Ogni anno, quaranta giorni dopo Natale, la Chiesa celebra la festa della Presentazione del Signore. Questa festa ha per riferimento dei fatti biblici, avvenuti nel tempio di Gerusalemme e raccontati nel vangelo, dove realmente Gesù, con sua madre, si trova al centro dell’attenzione. [...]

La salvezza è per tutti i popoli

Ml 3,1-4; Salmo 23; Eb 2,14-18; Lc 2,22-40

Ogni anno, quaranta giorni dopo Natale, la Chiesa celebra la festa della Presentazione del Signore. Questa festa ha per riferimento dei fatti biblici, avvenuti nel tempio di Gerusalemme e raccontati nel vangelo, dove realmente Gesù, con sua madre, si trova al centro dell’attenzione. Secondo le prescrizioni dell’A T, riguardo alla purezza cultuale (Lv 12,1-8), una donna era impura dopo il parto di un bambino per 40 giorni; per 80 giorni, dopo quello di una bambina, Essa doveva poi offrire al Tempio, come sacrificio di espiazione un agnello e una giovane colomba; se invece era povera, offriva due giovani colombe.

Il figlio primogenito era proprietà del Signore (es. 13,2); doveva essere offerto a Dio ed essergli presentato (Es 13,12); inoltre bisognava riscattarlo con un’offerta in danaro. Infatti dal giorno in cui Dio ha liberato gli Ebrei dalla schiavitù facendo morire i primogeniti degli Egiziani, tutti i primogeniti d’Israele appartengono al Signore. È secondo queste prescrizioni o a causa di esse, che Maria e Giuseppe vengono al Tempio di Gerusalemme per una cerimonia di purificazione, durante la quale Gesù viene presentato a Dio.

La Liturgia di questo giorno mette in rilievo diversi simbolismi. La processione con le candele accese, ricorda che in questo giorno Simeone aveva indicato Gesù come la “luce per illuminare le nazioni” La luce illumina, essa simbolizza la verità che è’ Gesù. Non si tratta, per noi, di attaccarci alle sole rappresentazioni esterne, portando delle candele accese, ma dobbiamo pure essere luce per il mondo, cioè cercare di portare agli altri la luce della verità del Vangelo.

La persona di Simeone e quella di Anna che intervengono nella scena, cioè delle figure di un mondo “invecchiato”, quello del VT, che ha bisogno di Gesù per “ringiovanire”. Il nome di Gesù (Dio salva), precisa il senso della sua missione: è salvatore non solo dei Giudei, ma di tutti gli uomini; ci salva dal dominio del demonio e del peccato, attraverso la sua passione e morte in croce. Infatti, da sempre, il nome di Gesù attira i benefici divini. La preghiera fatta nel suo nome sarà sempre esaudita. Gli apostoli e quanti credono in Lui guariranno e metteranno in fuga i demoni nel nome di Gesù. L’invocazione di questo nome, fatta con fede, avrà sempre la stessa efficacia contro le tentazioni del nemico della salvezza.

Inoltre la liturgia cristiana ama le processioni, questo camminare in gruppo ritualmente organizzato. Sono previste in diverse occasioni. Camminare in gruppo fa parte della natura umana. Col camminare si manifesta che insieme si vuole percorrere una tappa della vita, che si vuole esprimere un attaccamento e una fedeltà a un valore. La chiesa conosce molte processioni che scandiscono la sua vita liturgica e la esteriorizzano: durante il battesimo, all’inizio della Messa, all’offertorio per portare le offerte, durante la comunione, durante certe feste (Le Palme, la festa del Corpus Domini). Se il movimento è l’aspetto preponderante in questo andare, l’aspetto comunitario ne è l’altro costituente. La processione, come atto comunitario, unisce la fede e la preghiera dei fedeli in questo spostamento fisico in vista di uno spostamento spirituale; si tratta di una espressione che è segno della realtà inerente alla vita cristiana, cioè un camminare verso il Signore. Infatti la processione dà una visibilità alla tensione verso l’incontro, all’attesa e alla speranza. Essa è un’autentica testimonianza di fede ecclesiale e di unità. E’ il corteo trionfale di una comunità che ha il suo Signore con lei. Si tratta della manifestazione della Chiesa come popolo di Dio in marcia, popolo che cammina verso l’unione eterna con Dio e che è sicuro di superare tutti i pericoli che possono presentarsi, poiché ha l’aiuto e la presenza del suo Signore, che “ha ricevuto ogni potere in cielo e in terra”. Per questo ogni processione liturgica ha un carattere trionfale, poiché richiama più o meno palesemente la marcia del popolo ebreo nel deserto, guidato da Dio verso la terra promessa.

Il Tempio, che è il luogo dell’incontro, è l’immagine della Chiesa. È pure l’annuncio del cielo dove si farà il grande incontro tra Dio e l’umanità.

