e ostilità, perché c’è colui che è rifugio, che è fonte di forza e di saldezza: Dio. E così Gesù si rivolge a lui, innalzando una lode al Creatore, Signore del cielo e della terra, che si rivela a chi vuole. Lo chiama “Padre” dall’inizio alla fine della preghiera, ed esprime la sua lode a lui che rivela le cose del Regno ai piccoli e le nasconde agli intellettuali e ai sapienti.
Questo è il paradosso della venuta del Regno, che non è scacco per Dio, ma invece gioia e benevolenza. Solo gli umili e i poveri vedono che Dio alza il velo per loro sulle realtà del Regno, ma per chi si sente sapiente, per chi pensa di conoscere da sé la realtà, tutto è velato, nascosto… Sovente, infatti, l’intelligenza umana induce a essere orgogliosi, porta a una sorta di cecità, perché si è infatuati di ciò che si sa, ci si compiace delle proprie capacità. Le realtà del Regno e della fede cristiana stanno in una logica diversa da quella del sapere umano, addirittura possono collocarsi in una logica folle, quella della croce (cf. 1Cor 1,18; 2,1-2); i piccoli, i poveri, i semplici accedono a questa rivelazione, mentre agli altri è chiusa la porta della conoscenza del mistero del regno dei cieli (cf. Mt 13,11-17; Is 6,9-10).
Ecco allora la rivelazione dell’identità di Gesù: tutto gli è stato dato dal Padre, solo lui conosce il Padre e il Padre può essere conosciuto solo da colui al quale il Figlio lo rivela. Ancora una volta, ma questa volta nel vangelo secondo Matteo, ci viene detto lo specifico del cristianesimo (espresso altrove dal famoso exeghésato di Gv 1,18): solo Gesù può rivelare a noi il Padre, Dio, nessun altro può farlo! Dunque solo conoscendo Gesù di Nazaret come i vangeli ce lo testimoniano, possiamo conoscere il Dio vivente e vero.
Se questa è la rivelazione, ecco allora l’invito di Gesù, invito rivolto a quelli che sono piccoli e poveri, qui intravisti come coloro che faticano a essere credenti, schiacciati sotto il peso di tanti gioghi imposti dagli uomini e dalla religione. Essi vadano da Gesù, perché il suo giogo non è più quello della legge, ma è un giogo leggero e facile da portare. Andare da Gesù e diventare suoi discepoli significa trovare un uomo “mite e umile di cuore”, capace di accoglienza e di ospitalità, un uomo che ci lava i piedi, un uomo che ci perdona e non ci castiga, un uomo che ci ama anche se noi non lo meritiamo. Proprio così quest’uomo, Gesù, narrava Dio, mostrava Dio, e consentiva di trovare nella sua umanità le tracce di Dio, perché lui era il Figlio di Dio, la sua Parola fatta carne (cf. Gv 1,14).
Mt 11, 25-30
Le parole di Gesù che oggi abbiamo ascoltato sono introdotte nel testo greco in modo un po’ strano e oscuro. Dice il testo greco: “In quel tempo Gesù rispondendo disse…”. Ma siccome prima non c’è nessuna domanda, la versione CEI trova comodo eliminare la difficoltà, eliminando il verbo: non più “Gesù rispondendo disse”, ma “Gesù disse”. Sì, è vero, non c’è nessuna domanda rivolta a Gesù, né dai discepoli, né dalla folla. Ma forse si dimentica che a volte sono le situazioni che fanno domanda, è la vita, è ciò che accade che apre domande. E spesso sono le domande più difficili, quelle a cui è più difficile dare una risposta. E allora ci chiediamo: da quali situazioni viene Gesù? Se ripercorriamo i passi che precedono, ci accorgiamo che Gesù veniva da situazioni di delusione e amarezza.
