Dalla domenica scorsa, la novità annunciata da Gesù nello sviluppare la sua rivelazione circa il pane di vita trova grandi incomprensioni e resistenze nei Giudei. Ciò non frena la sua decisione né lo induce a modificare la portata delle sue affermazioni. Piuttosto, egli annuncia con forza che la condizione essenziale per avere la vita eterna e risuscitare nell’ultimo giorno è “mangiare la sua carne e bere il suo sangue”.
“Io sono il pane vivo, disceso dal cielo”.
Giovanni 6,41-51
Siamo alla terza domenica della lettura del capitolo sesto del vangelo di Giovanni, sul discorso di Gesù sul pane della vita, dopo la moltiplicazione dei pani. Dopo aver parlato del pane misterioso dato dal Padre, Gesù adesso rivela che tale pane è lui stesso. Forse proviamo una certa difficoltà a seguire la riflessione che San Giovanni mette in bocca a Gesù. Non si tratta di un racconto lineare, come fanno gli altri evangelisti. Si ha l’impressione che l’evangelista ripeta le stesse cose. In realtà Giovanni avanza a spirale, riprendendo concetti e idee per approfondire il discorso. In questo “progresso a spirale” possiamo notare tre cambiamenti nel brano di oggi.
1. Cambio di interlocutori
Domenica scorsa era stata la FOLLA ad interloquire con Gesù, a proposito del segno del Pane. Malgrado la difficoltà ad andare oltre l’interesse per il pane materiale, la gente aveva manifestato una certa disponibilità al dialogo con Gesù, chiedendo delle spiegazioni e formulando un preghiera, a modo suo: “Signore, dacci sempre questo pane”, alla quale Gesù aveva risposto: “Io sono il pane della vita!”
MORMORATORI. Oggi non si tratta più della folla ma dei GIUDEI. Chi sono questi “giudei”, dato che siamo a Cafarnao, in Galilea, e costoro conoscono le origini di Gesù? Giovanni, nel suo vangelo, quando parla di “giudei” non intende gli abitanti della Giudea, ma gli avversari di Gesù, particolarmente i capi religiosi, coloro che rifiutano il suo messaggio e lo condanneranno a morte. Questi “giudei” non dialogano con Gesù, ma mormorano tra di loro contro di lui. L’evangelista introduce qui il tema della mormorazione del popolo di Israele nel deserto, contro Dio e contro Mosè.
Giovanni ci fa riflettere sui “giudei” che ci sono nel seno della comunità ecclesiale (e in noi stessi) che, dalla chiusura alla Parola, passano alla mormorazione, che è una velata giustificazione della propria “cardiosclerosi”. Accanto alla mormorazione del chiacchiericcio può subentrare una mormorazione “spirituale” ben più pericolosa, per cui ci si chiude nel proprio pensiero e mentalità, impermeabili a qualsiasi novità. Purtroppo questi “mormoratori” abbondano e sono molto attivi nella Chiesa di oggi . Prima di giudicare gli altri, tuttavia, cerchiamo di stanare il “mormoratore” che c’è in ciascuno/a di noi!
2. L’origine di Gesù
Un nuovo tema di discussione viene introdotto dai giudei, quello sulle origini di Gesù: “I Giudei si misero a mormorare contro Gesù perché aveva detto: «Io sono il pane disceso dal cielo». E dicevano: «Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come dunque può dire: “Sono disceso dal cielo»?”. Per loro “il pane disceso dal cielo” è la Torah, trasmessa da Dio tramite Mosè. Non possono concepire che la Parola possa “farsi carne” in un uomo, in “Gesù, figlio di Giuseppe”. Com’è possibile? si dicono tra di loro. Ci troviamo davanti al mistero dell’incarnazione, che è il “vangelo” del cristiano, ma da sempre pietra d’inciampo per l’uomo “religioso” e scandalo per le “religioni del Libro”, ebrei e musulmani.