D’altra parte, la presentazione di Gesù a suo Padre dà alle offerte dell’antica alleanza il loro pieno valore e annuncia il sacrificio della messa. Nello stesso tempo in cui Gesù si offre a suo Padre, Gesù si abbandona nelle mani degli uomini. Così viene sottolineato il doppio movimento dell’Incarnazione: il Figlio entra nel mondo, per essere perfetto adoratore del Padre e per rispondere alle attese degli uomini. Inoltre, Maria, madre di Dio, e Gesù, Figlio di Dio per natura, si sottomettono a delle prescrizioni della legge giudaica, che non li riguardano proprio: ci insegnano l’umiltà e il rispetto dell’autorità divina. La sottomissione perfetta alla volontà di Dio, manifestata attraverso l’obbedienza alle sue leggi e precetti, è la condizione per la santità e la salvezza.

Luca non si ferma alla presentazione di Gesù e alla purificazione di Maria. Le menziona solo per introdurre Simeone e riferire le parole che egli pronuncerà sotto l’ispirazione dello Spirito Santo. Non dice chi era. Un testo apocrifo lo chiama gran sacerdote. Era senza dubbio una persona di origini modeste, che si faceva solo notare per le sue qualità morali: era giusto e pio, fedele osservatore della legge e timoroso di Dio. Attendeva la consolazione di Israele. Il titolo di consolatore era uno di quelli che erano dati al Messia. Erano molti quei Giudei che attendevano questa consolazione. Simeone era stato favorito da una rivelazione speciale dallo Spirito Santo. E’ lo Spirito che l’aveva assicurato che non sarebbe morto senza prima aver visto il Messia. E’ sotto l’ispirazione dello Spirito Santo che Simeone viene al tempio al momento della presentazione di Gesù, che prende Gesù dalle braccia di Maria nelle sue, che benedice Dio e dice il “Nunc dimittis”, cantico che si può paragonare ai più bei salmi e che si prega ogni giorno nell’ufficio della sera, a Compieta, sin dal quinto secolo. Ora Simeone, può morire, poichè ha visto il segno promesso, che è la salvezza per tutti i popoli e per Israele: questo è il messaggio di questo cantico. Simeone era inquieto per la triste situazione di Israele; il vedere il Messia e la salvezza messianica calma la sua inquietudine. Tiene tra le sue braccia il Salvatore. Dopo aver detto quello che la venuta del Messia è per lui, causa di pace, nella seconda parte del cantico esprime quello che Egli sarà per Israele e le nazioni. La salvezza è per tutti i popoli. Simeone non ha la visione piccola di molti dei suoi contemporanei sull’avvenire della nazione teocratica. Si collega ai grandi profeti che avevano descritto l’aspetto universalista del regno messianico.

Questa salvezza è per tutti i popoli, essa non si imporrà, ma tutti potranno farne parte.

Il carattere spirituale di questa salvezza è evidente, perché la salvezza portata dal Messia è una luce che allontana le tenebre, che illumina le nazioni, che fa veder loro la verità. La parola greca è apokalupsis: viene usata, per descrivere il modo in cui avviene questa salvezza: suggerisce lo staccare un velo che nasconde la luce. Si tratta in particolare delle tenebre dello spirito.

Luce delle nazioni, il Messia sarà pure gloria di Israele, cioè annunciato in Israele, uscito da Israele, agirà nelle nazioni attraverso Israele. Questo cantico della glorificazione d’Israele si capisce di più all’inizio del cristianesimo, che ai nostri tempi, dove ci sentiamo così lontani dalla gloria di Israele. Questo tratto vuole confermare piuttosto l’antica origine di questo inno.

Simeone li benedice. Poi rivolgendosi direttamente a Maria, svela l’accoglienza che sarà fatta al Messia: è destinato ad essere occasione di caduta e di rialzo in Israele, cioè si sarà per lui o contro di lui; sarà accettato dagli uni e rigettato dagli altri. Attraverso di lui, gli uomini sveleranno l’intimo del loro cuore, il loro amore per la verità o il loro attaccamento all’errore. E’ una predizione che fa intravvedere tutta la storia del Vangelo e quella della religione cristiana. Segno di contraddizione Gesù lo sarà fino alla fine dei tempi: sempre avrà discepoli fedeli e avversari accaniti. E su questo, oggi, non c’è nessun dubbio.

Per quello che riguarda la spada che trapasserà il cuore di Maria, bisognerà considerare la sofferenza della madre nel vedere il figlio sconosciuto. Maria soffrirà soprattutto il giorno in cui assisterà alla morte di Gesù che qui viene insinuata. Il suo cuore sarà veramente trapassato.

