Daniele Comboni testimone di santità e maestro di missione

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“…Santi e capaci. L’uno senza l’altro val poco per chi batte la carriera apostolica… Il missionario e la missionaria devono andare in paradiso accompagnati dalle anime salvate. Dunque primo santi, cioè, alieni affatto dal peccato ed offesa di Dio ed umili; ma non basta: ci vuole carità che fa capaci i soggetti” (S 6655)

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1. Si avvicina ormai, a grandi passi, il giorno della canonizzazione del nostro Fondatore e Padre. Un’occasione unica per i nostri Istituti, anche perché coincide con alcuni momenti significativi e importanti: il Capitolo Generale per i Missionari Comboniani, la preparazione al Capitolo Generale per le Suore Missionarie Comboniane e l’Assemblea Generale per l’Istituto delle Missionarie Secolari Comboniane, già celebrata in luglio 2003. Come Consigli Generali sentiamo il bisogno di rivolgerci a voi con una lettera che, oltre a marcare il felice evento, ci da l’opportunità di presentare alcuni punti di riflessione sulla santità di Daniele Comboni e sul significato della sua canonizzazione che ci accompagnino durante questo periodo di grazia. Teniamo presente che, per le Missionarie Secolari Comboniane, certi concetti della lettera, come consacrazione, vita comunitaria, evangelizzazione… sono vissuti con una propria specificità lai-cale.

2. Possiamo dire che questo momento è stato accolto nella nostra Famiglia Comboniana con gioia e speranza, perché è stato letto come un messaggio che Dio ci invia e che deve essere comunque decifrato. Frasi colte sulla bocca di Comboniani e Comboniane ci indicano sensazioni e aspettative: “Momento favorevole per ‘riascoltare’ il Comboni. Opportunità per riappropriarci delle nostre radici, di ciò che è essenziale e ciò che conta: essere santi e capaci. Evento, di Chiesa universale e di Chiesa locale, che ricupera un progetto liberatore a favore di quanti so-no stati ingiustamente emarginati e dimenticati dalla società; appello a una trasformazione personale e comunitaria, in armonia con la testimonianza di santità del Fondatore. Occasione per focalizzare meglio gli obiettivi della nostra missione ad gentes e momento per rivitalizzare l’animazione missionaria delle Chiese in cui operiamo…”

3. Forse potranno sembrare richieste e aspettative eccessive, se considerate astrattamente, ma più raggiungibili invece se vorranno rispecchiarsi su quella icona a cui, da qui in avanti, do-vrà fare costante riferimento la nostra vita missionaria: San Daniele Comboni. Compagno di viaggio assieme a noi e a una moltitudine di fratelli e sorelle, a cui il Signore continua a inviarci e con cui continuiamo a “fare causa comune”. Tale convinzione ed esperienza di “compagnia” non solo conferisce un orizzonte alla nostra vita e azione, non solo è consolante e tonificante, ma è anche vincolante perché, con la canonizzazione di Daniele Comboni, la Chiesa riconosce pubblicamente l’esemplarità di questo suo figlio, quindi emette un giudizio definitivo sulla sua qualità di vita, sulla sua coerenza e sul contenuto della sua azione. Il Comboniano e la Combo-niana, collocati dalla Chiesa davanti al loro Fondatore, sanno ormai di essere di fronte ad un’autentica “cattedra” di sapienza missionaria.

4. Che cosa possiamo cogliere da quest’ora particolare che la Chiesa ci dona? Che cosa dice a noi oggi l’essere santo di Comboni? Nell’esortazione post-sinodale Ecclesia in Africa, Giovanni Paolo II, ricorda che: “Ogni missionario è autenticamente tale solo se si impegna nella via della santità […]. La rinnovata spinta verso la missione ‘ad gentes’ esige missionari santi. Non basta rinnovare i metodi pastorali, né organizzare e coordinare meglio le forze ecclesiali, né esplora-re con maggiore acutezza le basi bibliche e teologiche della fede: occorre suscitare un nuovo ‘ardore di santità fra i missionari e tutta la comunità cristiana” (EA 136).

5. Questa lettera ha lo scopo di dare voce a ciò che Daniele Comboni, attraverso la sua stessa testimonianza e quella di quanti hanno convissuto con lui, vorrebbe consegnarci, quasi come un viatico, sul cammino della missione. Offre per questo alcune riflessioni sulla qualità del testimone, sull’origine della missione, sul suo soggetto e sulle opzioni necessarie in fedeltà crea-tiva al carisma.

6. La canonizzazione del Comboni costituisce un autentico evento di grazia per noi Comboniani e Comboniane, in quanto afferma, con l’autorevolezza che le viene da un’esperienza vissuta, approvata dalla Chiesa, il necessario legame tra santità e missione ad gentes.

7. Una semplice constatazione statistica ci potrebbe far rilevare la grazia di un Fondatore ad-ditato come significativo per tutta la Chiesa. Su 476 santi canonizzati durante l’attuale pontificato, riscontriamo quattro soli fondatori di Istituti Missionari. Precisamente Eugenio de Mazenod (1782-1861), Marcellino Giuseppe Benoît Champagnat (1789-1840), Daniele Comboni (1831-1881) e Arnoldo Janssen (1837-1909). Se poi si approfondisce un po’ la loro storia, ci si accorge che dei quattro, solo Comboni e Janssen sono fondatori di Istituti esclusivamente missionari. Non è quindi senza significato questa prima, anche se veloce annotazione. Il mini-mo che si può dire è che la canonizzazione di Daniele Comboni richiama una santità strettamente connessa alla missione ad gentes come qualità permanente della Chiesa.

8. La santità, o “la perfezione della carità” (LG 39), costituisce la realtà centrale della Chiesa “mistero”, la quale è chiamata costantemente a contemplare e ad incarnare l’amore divino che si dirige verso l’umanità e che tende, per sua intrinseca natura, alla risoluzione piena nel grande ricongiungimento di tutti nella casa del Padre. Tuttavia la Chiesa non può farlo senza occhi concreti, fissi “su Gesù autore e perfezionatore della nostra fede” (Eb 12, 2), senza persone che, ieri come oggi, “hanno disprezzato e disprezzano l’ignominia”, “hanno sopportato e sopportano contro di sé una cosi grande ostilità del male” e “hanno resistito e resistono fino al sangue nella lotta contro il potere dell’ingiustizia” (Eb 12, 3-4). Senza i volti di uomini e di donne bruciati dall’amore, Dio sarebbe un Dio invisibile, indifferente al dolore umano, inutile, un Dio lontano, pensato, virtuale, e la Chiesa, una comunità senza memoria e senza profezia. La Chiesa invece sarà sempre costituita da “un nugolo di testimoni” (Eb 12, 1) che incitano e spronano noi che ci troviamo nell’arena. Quindi impossibile scindere la santità della Chiesa dalla santità nella Chiesa. Comboni entra in questa galleria di volti che trasformano il presente in “amore operoso, esempio, solidarietà, intercessione” (LG 51) e “annuncio” (AG 10).

9. Comboni santo continua a richiamare la Chiesa e tutti noi Comboniani e Comboniane alla nostra vera identità come consacrati per la missione. In maniera convincente, che parla al nostro cuore, la sua persona e la sua vicenda storica, appunto perché vissute come cammino d’amore senza confini, mostrano quanto santità e missione siano due realtà inscindibili. Ce lo ricorda anche Giovanni Paolo II nella Redemptoris Missio: “La chiamata alla missione deriva di per sé dalla chiamata alla santità. …L’universale chiamata alla santità è strettamente collegata all’universale vocazione alla missione: ogni fedele è chiamato alla santità e alla missione. Tale è stato il voto ardente del concilio nell’auspicare ‘che la luce di Cristo, riflessa sul volto della chiesa, illumini tutti gli uomini annunziando l’evangelo ad ogni creatura (cf. Mc 16, 15)’” (RM 90).