Giovanni, il Battista, in carcere, anche lui sfiorato dal dubbio: “sei tu colui che viene o dobbiamo aspettarne un altro?”. E la gente: l’incontentabilità della gente. Non le andava bene il Battista, profeta austero, non le va bene ora il Cristo, “uno che mangia e beve coi peccatori”. E poi le città, le molte città in cui erano avvenuti miracoli e non avevano creduto. Ditemi voi se tutto questo -questo panorama di situazioni- non dovesse aprire domande non solo nella gente, ma ancor prima nel cuore di Gesù! Perché? “Rispondendo Gesù disse”. Quale la risposta di Gesù? È stupefacente. Perché il nostro modo normale di rispondere a una situazione di delusione è il lamento o il pessimismo. La risposta di Gesù è: “Ti benedico, Padre”. Il verbo greco potrebbe significare anche “ti riconosco (evxomologou/mai,), Padre”.
Perché ti benedico? e perché ti riconosco? “Perché hai nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate agli infanti. Sì, o Padre, così è piaciuto a te”. È come se Gesù a se stesso e poi anche a noi dicesse: la prima risposta, alla vita, alle situazioni dolorose della vita, la risposta più facile è il lamento, è il pessimismo. Ma guardate più a fondo la vita! Certo, se uno giudica secondo il criterio delle grandezze umane è vero: è un insuccesso: “forse che qualcuno dei capi ha creduto in Lui?” dissero i farisei alle guardie mandate a catturare Gesù. E aggiunsero: “Ma solo questa folla, che non conosce la legge e sono maledetti!” (Gv. 7,48). Ma, vedete, questi -la folla, i maledetti- sono il punto di vista di Dio, la gente comune, quella di cui si dice: “non conoscono la legge”. Gesù era attento non a coloro che sono innamorati di se stessi, della propria intelligenza,ma alla gente comune. Quanta sapienza, quanta sapienza di Dio, nella gente comune e quanta disponibilità segreta, quanti gesti segreti, sconosciuti. Hai rivelato queste cose agli infanti, cioè a quelli che non parlano, nemmeno hanno gli strumenti per parlare. Sono altri che parlano dai giornali, dalla radio, dalle televisioni, sono altri. Proprio ieri una donna carissima che ha più di ottant’anni, mi diceva il suo disagio di essere cresciuta nei campi e nessuno che insegnasse a parlare, bisognava solo lavorare.
Eppure -mi dicevo- eppure, come parlano queste creature, quanta luminosità nei loro occhi, quanta sapienza nella loro vita.
Ecco, Gesù si incantava davanti a loro. “Ti benedico, Padre…”.Certo dipende dal punto di osservazione. E se il punto di osservazione fosse il piccolo? e le trame quotidiane della vita? Non avremo sbagliato noi cristiani il punto di osservazione, quando cediamo ai nostri facili pessimismi, quando diamo sfogo alla cantilena dei nostri lamenti?
Prova ad entrare nelle case, negli ospedali, nelle scuole e negli uffici, e forse anche nelle chiese. Va per le strade e se ti riesce prova a entrare nel cuore della gente… . Avrai di che benedire Dio. “Ti benedico, Padre…”: il verbo può anche significare “ti riconosco” e cioè in loro, in questa gente comune, io ti riconosco, perché tu non sei un Dio che ci schiacci dall’alto della tua onnipotenza.
Il tuo Figlio, la pienezza della tua rivelazione, è passato in mezzo a noi come un uomo mite, un uomo umile. Ha detto: “Imparate da me che sono mite e umile di cuore”. Non ha aggiunto peso a peso, prescrizione a prescrizione: Il suo giogo è leggero, ci ha liberato dai pesi insopportabili. Ha detto: “Guai a voi dottori della legge, che caricate la gente di pesi insopportabili, pesi che voi non toccate nemmeno con un dito” (Lc. 11,46).Leggero il suo giogo, perché è una legge di libertà.
Scrive l’apostolo Giacomo: “Chi fissa lo sguardo sulla legge perfetta, -la legge della libertà- e le resta fedele non come un ascoltatore smemorato, questi troverà la sua felicità nel praticarla” (Gc. 1,25).
Don Angelo
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25 In quel tempo Gesù disse: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli.