Un nuovo personaggio entra in scena: una profetessa, una donna ispirata da Dio per far conoscere le sue volontà. Anna, figlia di Phanuel, della tribù d’Aser, dettagli che servono per identificarla, in mancanza del nome del marito, personaggio certo non eloquente. Era rimasta vedova dopo una vita coniugale durata sette anni e aveva raggiunto l’età di ottanta quattro anni. Viveva nel Tempio, cioè o vi abitava o vi veniva di frequente, passandovi la maggior parte delle sue giornate. Luca, forse, traccia qui la vocazione delle vedove: la vedovanza cristiana, la vedovanza vissuta nel servizio della Chiesa. Anche Anna venne presso la santa famiglia, e come Simeone, come se avesse udito le sue parole (ciò che nulla lo prova), si mise a lodare Dio e a parlare del bambino a tutti quelli che aspettavano la liberazione (temporale) di Gerusalemme, pegno di una restaurazione religiosa Gesù è venuto ad “annunciare la liberazione ai prigionieri e a rendere la libertà agli oppressi”. Il suo intervento è efficace per tutti. L’uomo però è dotato del potere di rispondere alle intenzioni di Dio su di lui. La grazia di Dio e la libera obbedienza dell’uomo, sono ambedue necessarie per la salvezza. Sta a noi di decidere tra la vita e la morte, tra la benedizione e la maledizione. Che il Signore ci aiuti a contare sulla grazia di Dio, ma anche e soprattutto impegnarci nel perseverare nella via che ci conduce alla vita e alla salvezza eterna. La conversione e il rimanere fedeli a Dio sono in nostro potere.
Don Joseph Ndoum

Un figlio appartiene a Dio, non ai genitori
Lc 2,22-40

Ermes Ronchi

Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, Maria e Giuseppe portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore – come è scritto nella legge del Signore: «Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore» – e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o due giovani colombi, come prescrive la legge del Signore. […]

Maria e Giuseppe portarono il Bambino a Gerusalemme, per presentarlo al Signore. Una giovanissima coppia, col suo primo bambino, arriva portando la povera offerta dei poveri, due tortore, e il più prezioso dono del mondo: un bambino.
Sulla soglia, due anziani in attesa, Simeone e Anna. Che attendevano, dice Luca, «perché le cose più importanti del mondo non vanno cercate, vanno attese» (Simone Weil). Perché quando il discepolo è pronto, il maestro arriva.
Non sono i sacerdoti ad accogliere il bambino, ma due laici, che non ricoprono nessun ruolo ufficiale, ma sono due innamorati di Dio, occhi velati dalla vecchiaia ma ancora accesi dal desiderio. E lei, Anna, è la terza profetessa del Nuovo Testamento, dopo Elisabetta e Maria.
Perché Gesù non appartiene all’istituzione, non è dei sacerdoti, ma dell’umanità. È Dio che si incarna nelle creature, nella vita che finisce e in quella che fiorisce. «È nostro, di tutti gli uomini e di tutte le donne. Appartiene agli assetati, ai sognatori, come Simeone; a quelli che sanno vedere oltre, come Anna; a quelli capaci di incantarsi davanti a un neonato, perché sentono Dio come futuro e come vita» (M. Marcolini).
Simeone pronuncia una profezia di parole immense su Maria, tre parole che attraversano i secoli e raggiungono ciascuno di noi: il bambino è qui come caduta e risurrezione, come segno di contraddizione perché siano svelati i cuori.
Caduta, è la prima parola. «Cristo, mia dolce rovina» canta padre Turoldo, che rovini non l’uomo ma le sue ombre, la vita insufficiente, la vita morente, il mio mondo di maschere e di bugie, che rovini la vita illusa.
Segno di contraddizione, la seconda. Lui che contraddice le nostre vie con le sue vie, i nostri pensieri con i suoi pensieri, la falsa immagine che nutriamo di Dio con il volto inedito di un abbà dalle grandi braccia e dal cuore di luce, contraddizione di tutto ciò che contraddice l’amore.
Egli è qui per la risurrezione, è la terza parola: per lui nessuno è dato per perduto, nessuno finito per sempre, è possibile ricominciare ed essere nuovi. Sarà una mano che ti prende per mano, che ripeterà a ogni alba ciò che ha detto alla figlia di Giairo: talità kum, bambina alzati! Giovane vita, alzati, levati, sorgi, risplendi, riprendi la strada e la lotta.
Tre parole che danno respiro alla vita.
Festa della presentazione. Il bambino Gesù è portato al tempio, davanti a Dio, perché non è semplicemente il figlio di Giuseppe e Maria: «i figli non sono nostri» (Kalil Gibran), appartengono a Dio, al mondo, al futuro, alla loro vocazione e ai loro sogni, sono la freschezza di una profezia “biologica”. A noi spetta salvare, come Simeone ed Anna, almeno lo stupore.

Avvenire

INCONTRI
Clarisse Sant’Agata 

Gesù sale a Gerusalemme. La città santa è un luogo di rivelazione per Lui, un centro di attrazione irresistibile dove più volte salirà lungo la Sua vita, fino all’ultimo viaggio che compirà (e che occupa la maggior parte del vangelo di Luca) “perché non è possibile che un profeta muoia fuori da Gerusalemme” (cfr. Lc 13,33).