10. Comboni con la sua qualità di vita sembra anticipare le affermazioni basilari del Vaticano II di una Chiesa tutta responsabile dell’annuncio e della trasformazione del mondo in Regno di Dio (LG 17). Questo inequivocabile richiamo del Concilio, il quale proclama che la missione è primaria responsabilità dei vescovi (LG 23), Comboni lo aveva formulato quasi cent’anni prima nel suo Postulatum pro nigris Africae centralis, inviato al Vaticano I nel 1870. Egli attirava l’attenzione dell’assemblea conciliare sulla responsabilità collegiale dei vescovi nei confronti della missione della Chiesa, una Chiesa senza frontiere, senza barriere, aperta su tutti i fronti, a tutto e a tutti. “Si deve dunque fare ogni sforzo – scriveva Comboni - perché la Nigrizia si unisca alla Chiesa Cattolica. Questo, infatti, è richiesto dall’onore e dalla gloria di Nostro Signore Gesù Cristo al cui impero, dopo tanto tempo, l’Africa Centrale non è ancora soggetta, benché egli abbia sparso il suo sangue per la sua rigenerazione. Questo lo richiede pure l’ufficio del ministero affidato a voi che lo Spirito Santo ha posto come Vescovi per reggere la Chiesa di Dio” (S 2308).

11. Sull’esempio del nostro santo fondatore siamo chiamati, come Comboniani e Comboniane, a vivere, a testimoniare e a ricordare costantemente alla Chiesa che il riferimento alla missione ad gentes non può essere né casuale, né occasionale, ma è inserito nella sua struttura sacramentale ed è la misura della sua verità e della sua santità. Naturalmente oggi, l’ad gentes, non può più essere identificato unicamente con spostamenti geografici, ma con urgenze e servizi resi alla cattolicità e alle reali necessità di salvezza e trasformazione di una società divenuta mondiale. Comboni, rendendo la Chiesa cosciente di questa sua apertura strutturale sul mondo e sulle culture, propone ancora la centralità dell’annuncio missionario della salvezza in Cristo. Per convincerci della necessità di questa missione ad gentes, ossia della necessità di proclama-re l’amore trasformante di Cristo, basterebbe un giro d’orizzonti per scoprire lo stato attuale dell’umanità: gruppi umani non evangelizzati, violenze, ingiustizie, discriminazioni, oppressio-ne, povertà, intollerabili sofferenze.

12. Vincendo dunque le nostre titubanze, i nostri timori e i nostri dubbi, la santità di Comboni costituisce un rinnovato richiamo a credere che veramente la missione cristiana è ancora agli inizi e costituisce un banco di prova per la Chiesa. Essa “ha davanti a sé un compito immane che non è per nulla in via di estinzione. Essa, anzi, sia dal punto di vista numerico per l’aumento demografico, sia dal punto di vista socio-culturale per il sorgere di nuove relazioni, contatti e il variare di situazioni, sembra destinata ad avere orizzonti ancora più vasti” (RM 35)

13. Daniele Comboni, con la sua santità, ci dice non solo che la missione continua, ma ci indica come deve continuare. Siamo in tal modo condotti a cogliere la sua santità come espressione di missione nelle strutture portanti della sua persona e della sua opera. Due testimonianze per confermare la verità di questa affermazione. Sr. Caterina Chincarini, la Comboniana di 20 anni, che nel 1881 fece con lui il viaggio dal Cairo a Khartoum e da El Obeid a Delen e che fu prigio-niera del Mahdi dal 1882 al 1891, al processo ordinario di Khartoum (1929) affermava: “Anco-ra quand’era in vita, noi tutte tenevamo il Servo di Dio per un santo, e questo lo dicevano tutti. Quando arrivò a Khartoum come vescovo, il governatore mandò un battello espressamente per lui. A riceverlo c’era tutta la città, e tutti dicevano: arriva un santo” (P II, p. 1256). Da parte sua, Sr. Teresa Grigolini, una delle prime cinque Pie Madri partite per l’Africa nel 1877 e anche lei prigioniera del Mahdi, aggiungeva al processo ordinario di Verona (1929) una interessante variazione tra essere e apparire: “Non appariva esternamente uomo di raccoglimento, ma il suo contegno mi persuadeva che egli era sempre alla presenza di Dio” (P II, p. 1236).

14. Scoprire quindi il significato della santità del Comboni implica uno sforzo: bisogna passare dal semplice apparire all’essere. È necessario arrivare alla sua biografia interiore per capire come la sua santità abbia potuto smuovere la storia dal di dentro, e nel suo caso, rimettere in moto il quasi scomparso Vicariato dell’Africa Centrale, coinvolgendo Chiesa e società.
15. Comboni è l’uomo di un solo ideale e non il facile entusiasta che si disperde in mille cause velleitarie. Nonostante le molteplici attività, Comboni è l’uomo di una causa, non chiusa in se stessa però, perché le esigenze e i suoi piani a favore della missione dell’Africa Centrale spazieranno poi su tutta l’Africa e sul mondo. Egli è uno dei pochi uomini che nella vita della Chiesa possono essere identificati con un continente. Come Francesco Saverio è il missionario dell’Estremo oriente, così Comboni è impensabile senza l’Africa. La sua icona personale è inscindibile dall’Africa.

16. È completamente dedicato all’opera per cui si sente chiamato, senza essere cocciuto, testardo o violento. Mai vinto, un vero baluardo, e nonostante le sue molte sofferenze, le sue numerose disdette, le debolezze anche del suo carattere, mai ripiegato su se stesso, deluso o pronto alla desistenza. Dove c’è una carenza storica di annuncio di Vangelo, dove c’è un’ingiustizia fatta alla dignità della persona e dei popoli, lì trovi Daniele Comboni. E questa tenacia e questa apertura di orizzonti la colgono soprattutto i poveri quando si imbattono nella sua figura. Così è accaduto a Maria José Oliveira Paixão, la signora brasiliana che nel 1970, all’età di 10 anni, ottenne la cura per sua intercessione. In una intervista del 1996, 26 anni dopo l’evento della guarigione, così ne delinea la figura. “Nel barbuto (barbão) dell’infanzia, che mi si era presentato al momento della cura, oggi ho riscoperto l’uomo che durante tutta la sua vita lottò per i deboli e riscattò i neri in modo che si potessero evangelizzare da loro stessi. Mons. Comboni ebbe grandi piani per il mondo intero ed è riuscito, perché ci sono missionari suoi in tutto il mondo che ancora oggi seguono il fondatore”.

17. La continuità della sua opera poggia su due pilastri: la sua fedeltà e la sua magnanimità. Comboni si presenta come l’uomo della fedeltà assoluta che, né scende mai a compromessi, né scade nel volontarismo, perché ha la coscienza di un compito arduo ricevuto dall’Alto. Cerca Dio e solo il cammino di Dio per arrivare al cuore dell’africano, scoprirvi e aiutare a scoprire il germe dell’autorigenerazione. Allo stesso tempo cerca perdutamente l’africano, il più abbandonato del suo tempo, ma lo cerca con il cuore di Dio. Comboni è l’uomo magnanimo, in cui le cose e le persone lasciavano una traccia, immediatamente percepita come accoglienza totale. Il cardinale di Canossa, con qualche rammarico, annotava: “Quel benedetto d. Daniele […] ha il cuore che sente troppo e perciò continua a largheggiare” (P. II, p. 1249-59). Più che un uomo forte, e nessuno può dubitare della sua prorompente energia, fu un uomo soprattutto vero, au-tentico e sincero: la sua anima era leggibile nella sua parola, senza nascondimenti, fingimenti, o complicazioni. Le suore, che con lui portavano il “peso del giorno” dell’impresa africana, notavano che “era tanto umile, che qualche volta noi lo rimproveravamo” (P. II, p. 1255). “Era semplice come un bambino: come era sincero lui, così pensava che tutti lo fossero. Non crede-va mai che gli altri usassero raggiri o falsità” (P. II, p. 1265).

18. Tanto era semplice d’animo, quanto era determinato nell’azione. Comboni parte sempre dalle situazioni reali, dalle persone in carne e ossa e le sue non sono mai conclusioni di un discorso o di un ragionamento, ma sfociano sempre in decisioni concrete, in piani operativi. Non desiste mai. Ha imparato a coniugare un unico verbo: ricominciare. L’amore di Cristo (cf. 2 Cor 5, 14) che lo spinge, lo sollecita, lo trascina e lo tiene in suo potere, gli ha insegnato la solidità dei piccoli passi e della pazienza. Usa infatti, spesso e significativamente l’aggettivo “lento”, giorno per giorno. Naturalmente il lento avanzare non è eufemismo ma vero incedere sulle spine. Così avverte che bisogna “inculcare nelle novizie che esse sono destinate ad essere carne da macello, ad abbracciare le più penose privazioni e sacrifici, ed a subire un lento martirio” (S 5746).