Dopo il lamento funebre (v. versetti precedenti) sulle città della Galilea che anziché accogliere il messaggio del Regno lo hanno rifiutato, l’evangelista cambia il tono del discorso: Gesù passa ora a benedire il Padre per quanti invece lo hanno accolto. Le parole di Gesù ricordano ancora una volta quelle del profeta Isaia dopo la denuncia del culto a Dio fatto con le labbra: “…continuerò a operare meraviglie e prodigi con questo popolo; perirà la sapienza dei suoi sapienti e si eclisserà l’intelligenza dei suoi intelligenti…”(Is 29,13-14). Il Padre, Signore del cielo e della terra, ha manifestato all’umanità la pienezza del suo amore.
Ma la proposta di un amore gratuito e incondizionato era incomprensibile per i “sapienti e intelligenti” che, nel ruolo di “dottori della legge”, rappresentavano il magistero ufficiale. I semplici invece, quelli che danno l’adesione al Figlio, hanno avuto la rivelazione del Padre e hanno sperimentato la qualità del suo amore. Il motivo della lode è proprio questo: ciò che non è stato apprezzato dai “sapienti” viene accolto dai “semplici”. Gesù contrappone i sapienti e gli intelligenti, figura degli scribi e farisei che gli sono ostili, a quella dei semplici, che hanno riconosciuto nell’insegnamento di Gesù la sua origine divina, e hanno dichiarato che è lui a insegnare con autorità e non i loro scribi (7,28-29).
Queste cose (tãuta) è riferito alle azioni compiute da Gesù, che gli hanno attirato l’accusa di bestemmiatore da parte degli scribi (9,3) e di peccatore da parte dei farisei (9,10-13) mentre la gente ne è entusiasta: “E questa notizia si diffuse in tutta quella regione” (9,26). Mentre per i sapienti e gli intelligenti il Regno si instaurerà attraverso la pratica dell’osservanza della Legge, i semplici hanno compreso che esso si estende attraverso la comunicazione dell’amore del Padre. Il contrasto che l’evangelista presenta tra “sapienti” e “semplici” accenna anche a quella distinzione che i gruppi religiosi di esaltati dell’epoca i cosiddetti “apocalittici”, facevano tra “eletti” – detentori di speciali rivelazioni da parte della divinità – e “non eletti”. Gesù invece insegna che l’unico modo di ricevere da Dio la rivelazione è accogliere il suo amore che si è manifestato nel Figlio.
26 Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. 27 Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio voglia rivelarlo.
Gesù termina la lode rivolgendosi di nuovo al Padre. La preghiera serve a sottolineare l’intenzione di Dio: “rivelare queste cose ai semplici”. Di fronte al rifiuto che Gesù sperimenta da parte delle città dove più ha operato e dalle autorità religiose (i sapienti e gli intelligenti), Egli non si scoraggia né ritiene fallita la sua missione, ma benedice il Padre perché la sua proposta può essere apprezzata solo da coloro che si aprono alla vita. Al momento del suo battesimo, Gesù ha ricevuto tutto dal Padre: su Gesù è disceso lo Spirito (3,16), la totalità dell’amore di Dio; per questo il Padre è come Gesù e con Gesù “Dio con noi”.
Mentre Dio si può conoscere dallo studio della Legge o dai libri che parlano di Lui, il Padre può essere conosciuto solo dalla pratica di un amore simile al suo. Matteo ha presentato Gesù fin dall’inizio del suo vangelo come il “Dio con noi”. Essendo Gesù la manifestazione visibile di Dio, il discepolo può giungere a conoscere il Padre attraverso l’adesione a Gesù. Il verbo greco (apocaliúpsai da apokaliúptō) significa “scoprire/rivelare” nel senso di togliere ciò che impedisce di vedere/conoscere qualcosa. La Legge (le deformazioni della Legge, non la Legge in quanto tale) impediva l’uomo di conoscere l’amore gratuito del Padre. Questo amore Dio lo ha rivelato ai “semplici” attraverso il Figlio, ugualmente Gesù, a quanti l’hanno accolto ha rivelato il volto del Padre.