Oggi Gesù è portato a Gerusalemme ancora bambino, a compimento “del tempo della loro purificazione”, e la meta di questo viaggio è il tempio, dove sarà presentato al Padre. L’evangelista Luca non ci dice chi porti Gesù al tempio, anche se possiamo supporre come soggetto sottinteso “i suoi genitori”, al termine della “loro purificazione”. Le norme rituali della Legge del Signore tuttavia, prevedevano solo la purificazione della madre (cfr. Lv 12,1-8), non di entrambi i genitori! Per cui possiamo leggere fra le righe che Luca sta indicando il compimento di un’altra purificazione.

Si tratta di quella purificazione di cui ci parla anche il profeta Malachia nella prima lettura di oggi: “e subito entrerà nel suo tempio il Signore che voi cercate; e l’angelo dell’alleanza, che voi sospirate, eccolo venire, dice il Signore degli eserciti. (…) Egli è come il fuoco del fonditore e come la lisciva dei lavandai. Siederà per fondere e purificare l’argento; purificherà i figli di Levi, li affinerà come oro e argento, perché possano offrire al Signore un’offerta secondo giustizia”. Ed è la purificazione che anche Gesù compirà nel vangelo di Luca, entrando nel tempio alle soglie della sua pasqua: “entrato nel tempio, si mise a scacciare quelli che vendevano, dicendo loro: “Sta scritto: La mia casa sarà casa di preghiera. Voi invece ne avete fatto un covo di ladri” (Lc 19,45-46).
L’ingresso del Signore Gesù nel tempio segna la purificazione di quello che il tempio rappresentava per Israele: il luogo dell’incontro fra Dio e il suo popolo.

Ora Luca sembra anticipare qui, nella presentazione del bambino Gesù al tempio, la purificazione della relazione dell’uomo con il suo Dio, per inaugurare l’incontro definitivo fra Dio e l’uomo.
In questa festa piena di luce, accogliamo allora questa Parola del Signore che viene nel tempio della nostra vita per “purificarlo” e farne il luogo dove possiamo anche noi “vedere con i nostri occhi la salvezza che Dio ha preparato per tutti i popoli” (cfr. Lc 2,30-31).
Questa festa della presentazione di Gesù al tempio è chiamata dai nostri fratelli orientali “festa dell’incontro”, l’incontro nel tempio fra Gesù che viene per offrire se stesso (cfr. Eb 9,12.14.28) e l’uomo capace di attesa. Simeone e Anna sono quelle figure profetiche che sintetizzano in sé tutta la capacità di attendere di Israele e dell’umanità.

Luca ce li presenta dettagliatamente: Simeone, uomo giusto (come Giuseppe) e pio, che aspettava la consolazione di Israele (come Isaia: Is 40,1; 51,12; 61,2), uomo su cui si posa lo Spirito in modo permanente (come si era posato su Maria; come avverrà agli apostoli a pentecoste; ma soprattutto come accade a Gesù: Gv 1,32-33); Simeone è l’uomo che vive l’ascolto della Parola (il nome “Simeone” deriva dal verbo ebraico “shm’”, “ascoltare”, come in Dt 6: “Shemà Israel, ascolta Israele”) guidato dallo Spirito.

In lui lo Spirito ha aperto lo spazio dell’attesa, dell’ascolto profondo di Dio che parla attraverso parole ed eventi. E questo spazio di attesa era abitato per Simeone dalla certezza che “non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo Dio”. Sappiamo bene che “vedere Dio” significa “morire”, secondo la Scrittura. E Simeone ha ricevuto dallo Spirito la promessa di vedere Dio faccia a faccia, in un incontro che segna la fine di un certo modo di vivere e l’inizio di una vita nuova.
Pensiamo sempre a Simeone come ad un vecchio (forse per assimilazione ad Anna che aveva 84 anni!) perché nel suo cantico evoca la morte come passaggio ormai vicino, ma Luca non ci dice che sia un uomo anziano. Se nell’iconografia tradizionale è rappresentato curvo, possiamo pensare che Simeone sia curvo sotto il peso dell’attesa, invecchiato dalla paziente frequentazione delle Scritture e del tempio, spazi che “ospitano” la rivelazione del Salvatore.