19. Nel 1865, Comboni apprende a Parigi di essere stato estromesso dall’Istituto Mazza; nel 1869, Lione gli taglia i fondi e il cardinale Barnabò sembra voltargli le spalle in seguito a calunnie ingiustificate di uno dei suoi; nel 1878, Propaganda Fide gli toglie la parte migliore del Vicariato a favore del cardinale Lavigerie senza consultarlo; nell’1881, è messa in dubbio la sua capacità e la sua serietà morale come vescovo, come uomo e come fondatore del suo Istituto. La sua risposta è perentoria: “ colla croce…e con Gesù mio tutto, non temo…né le procelle di Roma, né le tempeste d’Egitto, né i torbidi di Verona, né le nuvole di Lione e Parigi; e certo a passo lento e sicuro camminando sulle spine arriverò a iniziare stabilmente e piantare l’Opera ideata della Rigenerazione della Nigrizia centrale, che tanti hanno abbandonata” (S 1710). La vera novità non sta nel cominciare, ma nel ricominciare costantemente, nel tenace andare avanti senza indugi.

20. Di fatto la sua esistenza è stata tutta un continuo iniziare, senza tuttavia deflettere dal solco tracciatogli da Dio, per questo la semente gettata è fiorita al tempo stabilito. La qualità di questo perenne ricominciare emerge inequivocabilmente dalla storia del Vicariato dell’Africa Centrale e in particolare dalle liste originali dei missionari che hanno solcato il territorio della missione. Il verbo rincominciare abbinato a questi nomi è mescolato al sapore della morte, della sabbia infuocata del deserto, dell’acqua nera e putrida delle borme (contenitori fatti con pelli di capra); degli scheletri umani disseminati sulle piste carovaniere della tratta degli schiavi, delle febbri improvvise, degli sfinimenti, dei viaggi senza ritorno, dei violentissimi e mortali at-tacchi di febbre nera ecc. Non bisogna mai dimenticare che Comboni ha sempre iniziato quando le condizioni erano drammatiche. É entrato nella missione dell’Africa Centrale quando dal 1847 al 1872, su 120 missionari, 46 erano morti e tutti gli altri ritirati (S 2849-2863). Ha resi-stito, con visione di futuro e di speranza, quando dal 1872 diventa il responsabile dell’immenso vicariato lasciando sul posto, al momento della morte, 28 tombe, tra cui quella sua, e 11 sopravvissuti tra preti, suore e fratelli della missione di Khartoum. La sua grandezza è di non aver aspettato i tempi migliori, ma di averli preparati consegnandoli con fiducia nelle mani della Provvidenza e dei suoi missionari e missionarie.

21. Eroe, dunque? No, semplicemente un uomo che “tiene gli occhi fissi sulle cose invisibili” (2 Cor 4, 18) come direbbe Paolo e che avanza come Mosè “quasi vedesse l’invisibile” (Eb 11, 27). Vedeva la mano di Dio e il fine dell’opera. Così riusciva a cogliere nelle persone e negli avvenimenti l’aspetto positivo, generatore di speranza. Le sue stesse parole da morente testimoniano una personalità, anche umanamente ben riuscita, in cui si integrano armonicamente il suo essere profondo, il suo progetto, le persone che lo circondano e l’ambiente circostante. La sua speranza nasce da equilibrio interiore e da fede sincera: “Non temete; io muoio, ma la mia opera non morirà, ci sarà molto da soffrire, ma voi stesse vedrete il trionfo della nostra missione”.


Il lascito che Comboni ci consegna può essere espresso da queste sue parole:
“Una missione così ardua…non può vivere di patina,
e di soggetti pieni di egoismo e di se stessi…” (S 6656)

22. Due condizioni secche: nessun gusto per le esteriorità (bisogna andare sempre alla sostanza) e nessuna ricerca di se stessi (bisogna puntare gli obiettivi costantemente fuori di sé). In controluce si capisce che è la maturità umana di una persona strutturalmente estroversa e positiva, tendenzialmente più propensa a far crescere l’altro e l’altra che preoccupata di se stessa, più orientata su Dio e sul suo Regno piuttosto che fissata nella ricerca di comprensione e di approvazione dei propri piani, più capace di impegnarsi con costanza per obiettivi comunitari che esclusivamente personali, più propensa infine a cercare di leggere, capire e impegnarsi a favore della situazione altrui che fissarsi nella rivendicazione del proprio dovuto.

23. Dalla vita di Comboni emergono caratteristiche umane inconfondibili che dovrebbero segnare per sempre la nostra personalità: andare all’essenziale, non lasciandosi condizionare da apparenze e da ciò che è secondario, e l’orientarsi verso gli altri, togliendo l’eccessiva attenzione su se stessi. Il Comboniano e la Comboniana si distingueranno per alcuni atteggiamenti tipici: costanza e coraggio nel perseguire la causa intrapresa senza lasciarsi distrarre; fedeltà assoluta a ciò che si è iniziato, espressa nella volontà di ricominciare costantemente, nonostante e attraverso disdette e difficoltà; dedizione e attenzione alla persona e alle persone, che deve divenire sempre più sensibilità alle situazioni personali e comunitarie di maggiore difficoltà ed emergenza; e infine rapporto costruttivo privilegiato con chi ci sta accanto, tale da generare sentimenti di speranza, ricupero, attenzione, gioia e benessere fisico e psichico. Di conseguenza la maturità umana del o della testimone esige capacità di accogliere il tempo con i suoi ritmi, le sue cadenze, i suoi successi e le sue difficoltà dentro la politica dei piccoli passi, dell’avanzare lentamente. Tale lenta e persistente azione va unita ad una lettura attenta della storia della persona e a opzioni operative. Nel suo amore attento e generoso, lascia comunque trasparire un progetto più ampio, dal segno inconfondibilmente divino.

24. Nella immagine umana del missionario e la missionaria, Comboni mette sullo stesso piano: esteriorità (patina), egoismo (pieni di sé) e disinteresse per il bene spirituale altrui (non curare convenientemente la salute e conversione delle anime) (cf. S 6655). È quanto dire che la chiusura in sé è sinonimo di chiusura a Dio e agli altri. La maturità umana dunque, per un missionario e una missionaria, non può che avere un nome: “accoglienza di tutto e di tutti e tutte”.
25. Continuamente e giustamente sentiamo oggi ripetere che il protagonista della missione è lo Spirito Santo. Senza di lui è impensabile l’inizio, la continuità e l’efficacia della missione. In al-tre parole non si può fare missione senza un punto di partenza capace di rivitalizzare costan-temente l’azione. Ora, in linguaggio comboniano, si deve dire che non c’è missione senza una visione che indichi la realtà che tutto fonda e tutto muove dall’interno. Quindi noi Comboniani e Comboniane siamo costantemente interrogati sulla visione che ci spinge e sull’esperienza mistica che condiziona la nostra azione. Non basta affermare, come notava Karl Rahner, che il cristiano di domani sarà un mistico o non sarà niente, ma si tratta di renderci conto di quale volto di Dio noi stessi abbiamo scoperto e annunciamo agli altri. In tal senso Comboni ha una sua originalità, tale da condizionare poi tutta la sua e la nostra azione.

26. Lo sguardo contemplativo di Comboni è un focalizzarsi sulla carità del Padre, che esce dal Cuore del Figlio e spinge, nella sovrabbondanza dello Spirito, verso chi è lasciato da parte. Dio e popoli in difficoltà, Cuore aperto del Salvatore e persone oppresse e abbandonate, Crocifisso-Cuore trafitto del Buon pastore e Africa o Afriche dei dimenticati, delle schiavitù, degli affamati, dei lasciati alla deriva sono ormai inseparabili. Impossibile pensare Uno senza l’altro, impossibile dire di credere nell’amore di Dio e dimenticare il fratello e la sorella in difficoltà. Lo afferma categoricamente il Piano per la Rigenerazione dell’Africa, il documento programmatico per eccellenza: “…il cattolico…” – scrive Comboni - non si lasciò condizionare dal “miserabile prisma degli interessi umani” ma dal “puro raggio della Fede” che gli fece scorgere “una miriade infinità di fratelli appartenenti alla sua stessa famiglia aventi un comun Padre su in cielo” così che avvertì “la divina vampa uscita dal Costato del Crocifisso” spingerlo verso quelle terre “per stringere tra le braccia e dare loro il bacio di pace” (S 2742). Il Comboniano e la Comboniana dovranno sempre rendere ragione dell’amore eterno, in cui dicono di credere, attraverso un servizio liberante dei fratelli e sorelle più abbandonati.