COM’È POSSIBILE? Al “com’è possibile?” dei giudei di ieri e di oggi, Gesù risponde in un modo che ci spiazza: “Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato”! Ma allora la fede in Gesù è pura grazia, data ad alcuni e negata ad altri? Non può essere così, perché “Dio non fa preferenza di persone” (Atti 10,34). La grazia è offerta a tutti ma va richiesta ed accolta umilmente. È dono e non conquista nostra.
Questa domanda “Com’è possibile?” è una esclamazione frequente per manifestare sorpresa e stupore, ma pure dubbio e incredulità. Anche nell’ambito della fede ci poniamo tale domanda riguardo ad eventi che sembrano mettere in causa la presenza di Dio nella nostra vita e nel nostro mondo. Gesù ci dice: “Non mormorate tra voi”, ma non ci impedisce di porci delle domande e di chiedere delle spiegazioni. Una fede che non si questiona può facilmente diventare un fondamentalismo che porta ad una mentalità di arroccamento e di psicosi di persecuzione. Un sano questionare (non parliamo del dubbio sistematico della diffidenza) ci mette in dialogo con tutti, come compagni di strada di ogni uomo e donna. Però, come coniugare questo con la fede? La vergine Maria, con la richiesta rivolta all’angelo: “com’è possibile?”, ci dice che tale domanda è legittima, se è fatta per rendere più consapevole il nostro “fiat”. Si può anche “dubitare nella piena certezza”! (Cristina Simonelli).
3. Mangiare il pane, mangiare la carne
Fino adesso Gesù si è limitato a parlare di sé come il pane disceso dal cielo. Adesso introduce il verbo mangiare: “Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo” (v. 51). Questo versetto, che sarà ripreso domenica prossima, ci introdurrà, finalmente, nel discorso sull’eucaristia. Il mangiare il pane che è la sua persona, la sua parola e la sua carne diventa la condizione per avere in noi la vita eterna.
ALZATI, MANGIA E CAMMINA! La prima lettura e il vangelo si aggirano attorno al “mangiare” e ci invitano a domandarci di cosa nutriamo la nostra vita. Si parla di tre tipi di pane: il pane della manna che nutre per un giorno, il pane di Elia che nutre per quaranta giorni e il pane che è Gesù che nutre per sempre. La prima lettura (1Re 19,4-8) che ci racconta la crisi del profeta Elia, perseguitato a morte dalla regina Gezebel, è di una bellezza straordinaria. Da una parte, ci mostra la debolezza del grande profeta che aveva sfidato da solo i 400 profeti di Baal, una debolezza che lo rende simile e vicino a noi. Dall’altra, ci mostra la tenerezza di Dio che non rimprovera il suo profeta, ma gli invia il suo angelo, per due volte, per rifocillarlo e rimetterlo in cammino verso il monte Sinai, dove l’aspetta il Signore. Ecco, questo è il nostro Dio, che si avvicina a ciascuno/a di noi nei momenti della prova, di crisi e di scoraggiamento per rianimarci: “Àlzati, mangia, perché è troppo lungo per te il cammino!”
P. Manuel João Pereira Correia, mccj
Verona, agosto 2024
Incapaci di crescere nell’amore
Giovanni 6,41-51
Arturo Paoli
Il brano del Vangelo di Giovanni (6,41-51) non solo ci dice che cosa Dio si aspetta da noi, ma principalmente ci indica quale sia la nostra vera evoluzione. Che cosa vuol dire questo? Sappiamo che l’uomo è un essere in un processo di creazione permanente. Sappiamo anche che questo processo richiederà millenni molto lontani per la sua evoluzione naturale, logica, arriverà fino allo sviluppo razionale al funzionamento della ragione. Ma non basta il funzionamento della ragione per dire “l’uomo è quello che Dio ha voluto”, “l’uomo ha raggiunto finalmente il punto omega della sua evoluzione”. Guai se si dovesse dir questo! Pensate infatti quanti danni ha fatto l’uomo razionale. Non è forse l’uomo razionale quello che fa le guerre? Non è l’uomo razionale quello che accumula ricchezze e lascia morir di fame milioni di suoi fratelli? Non è sempre l’uomo razionale quello che non riesce a vivere in armonia nella coppia? Soprattutto quello che non riesce ad essere un buon educatore dei suoi figli? Anzi è piuttosto uno che schiaccia i propri figli, anche se crede di amarli tanto.