Anche Anna è una donna abitata dall’attesa; una donna per la quale attendere è diventato l’unico verbo della vita, declinato come preghiera e digiuno. Attendere ha occupato tutto lo spazio della sua esistenza (è descritta dalla sua giovinezza fino alla sua vecchiaia), in ogni suo momento (notte e giorno): “non si allontanava mai dal tempio” e dal servizio di Dio, vivendo protesa alla ricerca di Lui (digiuno e preghiera sono una forma di invocazione rivolta a Dio con il corpo).
L’evangelista Luca oggi proclama che l’incontro fra Dio che viene e l’attesa dell’uomo avviene in uno spazio non ufficiale (non durante una solenne liturgia o nel “Santo dei santi”), ma in uno spazio del tempio qualsiasi, dove si incontrano la piccolezza di Dio (Dio è un bambino!) e la fragilità dell’uomo (una vedova, un vecchio…).
Si incontra Dio come Salvatore solo se i nostri occhi si fanno attenti alla piccolezza di Dio che si affaccia alla nostra vita, portato da qualcun altro. La salvezza si offre a noi nuda e fragile come un bambino. E accogliendolo fra le braccia, cioè abbracciando la forma fragile ed inevidente con cui Dio si offre a noi, possiamo accogliere Gesù come “segno di contraddizione” nella nostra vita. Ciò che Simeone dice a Maria non è riferito solo a lei! A ciascuno di noi Dio si offre come segno di contraddizione, cioè non come ce lo aspetteremmo. Forse noi attendiamo qualcuno che venga che salvarci e per prendersi cura di noi. Ma oggi la liturgia ci dice che Dio viene perché noi ci prendiamo cura di Lui, come accade per un Bambino. Dio viene ancora, nel tempio della nostra vita, fragile e piccolo perché, prendendoci cura di Lui, possiamo sperimentare la salvezza. E la salvezza non consiste nell’essere tolti da ogni situazione difficile o di prova, ma nello scoprire che Dio è lì presente con noi, nella fragilità della sua umanità che ha abbracciato la nostra.
http://www.clarissesantagata.it

Commento di Paolo Curtaz

Illuminati

Nel passato in questa giornata si benedivano i ceri che servivano ad illuminare le nostre chiese quando ancora non esisteva l’illuminazione elettrica. E sempre questa giornata, ancora oggi, rappresenta un momento importante per le persone consacrate che rinnovano la loro totale adesione a Cristo, il dono di sé al Padre, gesto richiamato dalla presentazione al tempio di Gesù.
E il valore di questa festa è rimasto talmente inciso nella memoria della liturgia che quest’anno, cadendo di domenica, finisce col sostituirla.
È una festa che richiama il tempo di Natale appena concluso, festa dal sapore sacro che odora di incenso: con la fantasia rivediamo le alte colonne che sorreggevano il portico di Salomone e i vasti cortili lastricati che immettevano nella zona più sacra del tempio di Gerusalemme.
Maria e Giuseppe, giovane coppia spaurita della Galilea, otto giorni dopo la nascita del loro primogenito, adempie il precetto della Legge della circoncisione, forte segno nella carne che testimonia l’appartenenza del popolo di Israele al Dio rivelatosi a Mosè.
Un segno che consacra ogni vita al Dio che l’ha donata.
Bella storia.

Obbedienti
Mi affascina questo gesto compiuto da Maria e Giuseppe, un gesto di obbedienza alla tradizione, di rispetto per le Leggi di Israele. Sanno bene che quel bambino è ben più di un primogenito da consacrare, sanno e hanno appena fatto esperienza del mistero infinito che lo abita.
Potrebbe pensare di essere superiori alle Leggi, di non averne bisogno perché sorreggono fra le braccia colui che ha dato la Legge e che, misteriosamente, ha deciso di diventare uomo. Invece no, vanno al tempio come una coppia qualsiasi, compiono quel gesto senza farsi troppe domande.
Fa tenerezza immaginare la coppia di Nazareth incedere timidamente negli ampi spazi del ricostruito tempio, in mezzo ad un viavai di gente indaffarata, alle preghiere pronunciate ad alta voce, all’odore acre dell’incenso mischiato alla carne bruciata… Sono lì ad assolvere un gesto di obbedienza secondo la Legge mosaica: un’offerta da compiere per riscattare il primogenito, un rito che ricorda che la vita appartiene a Dio e a lui ne va riconosciuto il dono.
Gesù obbedisce alla Legge, Dio si sottomette alle tradizioni degli uomini. Nell’obbedienza vuole cambiare le regole, nel solco della tradizione vuole ridare vitalità e senso ai gesti del suo popolo.

Donati
Gesù è offerto al Padre, è donato da subito e quel gesto si ripeterà infinite volte nella sua luminosa vita. Gesù è e resta dono, diventa dono al Padre che ne fa dono all’umanità.
E in questa logica del dono, oggi, desideriamo fortemente fare della nostra piccola vita un’offerta a Dio. Da lui l’abbiamo ricevuta, a lui vogliamo donarla: ciò che siamo sia utile alla realizzazione del Regno, ci aiuti a fare di ogni gesto, di ogni giorno, un atto consapevole di amore verso Dio e il suo progetto di salvezza…
Gesù stesso si comporterà allo stesso modo, senza rigettare le prescrizioni rituali, senza porsi al di sopra della tradizione religiosa del suo popolo, senza fare l’anarchico ma vivendo con autenticità e verità le norme della Torah.
Il gesto di andare al tempio ci incoraggia a vivere la nostra fede attraverso i sicuri sentieri della tradizione, ripercorrendo l’esperienza che ha coagulato l’esperienza dei discepoli attorno a momenti ben precisi, celebrando nella vita la presenza del Signore anche attraverso segni ben concreti, come i Sacramenti.
Troppe volte chi cerca di vivere con maggiore intensità e verità la fede si sente “migliore” di chi, invece, la vive senza grande coinvolgimento. La tentazione, però, è quella di costruirsi una fede che guarda dall’alto le devozioni, le tradizioni, i percorsi abituali della santità.
Non dobbiamo ignorarli od evitarli, ci suggeriscono Maria e Giuseppe, ma riempirli di verità.