27. Al centro della missione c’è il Cuore del Dio trinitario, amante e ferito, che si rivolge al missionario/a e all’Africa. In risposta, c’è il nostro “sguardo nuziale” sul Dio che ha un cuore sensi-bile alle sofferenze dei popoli. La direzione dello sguardo verso Dio condiziona l’atteggiamento verso le persone. “…avere caldo il cuore di puro amore di Dio… - scrive nelle Regole del 1871 - e tener sempre gli occhi fissi in Gesù Cristo, amandolo teneramente, e procurando di intendere ognora meglio cosa vuol dire un Dio morto in croce per la salvezza delle anime” (S 2705 e 2721). La santità missionaria è lasciarsi illuminare dalla completa disponibilità di Dio verso la persona che nessuno cura, per poi lasciarsi trasportare dal movimento di questa stessa carità verso la storia.

28. Per Comboni non c’è mai un’affermazione asettica, una definizione neutra o un concetto generale dell’amore di Dio da vivere e da proclamare. Lo stesso Dio in cui crede e che gli fa pressione è simultaneamente anche il Dio amante dell’Africa, il Dio morto anche per gli Africani, cioè il volto misericordioso di Dio fatto da molti volti umani con tutta la loro gamma di gioie, sofferenze e aspettative. Da questo Cuore, che pulsa all’unisono con le gioie, le tragedie e le aspettative di ogni cuore umano e da questa croce, su cui Dio muore a favore dei più diseredati nel corpo e nello spirito, derivano per Comboni delle conseguenze importanti.

29. La prima è essere fedele alle reali dimensioni dell’amore di Dio. Per questo allarga costantemente il ventaglio delle sue attenzioni e preoccupazioni. L’amore di Dio, che sta alla base della missione, non è mai esclusivo, ma inclusivo, anzi per suo proprio dinamismo tende a includere, a rendere presente e ad abbracciare proprio ciò che si cerca di cancellare dalla memoria perché lontano, diverso, non dei nostri. Comboni allarga per così dire il detto paolino: “Mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2, 20) nel “Mi ha amato e ha dato se stesso per noi - per l’Africa”. Al Giulianelli nel 1880 scriveva: “Voi pregate e fate pregare per me, affinché tutti ci facciamo santi salvando la Nigrizia” (S 5976).

30. La seconda conseguenza di rilievo è il capovolgimento dell’atteggiamento primario riferito al Cuore di Cristo: non essere consolato, ma consolare e con-patire. Comboni infatti percepisce il mistero del Cuore aperto del Crocifisso, che per lui è all’origine della missione, non come un consolare Dio, ma piuttosto un Dio che consola, porta le ferite, cura le cicatrici attraverso le cicatrici del suo Figlio: “Il colpo di lancia ha raggiunto anche il cuore dell’Africa” (S 1733) – dirà Comboni. All’inizio della missione c’è una santità di Dio che si qualifica in base all’empatia e non tanto in base alla separazione e alla distanza. Non la separazione-distanza del “siate santi, come io sono santo” del Levitico (cf. Lv 11, 44-45; 19, 2; 20, 7), ma piuttosto in base alla vicinanza del Dio santo di Osea che esclama: “Come potrei abbandonarti, Efraim, come consegnarti ad altri Israele?…Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione…perché sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te e non verrò nella mia ira” (Os 11, 8-9).

31. Un Dio dunque, non solo vicino all’uomo, ma che non può fare a meno dell’uomo e della sua storia. Infatti, secondo il profeta Osea, la minaccia più tremenda che Dio potrebbe formulare è “non voglio più amarli” (Os 9, 15). Impossibile! Sarebbe il vuoto completo perché non solo significherebbe che Dio abbandona il popolo, e quindi la distruzione del popolo, ma si risolverebbe nella negazione di Dio stesso: la rinuncia di Dio a essere Dio. La santità che fonda la missione, è quindi prima di tutto vicinanza. L’esperienza dell’amore di Dio trinitario attraverso il Cuore di Cristo, è l’esperienza di un Dio che assume su di sé il male; un Dio Padre che, mosso dal suo Spirito d’amore, si addossa gli sbagli e paga Lui per i suoi figli nel Figlio. Dio insomma si è fatto carico dei suoi figli e figlie.

32. Ne vengono, per la vita personale e comunitaria delle conseguenze straordinarie: non scaricare le responsabilità altrui, ma addossarsi gli sbagli; non stigmatizzare e giudicare le cadute altrui, ma portarle insieme; non scoprire le piaghe, ma curarle assieme; non rinchiudersi in un’autosufficiente solitudine spirituale, ma pregare insieme. La nostra società, e a volte anche la nostra Chiesa e le nostre comunità, seguono altre dinamiche: adesso hai sbagliato, paghi; adesso sei efficiente, ti batto le mani, ti uso; domani non sei più efficiente, ti metto da parte; oggi sei in condizione di debolezza: clandestino, rifugiato, disperato, ti butto al mare; o accetti queste condizioni, meglio sottocondizioni di lavoro, o te ne vai… Portare l’amore compassionevole di Cristo è lo scopo della missione. Vivere di questo amore è la prima assoluta condizione per evangelizzare secondo Comboni.

33. Le persone hanno avvertito in lui questo primato riconosciuto all’amore di Dio. La Comboniana Sr. Matilde Corsi, che aveva conosciuto il Servo di Dio già nel 1877, afferma al processo di Khartoum: “Egli amava Dio senza limite alcuno” (P II, p. 1265) e la Chincarini: “Il Signore era l’unica sua vita. Cercava di inculcare a tutti, ma specialmente a noi suore, lo spirito di pre-ghiera e di illimitata confidenza nel Signore; davanti ad ogni difficoltà la sua frase abituale era: ‘Confidiamo in Dio e fidiamoci sempre di lui’”(P II, 1255). Said Mohammed Taha, musulmano, già mercante di schiavi, nella sua deposizione non si stanca di ripetere che “Il Comboni amava molto Dio, sapeva che tutto viene da Dio e in lui sperava. Dal suo parlare si capiva la sua grande fede in Dio” (P II, p. 1270).

34. Si capisce allora perché tutti i testimoni siano rimasti impressionati dalla sua costante preghiera, fatta nei momenti più impensati e difficili, ma soprattutto durante la notte. Sempre la Chincarini riferisce che: “Per le molteplici sue occupazioni il Servo di Dio dormiva poco e allo scarso riposo rubava il tempo per intrattenersi con Dio specialmente per la recita di qualche preghiera, che non avesse potuto fare di giorno. E fu visto spesso a notte inoltrata girare in cortile pregando con la corona in mano” (P II, p. 1255). Rafail Rigsalla Habasci, presidente della comunità copto-ortodossa di Khartoum, afferma nella sua deposizione: “Il volto del Santo era gioviale” (P. II, 1269), rifletteva sul volto la luce di Cristo.


Il lascito che ci consegna può essere espresso da queste sue parole:
“…accenderli di carità che abbia la sua sorgente
da Dio e dalla carità di Cristo…” (S 6656)

35. Accenderli di carità… significa ritornare costantemente al cuore della missione ossia all’amore incommensurabile del Padre che viene a noi attraverso il Cuore trafitto del Figlio e ci invia nello Spirito. È da lì che come persone e come comunità prendiamo forma e riceviamo la nostra identità missionaria. A questa fonte, ci confermiamo nella certezza di essere costituiti da una chiamata personale unica: “Mio Dio, questo io desidero, la tua legge è nel profondo del mio cuore” (Sal 40, 9). Da questa fonte, beviamo la coscienza di essere stati segnati per sempre dal sigillo del mistero pasquale di morte e risurrezione che modella fin nel nostro corpo l’espressione di un amore divino sempre disponibile: “…un corpo mi hai preparato… Allora ho detto: Ecco, io vengo per fare, o Dio, la tua volontà” (cf. Sal 40, 7-8). In questa fonte, sentiamo di essere inviati nella totalità e unicità della nostra persona: :“Consacrali nella verità…Come tu mi hai mandato nel mondo, anch’io li ho mandati nel mondo; per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità” (Gv 17, 17-19).

