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Nr pisma
Odbiorca
Znak (*)
Miejsce napisania
Data
31
Suoi genitori
0
Khartum
18. 1.1858
AI SUOI GENITORI

AFC



Dalla Stella Mattutina in Khartum, 18 gennaio 1858
[206]
Cariss.mi Genitori! Eccomi già sulla barca in atto di abbandonare Khartum per avviarci alla volta delle tribù centrali del Bahar-el-Abiad. Questa barca in forma di Dahhabia è la più grande e più forte che esista in Sudan, ed è di proprietà della Missione di Khartum, la quale diede ad essa il nome italiano di Stella Mattutina, quasi dedicandola a Maria Vergine affinché sia veramente stella mattutina di luce ai poveri negri avvolti ancora nelle tenebre dell'ignoranza, e dell'idolatria.


[207]
Noi siamo tutti ardenti e desiderosi di giungere al bramato scopo della nostra lunga e disagiata peregrinazione; e confidiamo nel Signore, che riusciremo a gettare prosperi principi, malgrado le formidabili difficoltà che fino da ora intravediamo. Si tratta che la Missione di Khartum che è divisa in tre stazioni sono dieci anni che è fondata; vi si sono impiegati Nº. 24 Missionari; si sono spesi parecchi milioni di franchi; ed ha fatto assai ad avere l'agio di farsi temere dai turchi e dai negri circonvicini, affine di predicar liberamente il Vangelo; e fino ad ora non ha fatto che la conquista di 120 anime circa, e questi quasi tutti ragazzi, cui per mantenere la fede la Missione è costretta a mantenere di vitto e vestito ed abitazione. E' incredibile la difficoltà, e disagi che son necessari per questa Missione.


[208]
Ma noi forse abbiamo maggiore speranza perché siamo più poveri, e quindi avremo meno bisogni: troviamo finora, a quanto possiamo arguire, assai più formidabile di quello che si pensa in Europa; ma tuttavia cresce sempre in noi la fiducia in Dio, il quale solo [......] potrà renderli suscettibili a ricevere i benefici influssi della grazia divina.


[209]
Voi frattanto non abbiate nessun timore di noi: Dio è con noi; Maria Vergine Immacolata è con noi; S. Francesco Saverio è il nostro Patrono e confidenti noi in queste irremovibili colonne abbiamo sotto dei piedi [......] e la morte, ed i più aspri patimenti e disagi. Sorretti noi da questi preziosi baluardi di Dio, Maria Vergine, e S. Franc. Saverio, siamo più sicuri che se avessimo a presentarci dinanzi alle tribù dell'Africa Centrale con una armata di centomila soldati francesi. Voi dunque non temete di noi, non prendetevi nessun pensiero di quello che sarà di noi.


[210]
Basta che preghiate per noi, e che siamo sempre uniti col cuore, avendo sempre per centro Iddio. Succederà che stiate dei mesi senza ricever mie lettere: ma state allegri lo stesso. Vi dissi già che entro un mese e mezzo vi scriverò al ritorno della Stella Mattutina. Voi però non isbagliate a darmi notizia di voi due volte al mese, cioè, ogni volta che parte il vapore di Trieste per Alessandria d'Egitto, voi non fallate a scrivermi; perché quantunque riceverò le vostre lettere in numero di cinque o sei al colpo, tuttavia voglio essere informato di voi e delle cose di famiglia minutamente, e quindi voglio dalle regolari informazioni di 15 in 15 giorni giudicare più rettamente del vostro stato e di tutto ciò che a voi appartiene: dunque non fallate a scrivermi ogni 15 giorni dirigendo le lettere come vi ho detto che mi giunsero finora tutte.