Illuminati
Il vecchio Simeone vede il neonato e capisce.
Nella splendida preghiera che ci riporta Luca, vede in quel bambino la luce che illumina ogni uomo, la luce delle nazioni.
In realtà Gesù non emana luce, non ha nessuna caratteristica che lo distingua da qualunque altro bambino. Nessun prodigio, nessun discorso edificante, nessun gesto miracoloso: solo un bambino che sonnecchia, beato, fra le braccia della mamma.
È nel cuore di Simeone la luce. Nel suo sguardo.
Così è la fede: anche noi siamo chiamati a vedere con lo sguardo del cuore, a capire che ogni cosa è illuminata. E di quanta luce necessitiamo, oggi! Di una chiave di interpretazione che ci aiuti a vedere al di là, al di sopra e al di dentro delle evidenze sconfortanti di una società ripiegata su se stessa.
Agli inizi del cristianesimo i seguaci del Nazareno venivano chiamati, fra altri modi, anche “illuminati”.
E Dio solo sa di quanta luce ha bisogno questo mondo! Portiamo luce perché siamo accesi, come le candele che oggi benediciamo.

Simeone
Gesù è portato al Tempio per la circoncisione: è un segno di obbedienza alla Legge da parte dei suoi genitori che non si sentono diversi o migliori, ma appartenenti ad un popolo ricco di tradizioni religiose che essi vogliono rispettare. Nel momento dell’offerta del primogenito a Dio, Maria e Giuseppe incontrano il vecchio e sconfortato Simeone.
Simeone è il simbolo della fedeltà del popolo di Israele che aspetta con fiducia la venuta del Messia, da tutta la vita sale al Tempio sperando di vedere il Messia, ma ora è anziano e Luca ci lascia intuire la sua stanchezza interiore, che è la stanchezza di tanti anziani che incontro ogni giorno.
Simeone è il simbolo dell’ansia profonda di ogni uomo, perché la vita è desiderio insoddisfatto, la vita è cammino, la vita è attesa.
Attesa di luce, di salvezza, di un qualche senso che sbrogli la matassa delle nostre inquietudini e dei nostri “perché”.
La preghiera intensa di Simeone che finalmente vede l’atteso è bellissima: ora è sazio, soddisfatto, ora ha capito, ora può andare, ora tutto torna. Sono sufficienti tre minuti per dare senso e luce a tutta una vita di sofferenze, tre minuti per dare luce ad una vita di attesa.
Che il Signore ci conceda, nell’arco della nostra vita, almeno questi tre minuti…
http://www.lachiesa.it

Con gli occhi di Simeone e Anna
Il Vangelo della festa della Presentazione del Signore al Tempio

Lc 2, 22-40

La festa della Presentazione del Signore al Tempio celebra l’incontro luminoso tra Gesù e l’umanità che lo attende. Il Messia arriva infatti come luce per illuminare le genti, perché tutti coloro che camminano e vivono nelle tenebre possano finalmente vedere la terra luminosa che Dio ha preparato per loro.

In fondo al Tempio di Gerusalemme, i due anziani Simeone e Anna accolgono ogni giorno bambini diversi, per compiere il rito. Quando si presentano davanti a loro Maria e Giuseppe, però, essi vedono nel loro Bambino il Messia annunciato per secoli.

La frase pronunciata da Simeone è densa di significato: i miei occhi hanno visto. Gli occhi di questi due anziani hanno visto certamente tante cose; la vita è trascorsa in mezzo a travagli inaspettati e deboli speranze, talvolta spente dal senso di fatica e di solitudine. Lei, rimasta vedova molto giovane e lui che, per una vita intera, “aspetta la consolazione di Israele”, dopo averne condiviso il dolore e la desolazione.

Sono occhi che sarebbero potuti essere oscurati dalla sofferenza, dalla solitudine, dalla rassegnazione, dalla stanchezza della speranza; occhi che avrebbero potuto rivolgersi altrove, per trovare barlumi di felicità; occhi che si sarebbero potuti spegnere, limitandosi a vedere solo da vicino. Invece, Simeone e Anna sanno attendere per una vita intera e conservano così uno sguardo di speranza, cioè occhi capaci di vedere oltre.