36. Accendere la missione nella carità di Dio significa dunque collocarvi al centro la Consacrazione: l’amore infinito del Padre, per ciascuno e per tutti, prima della nostra buona volontà; l’amore compassionevole di Cristo prima della nostra solidarietà; la persona dei fratelli e delle sorelle prima della nostra stessa persona; la disponibilità totale della nostra persona prima dei beni che possiamo avere, acquisire o donare. Significa poter ripetere con tutta verità, sulla scorta dell’esempio di Comboni, “…tutto consacrato alla gloria di Dio e a morire per Cristo” (S 6796), “l’unica vera passione della mia vita intera…che si converta la Nigrizia” (S 6987).

37. Accenderli di carità…significa riprendere coscienza della centralità della consacrazione nella vita missionaria. L’Esortazione Apostolica Vita Consecrata afferma: “…la missionarietà è insita nel cuore stesso di ogni forma di vita consacrata (VC 25). Questa non è solo impegno umano, generoso e efficiente, ma vita apostolica ossia vera consacrazione, corrispondenza ad una grazia divina ricevuta, vincolazione cosciente all’amore divino che ha chiamato in maniera unica e continua a inviare in maniera unica e ricerca costante del volto di Cristo dai mille volti. Implica quindi impegnare non solo una parte degli affetti, delle qualità, dei progetti e dei beni, ma tut-ta la persona, senza riserve. “Con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutte le forze” (Dt 6, 5) perché è esattamente questo amore totale e trinitario in cui si è scelti per grazia.

38. I voti diventano per noi l’unica espressione adeguata in risposta a tanto amore. Una risposta personale, unica e totale ad una chiamata unica e totale, quindi meno espressione di vincoli giuridici, leggi, doveri morali, e più coscienza gioiosa di essere ammessi per grazia a partecipare al dinamismo dell’amore del Cuore di Dio per il mondo. Dovrebbe essere allontanato una volta per tutte l’idea che la consacrazione religiosa è una sottrazione, genera conflitto o è semplicemente uno strumento di efficacia aggiunta alla missione. La consacrazione costituisce il cuore della missione, perché è nella consacrazione che il missionario e la missionaria sono co-stituiti per grazia espressione personale di dono, il più gratuito, il più libero, il più disinteressato, il più tenace, nella misura che prende la forma e l’essere del Cuore di Cristo e della croce. E’ nelle motivazioni profonde della persona che c’è il dono che salva e quindi è nei tre voti che tutto è ricondotto all’unicità della persona.

39. Uno sguardo continuo sulla qualità della nostra vita consacrata garantisce la autenticità del-la missione evangelizzatrice. Ci farà scoprire se portiamo Cristo o se portiamo noi stessi, se serviamo le persone o se ci serviamo di esse, se le associamo a Cristo o se le ancoriamo a noi stessi, ai nostri progetti e alle nostre idee. La consacrazione vissuta come disponibilità indivisa di tutto noi stessi a Cristo, ci dirà se siamo davvero totalmente disponibili alle persone e capaci di crescere assieme in una esperienza spirituale profonda e trasformante.

40. Accenderli di carità…si concretizza poi nel ritornare costantemente alla sorgente e quindi nel riconsiderare la qualità della nostra vita di preghiera personale e comunitaria. Comboni spronava a pregare con il fuoco della carità, quindi a non essere abitudinari e accontentarsi di formule, ma a fare della preghiera un momento personale e comunitario di incontro e confronto con quanto in noi, nella comunità e negli avvenimenti ha bisogno di Lui, della sua luce e della sua forza. Riscoprire dunque la preghiera come momento integrante della missione in cui, consegnandosi particolarmente a Dio attraverso dei tempi determinati, ci libera progressivamente dall’individualismo, dalla super attività, dall’ansiosa ricerca dell’efficienza e dei risultati, cose tutte che nascondono un’eccessiva preoccupazione di se stessi.

41. Accenderli di carità…significa infine fare esperienza che il vero contenuto della consacrazione e della missione è la persona di Cristo che deve essere annunciato. Se la natura della consacrazione è la grazia di essere chiamati/e alla sequela di Cristo, il cuore è costituito dall’annuncio. Ed anche questo è un elemento peculiare di Comboni. E’ stupefacente quante volte parla di un impulso che lo rende annunciatore di salvezza, proprio in quanto legato alla persona di Cristo. “Si lavora unicamente per Cristo e per la gloria del suo nome, e per guadagnare le anime negre” (S 6660). Qui, Comboni ripete con la stessa forza di Paolo la sua condizione di prigioniero dell’amore di Cristo. Comboni sia pure vilipeso, criticato e contestato, ma Cristo deve essere annunziato. “…dovrà verificarsi in noi e compiersi il pati, contemni et mori pro te. Dovremo patire, essere disprezzati, calunniati (lei no, io sì), condannato forse a morire…ma pel nostro caro Gesù! Pel mondo non ci do un centesimo, e nemmeno per l’opinione del mondo. Ma per Gesù Cristo, è poco il sacrificio, il martirio” (S 6664).

42. Non il silenzio, dunque, ma la parola della vita, l’annuncio esplicito, diretto, umile, convinto e senza arroganza. È che l’annuncio non nasce da un comando esterno, ma da una condizione di identificazione. L’annuncio dunque continua ad essere l’imperativo basilare a cui nulla deve essere sacrificato e anteposto. Il paolino “mori et contemni pro te” fluisce dalla bocca e dalla penna di Comboni e traduce la grazia e la responsabilità di annunciare Cristo, in presa diretta con il rapporto personale unico, totale e sponsale con Lui: “Si patisce per Cristo, e basta” (S 6689). “Sono tutto consacrato alla gloria di Dio e a morire per Cristo” (S 6796).

43. Accenderli di carità… significa in sostanza entrare decisamente nella strada della radicalità evangelica, ossia della profezia: abbandonare tutto perché la sequela di Cristo, che abbiamo giurato di volere abbracciare, possa divenire missione; mettere il regno di Dio al disopra di tutto (cf. Mt 6, 33). In questo rischio di tutta l’esistenza, in questa ricerca del Signore e del suo piano, in questo lasciarsi guidare dallo Spirito, nascerà la profezia-missione, frutto della consacrazione.
44. Chi aderisce alla pienezza dell’amore di Dio e ne fa la ragione del dinamismo della missione, come avviene per Comboni, non può che essere un uomo comunitario. “Un individuo inosservato in una serie di operai” (S 2700), come scrive nelle Regole del 1871. È l’anonimato di chi non lavora per se stesso, in un’opera però, che certamente anonima non è.

45. Parlare di Comboni come di un testimone della comunità evangelizzante potrebbe sembrare una contraddizione, o quanto meno una forzatura. Più che uomo comunitario sembrerebbe essere stato un gigante, il cui spiccato individualismo e debordante protagonismo lo portarono ad un’esasperata attività. Lo stesso innegabile amore alla Chiesa aveva tutta l’aria di un amore ad una comunità rigorosamente strutturata, con tinte chiaramente conservative. Più che alla comunità, come comunione di persone, sembrerebbe aver fatto più riferimento alla forza della struttura e dell’organizzazione.

46. Ad uno sguardo più oggettivo e profondo ci si accorge invece che quell’amore alla Chiesa, quel “non fare nulla senza la Chiesa” (S 959. 971. 4088) era il distintivo di un uomo profondamente convinto che la missione apre nuovi cammini, si sviluppa e trova la sua verità proprio nella comunità. Daniele Comboni si presenta un uomo comunitario nella prassi, prima ancora che nel pensiero. Lo vediamo alla continua ricerca di persone e di compagni, prima ancora che alla ricerca di aiuti. La missione nasce dalla “koinonia trinitaria” e coloro che la continuano non possono che lavorare assieme come collaboratori di questo movimento eterno di riunione dei figli di Dio dispersi. Sr. Matilde Corsi mette in evidenza non solo l’afflato spirituale che si sprigionava dalla persona del Comboni, ma anche la sollecitudine che nutriva nei confronti dei suoi missionari/e “Io conobbi il Servo di Dio da quando fu fatto vescovo nel 1877 al dicembre 1880, quando partì per l’Africa l’ultima volta. L’impressione che io ebbi fu di una persona santa, che non si curava che di Dio, dei suoi e delle sue missioni” (P II, p. 1264). La pienezza vissuta dell’amore di Dio, è proporzionale alla coscienza della responsabilità nei confronti dei fratelli e delle sorelle.