[211]
Io sono stato più fortunato di tutti i miei compagni finora nel ricevere lettere d'Europa, perché i corrispondenti dei miei compagni, o non hanno scritto che poco, o le lettere sono andate perdute. Stamane facemmo visita al Patriarca d'Abissinia, che è come il papa dei copti eretici: egli va ambasciatore dell'Imperatore dell'Abissinia presso il re d'Egitto. Egli era circondato da un Prelato assistente e da un generale d'armata, e presidiato dalle guardie egiziane. Era sdraiato magnificamente sopra ricchi tappeti di finissimi damaschi e sete; e ci fece grandi accoglienze. È il papa dei copti, che alla morte dei medesimi riceve il quarto delle loro sostanze; sicché è dei più ricchi che vi sieno; ci presentò il Schibuk, ed il tè di cannella. Noi discorrendo della nostra Missione; gli abbiamo significato che nel penetrare nel paese*, arrischiamo la vita. E perché fate così, disseci; per salvarli con le loro anime, rispondemmo, perché anche il nostro Signor G. C. ha dato egli pure la vita per noi. Ah va bene, rispose. Allora gli parlò uno dei Missionari di Khartum di Gesù Cristo, e come se a Dio piacerà, tutti gli uomini piegheranno la fronte dinanzi alla Croce e adoreranno tutti G.C. Sì, lo speriamo, rispose, e mutò discorso parlando dell'Imperatore d'Abissinia.


[212]
Oggi venne a visitarci sulla nostra barca, la Stella Mattutina, e rimase meravigliato nel vedere con quanta attenzione da noi si professa la religione, perché vide la cappella che sta nella barca, ove diremo messa ogni mattina; finalmente si partì meravigliato, dicendoci che avrà sempre a memoria questo giorno per lui faustissimo. E' maestosamente vestito; ed ha tuttaltro in mente che di farsi cattolico; a me venne in mente di persuaderlo ad andare a Roma che vedrà gran cose. Ma basta; state allegri, cari genitori; io parto; e quantunque avrei altre cose a dirvi, pure non ho tempo di scrivere altro, perché la Stella mattutina sta per levar l'ancora da Khartum.


[213]
Ecco che noi partiamo allegri e giulivi, quantunque dobbiamo metterci in mente di affaticare assai senza vederne gran frutti; cioè noi faremo gran cose se potremo apparecchiare e disporre quegli animi, lasciando poi agli altri di coglierne i frutti. Dio è grande; e in lui poniamo ogni fiducia. Voi state sempre con Dio e ricordatevi di far sempre tutto per la maggior sua gloria, e non altro.


[214]
Addio, miei cari genitori: io penserò sempre a voi, e voi pensate di fare ogni sacrifizio per Dio. Un santo Missionario di Khartum, che ora è qui nella nostra barca, mi diceva l'altro giorno, che quantunque ha abbandonato il suo padre, ed una famiglia ricca in cui avea tutti i comodi, quantunque abbia tanto affaticato nella sua Missione, diceva che sarebbe contento se Dio lo mandasse al Purgatorio, perché dice di esser tanto peccatore, che teme l'inferno, perché finora non ha patito nulla che sia degno del Paradiso.


[215]
Vedete quanto bisogna patire pel Paradiso: confortatevi dunque, cari genitori, che voi avete la sorte di patire assai per Xsto; ed è per questo che voi siete già certi d'andare lassù. Vi saluto di cuore tutti dandovi un caro abbraccio. Salutatemi tutti i parenti amici etc. e nell'espettazione di vostre lettere, vi abbraccio cento volte, vi do la benedizione protestandomi



Vostro affez.mo figlio

D. Daniele






32
Suo padre
0
dai Kich
5. 3.1858
A SUO PADRE

AFC



Dalla tribù dei Kich 5 marzo 1858
[216]
Carissimo Padre! Quanta consolazione io abbia provato nel ricevere le vostre carissime lettere del 21 nov.bre 1857, non lo potete immaginare. Sia benedetto il Signore e l'adorabile sua Provvidenza, che sa a suo tempo consolare i suoi servi anche più meschini, benché miseri peccatori! Se volete proprio che vel dica, son partito da Khartum colla spina al cuore che la mamma era in uno stato di malattia aggravatissimo; e questa spina per provvida disposizione divina mi disturbò sempre; sicché ad ogni passo mi parea di trovarmi ad assisterla al letto di morte, quantunque il cuore mi dicesse che non sarebbe volata agli eterni riposi; ma che certo s'avrebbe nuovamente a ristabilire.