La fede sta tutta qui: nell’avere occhi capaci di vedere oltre. Nel Tempio ci sono ogni giorno tante persone e dottori della Legge, che si avvicendano tra preghiere e liturgie. Eppure, solo Simeone e Anna hanno occhi che vedono, che sanno riconoscere il Signore. Possiamo sempre correre il rischio di comunità cristiane, solenni liturgie, preghiere e devozioni in cui non riusciamo a scorgere la presenza luminosa di Dio; possiamo avere occhi solo per le cose ovvie, accecati dall’abitudine e dall’indifferenza, oppure rivolti solo verso noi stessi e i nostri bisogni. E, invece, la fede cambia lo sguardo: ci dà occhi che sanno vigilare nell’attesa, che sanno ardere di desiderio, che non smettono di cercare e di sognare e, così, riescono a vedere anche oltre le nuvole e a scorgere l’infinito di Dio in ogni cosa.

E Dio viene ogni giorno nel Tempio della nostra vita e della nostra storia. Si fa prendere in braccio e ci chiede di avere gli occhi luminosi di Simeone, di Anna e dei profeti; viene come caduta degli idoli e delle maschere che indossiamo e come segno che contraddice l’apatia, la mediocrità e il potere del male. Viene per aprirci alla risurrezione.

Purché abbiamo occhi che sanno riconoscerlo nelle fessure del mondo.
[Francesco Cosentino – L’Osservatore Romano]

Presentazione del Signore
Luca 2,22-40
(lectio)

Nel tempio di Gerusalemme l’evangelista Luca colloca momenti significativi della rivelazione di Gesù fin dai primi momenti della sua vita. L’incontro con Simeone è occasione di un importante messaggio cristologico. Il sapore pasquale di questo episodio viene ricordato dalla legge sui primogeniti, esplicitamente richiamata con la citazione di Esodo 13. Questo rito di presentazione è un memoriale pasquale. L’anziano Simeone è simbolo del popolo eletto che persevera nella fedeltà; egli indica Gesù come salvezza,  luce delle nazioni e gloria del suo popolo.

Nella prima lettura, il profeta Malachia presenta la purificazione che il Signore opererà nei suoi figli. Innanzitutto si dice che i destinatari della purificazione sono specificamente i figli di Levi, la tribù sacerdotale, a cui, in Deuteronomio 33 era assegnata la responsabilità del culto israelitico, un culto senza contaminazione con altre divinità. Questi sono i giorni antichi e gli anni lontani cui allude il v. 4, i giorni degli inizi e della fedeltà a cui il culto verrà riportato:  una piena restaurazione. Il gradimento dell’offerta è legato a questa celebrazione in assoluta fedeltà.

Nella lettera agli Ebrei (seconda lettura), Gesù partecipa della nostra umanità per poter essere sommo sacerdote misericordioso e fedele. La vittoria di Gesù è sul detentore e responsabile della morte: il diavolo. L’amore è la sintesi delle caratteristiche sacerdotali di Gesù.

v.25: Vi è un legame stretto tra Simeone e lo Spirito Santo. Nei racconti lucani dell’infanzia lo Spirito è dono a coloro che devono svolgere un ruolo particolare nei confronti del Messia. Anche a Simeone tocca un servizio da rendere al Messia: lo deve proclamare come gloria di Israele e luce delle nazioni.

v.29: La punta teologica del Nunc dimittis è che Dio è stato fedele e ha portato a compimento ciò che aveva detto. Ma è molto importante che la condizione in cui Simeone pronuncia il Nunc dimittis sia quella dell’essere servo, schiavo nei confronti del Signore; questa è la condizione in cui anche noi dobbiamo entrare per fare nostro in verità questo canto. Simeone si sente schiavo, servo di Dio e chiama il Signore ‘Padrone’ (in greco dèspota), cioè comandante senza limiti, padrone assoluto degli schiavi, usando un termine molto più raro rispetto a Kyrios (Signore) come appellativo di Dio. Simeone si rivolge a Dio come a Colui che può tutto, che è il padrone e Signore assoluto, e gli chiede di lasciare andare ormai il suo servo nella pace. L’opera di salvezza è pienamente compiuta e Simeone può ora morire nella pace: non lui ha compiuto l’opera, egli anzi non ha portato nulla a compimento, ma l’opera è stata compiuta e realizzata da Dio. È Dio che ha compiuto tutto. Simeone ricorda a tutti noi che il servo di Dio sa che è il Signore che porta tutto a compimento e che lui può solo riconoscere l’opera di Dio e rendere grazie perché veramente importante è ciò che Dio compie.

v.30: L’evento vissuto in quel momento da Simeone, vedere la salvezza di Dio, è evento che racchiude tutta la storia; il vecchio Simeone riconosce che fino a questo momento Dio ha preparato e messo in atto la salvezza per il suo popolo santo, ponendo fine a tutti i tempi della preparazione, da Abramo in poi. Ormai la salvezza è un evento, è realtà qui e ora, in quel Bambino.