Perciò o aspettiamo un’altra tappa della nostra evoluzione, oppure davvero non ci sarebbe da stare molto allegri e molto felici con l’uomo d’oggi. E vorrei dire con l’uomo dell’Occidente cristiano, perché non si preoccupa di cercare una maggior perfezione, dal momento che “sono diventato intelligente, capace, domino il mondo, posso aver ragione delle negatività della terra”.
Perché non siamo andati avanti in quello che è essenziale? Dove non siamo cresciuti? Nell’amore! Oggi c’è un regresso fortissimo prodotto dalla tecnica, che ci impedisce di avanzare nella comprensione dell’amore. Proprio in questi giorni un giornalista ha scritto questo: «Siamo diventati più cattivi da vent’anni in qua». Più cattivi vuol dire più individualisti, più insensibili ai dolori dell’altro, più chiusi nel nostro Io fetale, che non è 1’Io vero.
Allora ci verrebbe da dire che quello in cui dovremmo evolvere, con un energico balzo in avanti, è proprio l’amore. Perché essere figli di Dio – come ci viene detto nel battesimo e la Chiesa lo ripete continuamente, anche un po’ retoricamente – significa avere la sua stessa fisionomia, rassomigliargli, essere simili a lui. E se Dio è Amore, come gli rassomigliamo? È evidente che nell’amore c’è una evoluzione, e amare l’altro non vuol dire aver abbandonato la tappa primitiva che è quella dell’uomo razionale.
Il Papa Benedetto XVI ha scritto una Enciclica, (Caritas in Veritate, Lettera Enciclica “Sullo sviluppo umano integrale nella carità e nella verità”, Roma 29 giugno 2009), dove si sofferma a parlare dell’amore e della ragione, che praticamente devono fondersi.
Amare non vuol dire perdere l’intelligenza, ma nell’intelligenza può non esserci l’amore. Talvolta in questa ricerca di raffinatezza nell’impiego dell’intelligenza si mette da parte l’amore, perché considerato una forma di debolezza, l’amore è femmineo, l’amore non è degno dell’uomo che pensa!
La proposta di Gesù non è quella della iper-razionalità, il balzo che dobbiamo fare, il punto di arrivo che dobbiamo raggiungere è quello che Charles de Foucauld chiamava il Modello Unico, Gesù. Questa è l’immagine con la quale dobbiamo confrontarci, perché quella è l’immagine che Dio ha pensato che un giorno raggiungeremo. Quindi, quanto più noi oggi ci avviciniamo all’amore, quanto più cresciamo nell’amore, tanto più avanziamo verso questa immagine. L’uomo vero, l’uomo sognato da Dio, l’uomo creato dalle sue mani, è l’uomo che ama, che ama senza misura, che ama fino a donare se stesso, fino a dare anche la sua vita, proprio come Gesù. È Gesù che ha superato tutti gli ostacoli, che non si è fermato davanti alle minacce, che non si è fermato davanti alla certezza di morire sulla croce, ma è andato avanti. Perché? Ecco la domanda. È andato avanti non perché amava la sofferenza, non perché voleva essere una vittima, e neppure perché – bestemmia suprema! – il Padre lo aveva mandato a morire. Per carità! Gesù lo ha fatto solo per l’esigenza di amare fino in fondo, al massimo grado, fino al dono della vita. Qualcuno avrebbe potuto dirgli: «Guarda che c’è qualcuno che ha amato più di te, ci sono i martiri, ci sono uomini che anche per motivi politici hanno dato la vita».