[217]
Ora, cosa affatto insolita, per mezzo d'una barca nubiana mi capitò la vostra carissima, con un'altra assai lunga della madre, le quali certo io non aspettava; e queste, piacendo a Dio, mi tolsero dal cuore ogni affanno, e mi colmarono l'animo di soave letizia. O cari genitori! quanto sono care le lettere, gli accenti, le notizie di genitori lontani! Voi lo potete conoscere al pari di me.


[218]
Il Missionario deve essere disposto a tutto: alla gioia ed alla mestizia, alla vita, ed alla morte, all'abbraccio, e all'abbandono: e a tutto questo son disposto anch'io.


[219]
Ma Dio volle darmi questa croce di sentire in un modo insolito il dolore per voi e per la madre; e Dio volle che sentissi anche la gioia dell'attuale suo discretamente prospero stato di salute. Ogni momento io sono con voi; e sento nel mio cuore il peso che voi sentite della material nostra separazione. Quante volte io v'accompagno nelle vostre gite a Supino, al Tesolo, a Riva, nelle vostre gare diurne, e notturne colla madre! e quando disgiungo il pensiero da Dio, sento un'oppressione al cuore e son costretto a volare in cielo colle mie idee, e riflettere che avete un appoggio più sublime, sicuro, ed infallibile del mio, cioè, siete meglio appoggiati sotto la custodia di Dio, che sotto la mia.


[220]
A Dio mi rivolgo ogni giorno ed ora, e vi raccomando ambedue. Egli mi consola, perché sono assicurato che il Signore, e la nostra cara Madre Maria Immacolata ha preso special cura di voi. Né importa, che di quando in quando, succedano fra voi alterchi, risse, e disgusti: Dio gioca con questi al cospetto degli uomini, e mostra che se ci lasciamo in balia nostra, siamo vittime delle nostre umane debolezze, ma in fine dei conti voi colle vostre tribolazione (le quali sono anche mie) siete guardati con ispecial sollecitudine dal cielo; e siete ambedue oggetto delle più care delizie degli Angeli e di Dio.


[221]
Cianci pure il mondo a sua posta; dica pure che due poveri genitori infelici sono, perché senza figli, ma in cielo si discorre in altro modo, lassù è scritto in ben diversi caratteri. La dottrina di G. C., il Vangelo, è affatto opposto alle massime del secolo. Il mondo proclama felicità, delizie, e contenti; il vangelo intima affanni, miserie, dolore; il mondo pensa tutto pel momento e per questa vita mortale, pel corpo; il Vangelo rivolge lo sguardo all'eternità, alla vita futura, all'anima. È cosa troppo chiara che il vangelo e l'anima, abbiano idee affatto diverse da quelle del mondo e dei sensi corporei: dunque stiamo sempre tranquilli, allegri, coraggiosi, e generosi per G. Cristo.


[222]
Io sono martire per l'amore delle anime le più abbandonate del mondo e voi divenite martiri per amore di Dio, sacrificando al bene dell'anime un unico figlio. Ma coraggio, o cari miei genitori: Dio può farmi morir subito, come toccò a 15 altri Missionari della Missione di Khartum, uno dei quali pochi giorni prima del nostro arrivo, spirava nelle braccia del Signore. Dio può far morir voi; tutto è nelle sue mani. Ma Dio può ancora far vivere e me e voi, riserbandoci alla gioia di riabbracciarci ancora, e goderci in santa ilarità parecchi mesi, o anche qualche anno in santa compagnia entro i confini della nostra bella Italia.