v.31: Ciò che vedono gli occhi di Simeone sarà visto da ogni carne, sarà visto da tutta la terra, da tutti i popoli. Anzi, i popoli parteciperanno a questa salvezza e l’accoglieranno nelle loro braccia come Simeone l’ha riconosciuta e accolta nel bambino; dunque sotto le spoglie e i segni dell’umiltà, povertà e abbassamento che è anche il sigillo dello scandalo della croce. Simeone aveva davanti a sé solo un Bambino, ma è lì che ha riconosciuto la salvezza e vi ha partecipato prendendolo tra le sue braccia. I popoli della terra avranno davanti a sé un Crocifisso, la stoltezza della croce, lo scandalo e la follia della croce, ma è lì che dovrà essere riconosciuta la salvezza e vi si parteciperà abbracciando la croce. Luca lascia intravedere che nel Bambino c’è già lo scandalo della croce.

v.32: Con queste parole Simeone attesta che Gesù è il Servo di JHWH, lo schiavo profetizzato da Isaia, di cui si era detto che era luce, rivelazione e gloria. Il Servo è innanzitutto luce. Dice infatti il primo canto del Servo: “Io ti ho stabilito luce delle genti” (Isaia 42) e il terzo canto riprende: “Io ti renderò luce delle genti perché tu porti la salvezza fino alle estremità della terra” (Isaia 49). Il compito del Bambino è il compito del Servo, un compito che supera i confini di Israele e si estende fino ai pagani, per i quali è rivelazione.

Cosa significa per noi il Nunc dimittis? Significa confessare che, avendo creduto in Dio, per noi è ormai indifferente morire o vivere, perché per fede sappiamo di non vedere più la morte. Per il credente la vera morte sta alle spalle ed è nel suo battesimo, per cui la morte che ci sta davanti non deve più essere motivo di paura. Andando a dormire, noi ci prepariamo a un momento di impotenza in cui non siamo padroni di nulla, ci apprestiamo al sonno che, secondo la Bibbia, è figura e profezia della morte. Allora ci prepariamo ad andare verso la morte come all’incontro con il Signore. Noi confessiamo il Signore come padrone della nostra vita, Colui che per la sua potenza può ogni giorno chiamarci a sé, e così impariamo a fare della nostra vita un’offerta, nulla più che un servizio, da cui possiamo chiedere di essere congedati. E chiedere ogni sera di essere congedati dal servizio del Signore ci insegna che non sta a noi finire l’opera, ma che a noi spetta solamente credere e confessare che l’opera di Dio è stata da lui compiuta e portata a termine in noi.

Dicendo che il Bambino sarà segno cui verrà fatta opposizione, che sarà osteggiato e contraddetto, Simeone rivela che la salvezza si può respingere e che il segno dato da Dio può essere rifiutato. Dio non vuole essere servito da schiavi costretti,  vuole uomini liberi che liberamente si fanno schiavi per lui. Ci saranno molti che non crederanno e Dio non lo impedirà loro, ma li lascerà sulle loro strade, perché non c’è violenza e costrizione da parte di Dio. Maria ne soffrirà e una spada le trafiggerà l’anima; ciò significa soprattutto che là, sotto la croce, avverrà la divisione tra l’Israele che rigetta il Messia da una parte e dall’altra l’Israele credente: Giovanni, il discepolo amato e Maria accanto ai pagani che gridano con il centurione: ‘Veramente quest’uomo era figlio di Dio’ e giungono alla fede.

v.35: Maria è figura di Israele ed è anche figura della Chiesa, ma ciò che in lei stessa è unito, nella storia è diviso. E la Chiesa resta nella storia distinta e separata anche dall’Israele credente e fedele che non riconosce ancora in Gesù il Messia e questa separazione resta viva. Maria ha nella storia, in sé, questa separazione e anticipa nella sua figura quell’unità che ancora non c’è. Perché l’Israele timorato di Dio, l’Israele dei poveri che attende ancora il Messia resta Israele e la Chiesa dei vari credenti è e rimane la Chiesa e i due non formano ancora l’unico popolo di Dio.

v.36: Anna è figura sia d’Israele che di tutta l’umanità che ha perso lo sposo e vive una vita esiliata dal volto del suo desiderio. Ma non lascia mai il tempio e continua ad attendere e cercare, con digiuni e preghiere, con dolore e desiderio, notte e giorno. L’incontro avviene in quell’ora in cui Simeone predice la croce, l’ora della contraddizione. È qui che Dio si presenta definitivamente al suo popolo.

v.38: Nella prospettiva del terzo evangelista, attento ai poveri e alle donne, Anna rappresenta il mondo femminile dei giusti in Israele. Per Luca è importante segnalare la presenza di questa figura di donna evangelizzatrice. Il Signore, presentato al tempio e riconosciuto come salvezza di Dio e gloria di Israele, per diventare luce dei popoli ha bisogno anche di umili credenti che comunichino con semplicità la loro esperienza di fede.
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