47. Comboni inizia nel 1868 a realizzare il suo Piano assieme a un gruppo di 3 camilliani, 3 suore di S. Giuseppe dell’Apparizione, 16 istitutrici africane e alcuni fratelli laici. Di incalcolabile valore quel suo accordare piena fiducia da subito all’elemento africano. Così pure di incalcolabile valore quella sua sensibilità che riconosce un’importanza primaria della donna nell’evangelizzazione. Lui è il primo a portare le suore nel centro dell’Africa. Scrive alla generale delle suore di S. Giuseppe dell’Apparizione il 5 maggio 1878: “A Berber si trovano cinque Suore del mio Istituto di Verona. Sono destinate a una nuova Missione che fonderò tra poco. Ecco il mio segreto, fondato su una lunga esperienza di 21 anni. In una stazione o Missione, dove ci sono sei o sette Suore, io posso mettere solamente due preti Missionari e due preti con sei Suore in una Missione dell’Africa Centrale faranno più del bene che in una Missione con dodici preti senza suore. Questa è una verità” (S 5117). “La Suora di carità nell’Africa Centrale è della stessa utilità del missionario; anzi il missionario farebbe poco senza la Suora” (S 5442). Fuori discussione è inoltre l’impegno con cui si è applicato alla fondazione dei suoi due Istituti, il maschile (1867) e il femminile (1872).

48. Comboni è l’uomo dei contatti, della comunicazione, della comunione di forze, del confronto ecclesiale, del dialogo, della richiesta e ricercata opinione altrui… Lo dimostra con la ricerca di forze nei più svariati ambienti: camilliani, benedettini, salesiani, verbiti, trinitari, suore di S. Giuseppe dell’Apparizione… Anche il proposto Comitato Centrale, l’Organo Centrale Direttivo del Piano, che coinvolge persone e istituzioni laiche, rivela tale mentalità comunitario-ecclesiale-cattolica. Una realtà che cerca di articolare e tutelare la diversità dei carismi degli I-stituti e l’unità di intenti in relazione al bene totale dell’opera.

49. Alle azioni che denotano senso comunitario, affianca anche l’elaborazione concettuale di una evangelizzazione in comunità. Convinzione che prende forma nell’elaborazione del regolamento del 1869 e delle Regole del 1871. L’Istituto è concepito come un “cenacolo di apostoli” (S 2648), un centro unitario da cui si sprigiona l’energia della missione e la cui vita è descritta come un vivere assieme da fratelli e da sorelle” (cf. S 1859, 2495, 2497). L’evangelizzazione deve, secondo il suo pensiero, rifuggire da individui isolati. Mai lasciare una persona sola in una missione: ne scapita la qualità della testimonianza, ne verrà uno scadimento del fervore e si metterà in pericolo l’integrità morale del missionario (cf. S 1317, 4241, 3189).

50. Questo spirito di comunità-comunione evangelizzante che da solidità e autorevolezza all’opera, trova conferma nell’ultimo significativo gesto prima di morire. Aveva, in quel momento a Khartoum, suore tutte molto giovani, non oltre i 23 anni, tra le quali suor Francesca Dalmasso e suor Elisa Suppi. Cinque giorni prima di morire va a rincuorarle e a ricevere da loro il giuramento di fedeltà all’opera. “L’8 pomeriggio – scrive Don Giovanni Dichtl, uno dei cinque missionari presenti a Khartoum - volle che promettessi ancor una volta fedeltà alla missione. L’ho fatto. Ho giurato di voler morire nel vicariato. ‘O Nigrizia o Morte’, mi diceva Comboni…”. In questi ultimi giuramenti, richiesti e resi volontariamente dai più giovani, e nelle parole pro-nunciate prima di morire: “Non temete, io muoio, ma la mia opera non morirà, ci sarà molto da soffrire, ma voi stesse vedrete il trionfo della nostra missione” (P II, p. 1255), c’è un’autentica traditio, cioè, la coscienza di una continuità espressa in parole e in gesti, compiuti e significati dalla comunità dei giovani che stavano accanto a lui.

51. Radicare il futuro della missione alla comunità è non solo un passaggio formale di consegne, ma la più convincente espressione che la missione trova la sua vera realizzazione e la sua verifica nella comunità. E questo è elemento di santità perché denota un passaggio dall’individualismo alla comunità. Ricuperare il senso e la pratica della comunione fraterna, è anche oggi, per noi, un elemento irrinunciabile per rivitalizzare la missione e darle continuità. Ogni attività missionaria specifica deve nascere dalla radice dell’amore fraterno in comunità: “avevano un cuor solo e un’anima sola” (At 4, 32), ossia ogni azione apostolica dovrebbe scaturire da quel bonum dei fratelli che vivono insieme (Sal 33) e che li fa riconoscere come “colo-ro che sono stati con Lui” (At 1, 21).


Il lascito che ci consegna può essere espresso da queste sue parole:
“…diventare un piccolo Cenacolo di Apostoli… raggi
che splendono insieme e riscaldano…(S 2648).

52. Vivere con rinnovata gioia la comunità. Questo comporta due aspetti complementari: ricuperare sempre più il senso e la pratica della comunità fraterna come elemento essenziale della vita religiosa e considerarla come l’elemento essenziale per una autentica evangelizzazione. Tutta la fecondità della vita religioso-missionaria dipende dalla qualità della vita fraterna in comune. Più ancora, il rinnovamento attuale della missione passa attraverso una ricerca di comunione e comunità.

53. La vita comune, via e pratica della comunione, diventa vita di irradiazione missionaria proprio in quanto vita casta, povera e obbediente. Tutti i rapporti con confratelli, consorelle e altre persone, perché sorretti da quell'unico amore che è Cristo, se sono veri, dovranno essere espressione di fraternità. Quanto più si cresce nell'amore tanto più il cuore si dilata e più si è capaci di portare nel cuore persone diverse. Tutti i beni, siano essi spirituali o materiali, dovranno sempre essere a disposizione permanente della comunità. Così ognuno misurerà il suo bisogno sulle necessità dei fratelli e delle sorelle e non rivendicherà il suo diritto ad avere, ma piuttosto quello del fratello e della sorella a ricevere sostegno. L'obbedienza sarà l'espressione di una sottomissione a Dio, all'autorità, ai fratelli e alle sorelle per divenire sempre più "un cuore solo e un'anima sola" cosicché individuo e comunità possano sottomettersi "a ciò che lo Spirito dice alle chiese" (Ap 2, 7).

54. Giovanni Paolo II metteva sull’avviso i partecipanti della Congregazione per gli Istituti di Vi-ta Consacrata e le Società di Vita Apostolica dell’illusione di una operatività che sacrifica la qualità dei rapporti comunitari. "Se si pospone la testimonianza pubblica della vita religiosa in comunità all’azione apostolica, all’autorealizzazione personale, le comunità religiose perdono la loro forza evangelizzatrice e non sono più quelle realtà che San Bernardo definì con bella espressione 'scholae Amoris', cioè luoghi dove si impara ad amare il Signore e a diventare, giorno dopo giorno, figli di Dio e quindi fratelli e sorelle".

55. Divenire sempre più cenacolo… significa prima di tutto mettere l’accento sugli aspetti positivi e che possono costruire un clima di accettazione e collaborazione nei confronti dei fratelli e delle sorelle. Nel cuore della vera comunità deve abitare la consapevolezza che il nostro vivere assieme è il dono più grande che Dio ci ha fatto, il momento in cui la sua grazia e il suo amore diventano visibili ed efficaci. Siamo spinti quindi a ricuperare la vera finalità della comunità evangelizzante: per grazia messi assieme per vivere il vangelo e proclamarlo. Questo fine di un amore di Dio sperimentato assieme e partecipato ad altri e altre, dentro e fuori la comunità, riuscirà a dare equilibrio e a favorire la crescita della persona, perché la finalità della comunità si realizza attraverso sane, profonde e ricercate relazioni tra i suoi membri. I servizi richiesti non saranno allora delle mere funzioni burocratiche ma faranno parte di un impegno partecipato a cui tutti si sentono sinceramente interessati e coinvolti nella misura della capacità e dispo-nibilità di ciascuno.