[223]
Il nostro Superiore ci tempesta con lettere che vuole che uno ritorni subito con moretti e morette e così continuare ogni anno; e noi siamo obbligati a farlo, quantunque quest'anno ci sia affatto impossibile per non potere ora fare una eletta e buona scelta di indigeni di quella tribù, ove andremo; ma nell'anno venturo uno di noi certo ritornerà con una spedizione in Europa; e questo un anno o l'altro toccherà anche a me, se sarò vivo. Gettiamoci dunque con cuor generoso sotto le ali benefiche della Provvidenza divina; ed ella meglio di noi disporrà ogni cosa.


[224]
Per me la immensa distanza che ci separa, non è ancora da tanto da farmi obliare menomamente la nostra patria e familiari consuetudini. Tante volte passo mezze giornate in mezzo a questa gente*, senza che m'accorga di essere lontano di casa mia e da voi, e bisogna che rifletta sopra, per sapere che sono nel centro dell'Africa, in terre sconosciute.


[225]
Allorché col Crocifisso al petto io m'avanzo in mezzo ad una turba di nudi indigeni* armati di lancia, d'arco e di frecce che mi circondano, e muovo loro qualche parola della fede di G. C., al vedermi solo, o con un altro, circondato da questa gente feroce, che con un colpo di lancia potrebbe gettarmi morto a terra, allora m'accorgo che non sono in Europa, e fra voi. Ma peraltro mi siete anche allora dinanzi agli occhi, e mi pare che siate prostrati dinanzi a Dio, per supplicarlo a rendere efficaci le nostre parole.


[226]
Vedete adunque che siamo sempre uniti fra noi col cuore, benché col corpo tante migliaia di miglia lontani: anzi per me, bisogna che rifletta sopra un poco per sapere che veramente sono da voi lontano. Sia benedetto il Signore, che ad ogni piaga sa applicare il balsamo del conforto.

Non vi sarà discaro, che io vi dia qualche ragguaglio del nostro periglioso viaggio fra le tribù dell'Africa Centrale dopo Khartum. Io vorrei soddisfarvi appieno, ma mi è affatto impossibile il darvi una descrizione di tutto quello che ci occorse, e fu oggetto delle nostre osservazioni: non ho proprio né il tempo, né il potere, perché gravi occupazioni, e altri impedimenti, che accompagnano il Missionario in queste regioni, mel vietano.


[227]

Se si trattasse di sedersi al tavolino, ed avere i propri comodi, come potete aver voi, vi farei vedere a scrivere un volume sul mio viaggio da Khartum alla tribù dei Kich, da dove io scrivo; ma quando si tratta che per iscrivere due righe, devo accovacciarmi sotto un albero, o entro un'oscura capanna arabescamente sdraiato in terra, o sopra il mio baule accomodato sulle ginocchia; a dirvi il vero dopo che ho scritto mezz'ora, mi duole la schiena e le ossa, e ho bisogno di camminare, per sollevarmi un po' lo spirito.
 


[228]
Dunque voi contentatevi di un solo piccolo ragguaglio; e gli altri a cui scriverò in Verona, od altrove, si contentino di un saluto. La distanza che ci separa da Khartum ai Kich, non è che di mille e qualche centinaio di miglia. Ma innumerabili sono gli accidenti che occorrono in questo terribile e pericoloso tragitto.


[229]
Prima peraltro di venire alla descrizione del nostro viaggio sul Fiume Bianco, debbo premettere, che il Nilo, sopra cui viaggiammo fino a Khartum, è formato dai due grandi fiumi, conosciuti dagli Arabi sotto il nome di Bahar-el-Azrek, o Fiume Azzurro, e di Bahar-el-Abiad, o Fiume Bianco; i quali ambedue si uniscono ad Ondurman, vicino a Khartum, formando il Nilo propriamente detto, che dopo un corso di più migliaia di miglia attraverso la Nubia e l'Egitto, sbocca nel Mar Mediterraneo, non molto lungi d'Alessandria.


[230]
Le sorgenti del Fiume Azzurro, sono già conosciute fino dall'antichità e sono il Lago di Dembea in Abissinia vicino a Gondar; e su questo Fiume Azzurro viaggiò D. Beltrame fino al 10º grado per trovarvi un punto adattato per una Missione giusta il piano del nostro Superiore: ma per molte giuste ragioni non trovando opportuno questo fiume, dopo mature riflessioni, dietro avviso del nostro Superiore in Verona, fummo risoluti di tentare l'ingresso in altre tribù più adattate del Fiume Bianco.