28 Venite a me, voi tutti, che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro.
La conoscenza del Padre è a disposizione di quanti si avvicinano e accolgono Gesù. L’insieme di osservanze e pratiche religiose imposte dagli scribi vengono definite nei vangeli “pesi opprimenti” (Lc 11,46) e Gesù denuncia più avanti scribi e farisei che “legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare e li impongono sulle spalle della gente” (23,4). A quanti sono stanchi e oppressi (il termine pefortisménoi da fortizō=caricare, imporre dei pesi) dal peso della Legge, Gesù invita ad accogliere Lui: Egli sarà il loro sollievo, comunicando loro la sua stessa forza. Il verbo greco (anapáusō da anapáuō) che adopera l’evangelista per descrivere l’azione che Gesù compie su quanti gli danno adesione significa: “far riposare/cessare una fatica, essere sollevato”.
La conseguenza immediata quando si smette di fare un lavoro pesante è ricuperare il fiato/riprendere il respiro, per questo il termine si può intendere nel senso di “vi farò respirare”. Quanti si liberano dal peso della Legge, che quale giogo pesante come è diventata nelle mani dell’autorità, toglie il respiro alle persone, non vanno incontro a nessun tipo di maledizione (cfr. Dt 28) ma ritrovano il respiro, la vita. E questo respiro è Gesù stesso: “Io sarò il vostro respiro”.
29 Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. 30 Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero».
L’osservanza della Legge veniva chiamata dai rabbini il “giogo del Regno dei cieli” (Sifra Levitico 25,37,109). Un giogo continuamente accresciuto di precetti e osservanze fino a diventare impraticabile: “perché tentate Dio, imponendo sul collo dei discepoli un giogo che né i nostri padri, né noi siamo stati in grado di portare? Noi invece crediamo che per la grazia del Signore Gesù, siamo salvati, così come loro” (At 15,10-11), afferma Pietro a Gerusalemme e Paolo, che era stato uomo zelante/praticante della Legge, la denuncia come il “giogo della schiavitù” (Gal 5,1).
A quanti lo seguono, Gesù invita a caricarsi del suo giogo dolce e leggero. Un giogo che anziché dominare e schiavizzare chi lo accetta, lo fa sviluppare e lo rende libero. Le espressioni di Gesù si ispirano a quanto nella Bibbia si dice della Sapienza: “Alla fine in essa troverai riposo, ed essa si cambierà per te in gioia.” (Sir 6,28); “Sottoponete il collo al suo giogo e la vostra anima accolga l’istruzione: essa è vicina a chi la cerca. Con i vostri occhi vedete che ho faticato poco e trovato per me un grande tesoro.” (Sir 51,26-27). La combinazione di questi insegnamenti sulla Sapienza e la loro applicazione a quanto Gesù dice di se stesso, si può considerare come un finissimo lavoro teologico elaborato da uno scriba, conoscitore della tradizione sapienziale (cfr. 13,52 Matteo?). La “mitezza” che Matteo attribuisce a Gesù non si riferisce solo all’ovvia qualità del carattere del Signore, ma alla scelta sociale da Lui compiuta “assumendo la condizione di servo” (Fil 2,7) ponendosi così tra gli ultimi della società, in contrapposizione ai sapienti e intelligenti.
Gesù, mite ed umile di cuore, è modello di vita per i semplici e si identifica con loro. Gesù, “che non è venuto per essere servito, ma per servire” (Mt 20,28), chiede di imparare da Lui “mite ed umile di cuore”. Questo invito è una richiesta di assomigliargli in una scelta comportamentale di servizio a favore del prossimo, ad imitazione di chi, pur essendo “il Maestro e il Signore” (Gv 13,13) nella comunità dei credenti si pone “come colui che serve” (Lc 22,27; cfr. 12,37; Mt 23, 10-12). Tale esigenza (giogo/carico) non comporta oppressione o affaticamento per l’uomo ma esperienza di beatitudine (lieve/leggero).
L’uomo ritrova il respiro vitale, il gusto di vivere, quando nel dare la sua adesione a Gesù (venite…), mette in pratica, l’esigenza del suo messaggio (prendete…) e si lascia aiutare da Lui (imparate…).