56. Divenire sempre più cenacolo… significa coltivare l’atteggiamento paziente, comprensivo, non giudicante che diventa segno di perdono generoso. Credere nell’efficacia dei gesti di ogni giorno, “le piccole virtù” che cambiano noi e le persone con cui viviamo. Soprattutto collocare al centro del vivere comunitario l’atteggiamento della riconciliazione e del perdono. Solo la riconciliazione e il perdono possono restituire la capacità di riconoscere nel volto dell’altro e dell’altra che ci sta a fianco il volto di un fratello e di una sorella e possono restituirci la gioia di vivere insieme e la speranza di testimoniare il Vangelo come liberazione già avvenuta in noi.

57. Divenire sempre più cenacolo… significa prendere coscienza che la comunità è pur sempre anche una realtà ambivalente e imperfetta. Tutti facciamo l’esperienza della diversità, dell’incomprensione, degli ostacoli, dell’incompatibilità e della mancanza di comunicazione. L’importante è non adeguarsi a ciò che mina il vivere comunitario: l’atteggiamento difensivo, silenzioso, resistente; la eccessiva ricerca di interessi e appoggi fuori della comunità; l’isolamento e la gestione individuale ed esclusiva del tempo e dei propri talenti; il lasciarsi sopravvivere perché feriti o perché ci si sente inadeguati a vivere assieme ecc. Abituarsi a questi sentimenti aumenta il senso di frustrazione e di delusione.

58. Visto che c'è il pericolo reale del raffreddarsi della carità (cf. Mt 24, 12) bisogna riattizzare il fuoco perché la comunità non si trasformi ne in un puro vivere uno accanto all’altro, né in una équipe di operatori religiosi, né in una pensione familiare. Allora forse c'è da ridare qualità alle nostre programmazioni comunitarie e ricuperare il discernimento spirituale comunitario in vista di scelte più evangeliche. L'indagine tecnica, che pur ci vuole, non basta per riuscire a scoprire la volontà di Dio sui membri e sui piani della comunità come fraternità evangelizzante. E’ attraverso il discernimento spirituale comunitario che la comunità diventa famiglia in cui tutte le diversità culturali sono accettate e accolte e in cui tutti si sentono impegnati a realizzare ciò che assieme si è scoperto come volontà di Dio.

59. Divenire sempre più cenacolo… significa infine ricuperare la memoria storica del proprio Istituto e le figure che meglio hanno incarnato il carisma. Cercare di cogliere i loro atteggiamenti e le opzioni significative, garantisce ancora oggi continuità e solidità di tradizione e costituisce, allo stesso tempo, uno stimolo verso nuove espressioni di vita fraterna, nuove esperienze di comunione di irradiazione missionaria. Gioia e sicurezza si accrescono allorché si mantiene un legame sano e creativo con la tradizione dell’Istituto e assieme si cercano strade che non sono ancora chiare, disposti anche a soffrire assieme per insuccessi e persecuzioni. Segno, soprattutto questo ultimo, di una comunità sorretta dallo Spirito, quindi capace di evangelizzare.

60. Un’altro aspetto della santità del Comboni, che ancor oggi parla, è il richiamo ad una disciplina della mente e dell’azione fatta di opzioni e di scelte pratiche congruenti. Comboni non si limita ad affermare principi e neppure agisce in qualche maniera, ma ha un suo metodo proprio che è espresso nel suo Piano. Come è largamente risaputo, questo è la Magna Carta della sua strategia missionaria che poggia su due affermazioni fondamentali. Una riguarda il fine: “Salvare l’Africa con l’Africa” e l’altra concerne l’opzione di fondo e il dinamismo insito in tale opzione: “Il povero soggetto del proprio riscatto”. Una sottolinea la possibilità dell’elemento africano di diventare soggetto-Chiesa e società viva e attiva: “Non si potrebbe – scrive nel Piano – promuovere la conversione dell’Africa per mezzo dell’Africa? Su questa grande idea si è fissa-to il nostro pensiero; e la rigenerazione dell’Africa con l’Africa stessa ci parve il solo Programma da doversi seguire per compiere sì luminosa conquista” (S 2753). L’altra afferma che, in questo processo di salvezza integrale (conversione e liberazione, autonomia personale e di strutture), si parte dai poveri, dagli ultimi del tempo: “…sì che i conquistati – scrive alla fine dello stesso Piano – non già vinti dalla forza, ma vincitori di sé medesimi e della loro natura, avranno conquistato con il battesimo la vera religione, e il gran benefizio della vita civile” (S 2791).

61. Si tratta di un’azione di santità, perché alla base di tutto c’è una visione teologica positiva, la redimibilità dello stesso africano. Anche se c’è la pesante ed erronea remora della “maledizione camitica”, “l’antiquissimum anatema” (Gn 9, 25-27), per Comboni non sarà un freno, ma uno stimolo in più per applicarsi con urgenza e maggiore profondità per i suoi fratelli e sorelle africani. Comboni vede l’Africa e l’africano in positivo: su di essi c’è tutto il piano di salvezza di Dio per cui è impensabile che in loro, lasciati da parte, disprezzati, umiliati ci sia solo vuoto, arretratezza, ma ci devono essere anche potenzialità e energie latenti, ivi poste per un auto-riscatto.

62. Allora bisogna valutare attentamente l’amore viscerale di Comboni verso gli africani. I testimoni impiegano una sola parola per farci capire la qualità di questo amore: Comboni è designato il “Padre dei neri”. Erminia Mersilla, la ex-schiava da lui raccolta e riscattata, dopo essere stata caricata di botte e gettata nel giardino della missione di El Obeid, depone: “Il Servo di Dio mi fece l’impressione di un padre. Egli era il padre dei poveri e così era chiamato al suo tempo. Aiutava tutti quanti, e per questo tutti gli volevano bene. Egli proteggeva i poveri schiavi e li difendeva anche davanti alle autorità civili; per questo gli schiavisti lo temevano assai” (P II, p. 1259).

63. Quella sua straordinaria vicinanza agli africani stupiva. Siamo tuttavia chiamati ad andare ben oltre quello stupore, che normalmente si fonda su una lettura parziale, perché identificata quasi esclusivamente con l’atteggiamento accondiscendente dell’eterno benefattore. Comboni va più in là. Se vede energie di un autoricupero, è perché, oltre a saper cogliere le qualità innate di una persona e a distinguerle dai comportamenti negativi indotti da una storia a lei sfa-vorevole, parte dal valore che la persona oggettivamente ha, alla luce della redenzione, cioè dal Crocifisso. I crocifissi della storia hanno una consistenza, perché identificati con il Crocifisso.

64. Comboni, perché ha una visione di fede ecclesiale, fa l’opzione per i poveri come forza di trasformazione e prova della stessa verità della Chiesa e di una società giusta. In altre parole egli crede nella forza trasformatrice dei poveri. Quel suo amore unico per il più povero del suo tempo è in fondo non un’esclusione di qualcuno, ma bensì un’opzione. Il suo incessante pellegrinare, l’itineranza con “i suoi neri”, l’ideazione di un Piano esigente di autoricupero era in effetti un’opzione. Dietro il progetto di una “Nigrizia autosufficiente”, c’è un’opzione e non semplicemente un’azione generosa. Di questo i suoi contemporanei se ne sono accorti.

65. Il musulmano Somit Habib, che depone al processo di Khartoum, fa rilevare proprio l’ampio ventaglio della carità di Comboni e anche il punto da cui preferenzialmente egli si inoltrava nel campo delle necessità: “Il vescovo Comboni era il padre dei poveri, egli aiutava tutti quanti, anche i bianchi…Riceveva alla missione gli schiavi che fuggivano dai loro padroni, e li difendeva anche davanti al governo” (P II, p. 1260). Sr. Elisabetta Venturini, la Comboniana che nel 1880 accompagnò Comboni nel suo ultimo viaggio in Africa, puntualizza: “Il Servo di Dio soccorreva qualsiasi genere di sofferenti, ma di preferenza aiutava i bambini, le donne, i malati e i poveri vecchi. A costoro dava tutto quel che poteva” (P II, p. 1258). Khatib, il falegname e domestico di Khartoum, rincara la dose: “Con la gente era abitualmente sorridente, ma era forte con gli schiavisti, per difendere i poveri neri maltrattati” (P II, p. 1257)

66. Tale decisa opzione “per i poveri e impoveriti” è un lascito peculiare della santità del Comboni e del suo modo di evangelizzare. È vera opzione di santità perché significa scegliere la Croce di Cristo come guida della propria vita e dei propri piani. In pratica significa scegliere la strada della piccolezza, come memoria delle ingiustizie che continuano ad essere commesse contro i più deboli e come profezia di un’altra maniera di vivere, dove la semplicità e la solidarietà sono alla base di una società giusta in cui davvero c’è posto per tutti.