Allora Gesù, proprio come Modello Unico, deve vivere l’amore fino all’ultima tappa, fino a dare la vita per gli altri, per noi.
Pertanto la nostra relazione con Gesù non è quella esteriore – vado alla messa, faccio un pellegrinaggio, lo invoco in continuazione – no, non è di questo tipo. La relazione con lui, come lui stesso ci ha detto, è quella della vite col tralcio: «Voi siete uniti a me, per diventare come me». È un amore evolutivo.
All’opposto ci sono i bigotti, che sono quelli che restano sempre allo stesso punto, sono religiosi statici, che non hanno capito assolutamente nulla, nonostante le loro numerose pratiche devozionali quotidiane. Conosco delle buone persone che dicono di non poter dormire se non pregano. Ahimè! Che disgrazia! Dio non vuole bigotti, ma persone spirituali, che crescano con lui, che lo guardino con gli occhi della fede e che gli dicano: «Vorrei essere come te, ma sono tante povero, tanto incostante, tante incapace, dammi la tua grazia, Signore». Allora ecco che il Cristo risponde: «Io sono la vita … Io sono la verità … Io sono l’Essere compiuto … Sono l’uomo finale, l’uomo Omega … quello sognato dal Padre e voluto da lui … il punto di arrivo… il traguardo … ».
Questo è Gesù, dobbiamo guardarlo così, perché allora ci sentiamo attratti da lui. E vedete, anche se uno si scarnificasse con le penitenze più atroci, non servirebbe a nulla, se non arrivassimo a fissarci su questa immagine col desiderio di raggiungerla in qualche modo, il più vicino possibile.
Quelle mormorazioni che spengono la fede
1Re 19,4-8; Salmo 33; Ef 4,30 - 5,2; Gv 6,41-51
Dalla domenica scorsa, la novità annunciata da Gesù nello sviluppare la sua rivelazione circa il pane di vita trova grandi incomprensioni e resistenze nei Giudei. Ciò non frena la sua decisione né lo induce a modificare la portata delle sue affermazioni. Piuttosto, egli annuncia con forza che la condizione essenziale per avere la vita eterna e risuscitare nell’ultimo giorno è “mangiare la sua carne e bere il suo sangue”.
A questa sue parole reagiscono i suoi ascoltatori, che si mettono a discutere tra di loro dicendo: “può costui darci la sua carne da mangiare?” Questa reazione potrebbe essere assimilata a quella dei figli di Israele nel deserto, quando discutono, increduli, con Mosè perché non si fidano della Parola di Dio.
L’elemento nuovo che ricorre in queste parole di Gesù è l’espressione “bere il sangue”, posta in parallelismo con “mangiare la carne”. Se la carne rappresenta l’umanità di Gesù consegnata alla morte, anche il sangue è connesso con il fatto della sua morte. Nell’antropologia biblica il sangue richiama il principio vitale, di cui l’uomo non può appropriarsi. Gesù quindi nella sua umanità – la sua carne e il suo sangue – consegnata per amore nella morte, è fonte di vita per chi lo accoglie come dono di Dio.
Il verbo di Dio assume la condizione umana non soltanto per piantare la sua tenda in mezzo a noi, ma anche per diventare cibo degli uomini. Tutto quanto in una logica di amore, di comunione, di immedesimazione. Nel senso cioè di offrirsi perché l’altro possa esistere in pienezza.
“Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui”. Il verbo “dimorare” è un verbo tipico del linguaggio giovanneo e significa che il credente viene strappato a se stesso e decentrato; nel senso che il suo centro la sua dimora sono d’ora in poi in Cristo, che cambia radicalmente la fisionomia della sua vita. Il credente entra così in sintonia col mondo di Gesù, assimila le sue scelte, i suoi orientamenti e i suoi sentimenti. E questo ci fa spesso paura.
Don Joseph Ndoum