67. Una santità-opzione, quella del Comboni, quanto mai necessaria per le sfide e le domande che salgono imperiose dai tre fenomeni che oggi scuotono dalle fondamenta la società civile e religiosa: il multiculturalismo, la secolarizzazione e la globalizzazione. In una società multiculturale, verso cui stiamo velocemente camminando, ci si prospetta: o il dialogo, la mutua conoscenza, e quindi l’interculturalità, o lo scontro di culture e di religioni. In una società che diventa sempre più secolarizzata, si pone come non mai il dilemma: o regolare tutto attraverso la fredda ragione, il denaro, il profitto, lo sviluppo tecnico, o reintrodurre i valori della trascendenza, della solidarietà, della fede, della giustizia, della pari dignità.

68. In un mondo globalizzato economicamente, politicamente e informaticamente, siamo di fronte a una svolta inderogabile: o una globalizzazione veramente inclusiva di tutti o una globalizzazione esclusiva, verso cui i pochi potenti e fortunati sembrano voler incanalare le sorti dell’umanità. È davanti a tutti infatti l’abisso crudele fra i popoli. Basti pensare che due miliardi di esseri umani vivono con meno di due dollari al giorno. La forbice che divide i ricchi dagli impoveriti si allarga sempre di più. Secondo le relazioni del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo, il rapporto era di 1 a 30 nel 1960, di 1 a 60 nel 1990, di 1 a 74 nel 1997.

69. Comboni, nella sua opzione per i più poveri, ci traccia una strada. Non si tratta né di una formula, né di uno slogan, né di un atteggiamento temporaneo, ma di un’opzione permanente. Assumere la causa dei lasciati da parte significa, secondo l’ottica di Comboni, unirsi a loro “sponsalmente”, indissolubilmente. Comboni parla infatti dell’Africa chiamandola “mia amante” (S 6752), “L’Africa e gli africani si sono impadroniti del mio cuore” (S 941), “…io non sono vis-suto che per l’Africa, io non morirò che per l’Africa” (S 1438), “Morrò con l’Africa sulle labbra” (S 1441). Optare insomma per i più poveri significa credere veramente che i “poveri”, “i popoli crocifissi”, “i piccoli” sono le vittime. Essi sono oggi, come diceva il vescovo Oscar Romero, “il divino violato” e quindi sono anche strumento di salvezza per tutti. Infatti convocano alla veri-tà, in quanto ci fanno vedere quello che non vogliamo vedere o tentiamo di occultare; convocano alla solidarietà, in quanto ci fanno capire che non bastano le cose materiali per sanare le ingiustizie ma è necessaria una solidarietà basata sul dono delle persone; infine convocano a una nuova civiltà basata sulla cultura della semplicità che non significa impoverimento universale, ma nuovo ideale di vita, una reale umanizzazione dei rapporti tra le persone e i popoli.


Il lascito che ci consegna può essere espresso da queste sue parole:
“…io morrò con l’Africa sulle labbra” (S 1441)

70. Morire con l’Africa sulle labbra…, significa chiederci se la nostra “opzione per i poveri” è un continuare a “fare per i poveri” o è un creativo “vivere con i poveri”. “Morire con l’Africa sulle labbra…” significa vivere la scelta fatta come legame “sponsale” con le persone e le situazioni: “Io ritorno a voi per non mai più cessare d’essere vostro, e tutto al maggior vostro bene consacrato per sempre” (S 3158). Significa quindi verificare la qualità, la profondità e la sincerità con cui diciamo di credere nell’altro. È il presupposto per poter dare forma credibile al “Salvare l’Africa con l’Africa”. Se c’è un’attenzione rispettosa alle esigenze delle persone e quindi un au-tentico camminare con loro, riusciranno a liberare tutte le loro potenzialità e a trovare nuove vie di attuazione. Non si potrà rispondere alle attese reali delle persone, della società e delle Chiese locali se l’interlocutore che abbiamo davanti avverte una sfiducia strisciante nei suoi confronti.

71. Spinti dalla fedeltà di Comboni, avvertiamo, come non mai, che il “fare causa comune” dovrà sempre più concretizzarsi nel collocarsi vicino, nell’atteggiamento umile, amico, fiducioso, partecipe, attenti che la sua presenza sia di stimolo e di vera comune partecipazione nell’elaborazione dei progetti pastorali e sociale. Allo stesso tempo, dobbiamo allontanarci sempre più dagli atteggiamenti ambigui di chi o si sostituisce al più debole, facendo, decidendo, portando avanti tutto, o rimane spettatore passivo e distante con la scusa che è giunta la “loro” ora.

72. Morire con l’Africa sulle labbra… significa concepire l’opera evangelizzatrice come un tutto unico in cui un ruolo particolare sia riconosciuto alla Chiesa locale e ai ministeri laicali. Nel cammino verso l’autonomia della Chiesa locale e la consistente e creativa espressione delle differenze culturali, a noi spetta l’impegno sempre più qualificato per la formazione di leader, sia nell’ambito religioso (seminari, centri per catechisti, università ecc.), sia nell’ambito socio politico, che richiede da noi anche una più decisa valorizzazione della donna. Tali esigenze di formazione, dettate dalla missione, richiederanno piani coraggiosi e lungimiranti, assieme alle diverse entità e forze della Chiesa e della società. L’opzione per i più poveri esige anche una formazione più mirata dello stesso personale missionario e un suo impiego dentro una programmazione più efficace. Mons. Gabriel Zubeir Wako, arcivescovo di Khartoum, fa notare che “Il lavoro della evangelizzazione non può essere improvvisato. Per questo Comboni spese molto tempo ed energie per assicurare ai suoi collaboratori una profonda preparazione umana, intellettuale e spirituale di cui avrebbero avuto bisogno per dedicarsi a causa così impegnativa”.

73. Morire con l’Africa sulle labbra…significa, nell’attuale congiuntura socio-politica, impegnarsi per la giustizia. Va tenuta la visione unitaria del Piano tra annuncio, dare voce ai poveri come capaci di rigenerazione e trasformazione di tutta la realtà. Quando non rispettiamo l’unità di visione e di prassi, proposta da Comboni, e quando enfatizziamo l’aspetto spirituale a scapito di quello sociale o viceversa, l’evangelizzazione ne uscirà gravemente danneggiata. Essa, privata del suo afflato spirituale, non avrà reale capacità di trasformazione (genererà nuovi padroni) oppure, confinata nelle sacrestie di una spiritualità disincarnata, si rivelerà del tutto insignificante e inadeguata. La storia continuerà a produrre vittime dell’ingiustizia.

74. In questo campo della giustizia, la pace e integrità del creato, siamo chiamati a costruire ponti di comunicazione su cui passano le problematiche e le realizzazioni delle Chiese e dei popoli lasciati al margine. In un mondo che cerca di dimenticare, emarginare o sottovalutare i deboli, bisogna favorire la conoscenza dei loro valori culturali e sociali, così che sia riconosciuto il loro prezioso contributo alla nascita e alla salvaguardia del patrimonio dell’intera umanità. In un mondo che affronta la sfida della convivenza interculturale e interreligiosa, siamo chiamati ad attivare canali per promuovere il dialogo interreligioso e interculturale col favorire appunto la reciproca conoscenza e il reciproco apprezzamento.

75. Morire con l’Africa sulle labbra…, obbliga infine noi Comboniani e Comboniane a interrogarci su quanto manca perché il motto comboniano “Salvare l’Africa con l’Africa” possa arrivare a piena realizzazione.

76. Dopo la morte di Daniele Comboni, secondo la testimonianza dal suo secondo cugino Euge-nio, “venne un missionario dall’Africa a confortare il papà di Monsignore e gli portò una croce pettorale di ottone. La croce di battaglia, come il vescovo la chiamava, e che portava ordinariamente, poiché quella preziosa donatagli da Pio IX diceva che la teneva per quando S. Giuseppe avesse avuto un raffreddore, nel qual caso se ne sarebbe privato. Questa frase l’ho sentita io stesso da don Daniele. Quella croce di ottone dopo la morte del sig. Luigi passò in mie mani, e la conservo come preziosa memoria, e non vorrei distaccarmene” (P II, p. 1235)
La missione non ha bisogno di eroi, ma di uomini e donne veri e autentici