[231]
Benché il Nilo sia messo dai geografi pel 4º. del mondo, nulladimeno ora è già certo che è il fiume più lungo del mondo, perché dai geografi è calcolato il Nilo come continuazione del Fiume Azzurro, conosciuto, come dicemmo, fino dall'antichità, laddove si deve invece considerare come padre del Nilo il Fiume Bianco, il quale è più di mille miglia più lungo dell'Azzurro: per cui, calcolato solo il fiume che noi percorremmo finora, il Nilo è più di 400 miglia più lungo del più lungo fiume del mondo.


[232]
A quel che noi abbiamo percorso aggiungete che le sorgenti del Fiume Bianco, o Bahar-el-Abiad, sono ancora sconosciute; e vi sarà chiaro che il Nilo è il più lungo fiume del mondo di parecchie centinaia di miglia. Debbo ancora premettere che il Fiume Bianco fino a un certo segno è stato percorso da qualche altro, e specialmente dal nostro defunto confratello D. Angelo Vinco del nostro Ist.o; quindi le sue sponde sono in qualche modo conosciute: ma nessuno penetrò molto addentro terra; sicché quantunque delle più interne* tribù dell'Africa Centrale (che sono quelle del Fiume Bianco), quantunque si conosca di molte il nome, tuttavia dei loro costumi, indole etc. nulla si sa.


[233]
Per farvi comprender questo, supponete che il Regno Lombardo-Veneto sia sconosciuto, e che noi tentassimo di conoscerlo per predicarvi il Vangelo: supponete che Riva sia Khartum da dove noi partiamo per penetrare nel Regno Lombardo-Veneto; e che il Lago di Garda sia il Fiume Bianco; supponete ancora che il lago di Garda sia stato da qualcheduno percorso fino a Gargnano e Castelletto, come fino a un certo segno fu percorso da Vinco il Fiume Bianco. Ora andando voi da Riva a Gargnano e a Castelletto, voi sapete che esiste il Lombardo-Veneto, perché quei di Gargnano vi diranno che sono Lombardi, e quei di Castelletto vi diranno che son Veneti, perché e Gargnano appartiene al Lombardo, e Castelletto al Veneto.


[234]
Ma per essere voi stati a Gargnano e Castelletto, potete voi dire di conoscere il Lombardo-Veneto? No, perché per conoscere questi due regni bisogna andare a Milano e Venezia etc. Peraltro dall'essere solo andati a Gargnano e Castelletto, sapete che esiste il Lombardo Veneto. Ora le sponde del Nilo sono abitate da diverse tribù, che s'internano dentro terra, le quali sono affatto sconosciute, perché nessuno penetrò molto addentro terra, quantunque di esse si sappia il nome, perché esse si stendono fino al fiume.


[235]
Io sono nella tribù dei Kich: ma nulla, o poco so di essa, perché essa si stende molto verso terra, ove nessuno penetrò. Eppure sono nella tribù dei Kich, e so che essa esiste. Ciò posto il nostro scopo è di cominciare la predicazione del Vangelo in una di queste vaste tribù delle Regioni incognite dell'Africa Centrale, cominciando dalle sponde del Fiume Bianco, e grado grado penetrando entro terra fino alla capitale di questa, e poi distendersi in altre tribù, fino che a Dio piacerà.


[236]
A tale scopo all'alba del giorno 21 gennaio, dopo gli scambievoli abbracciamenti del nostro caro compagno D. Alessandro Dalbosco, che rimase a Khartum in qualità di nostro Procuratore, partimmo da questa città noi quattro, cioè, D. Gio. Beltrame capo della Missione, D. Fran.co Oliboni, D. Angelo Melotto, ed io, per effettuare una diligente esplorazione sul fiume Bianco, affine di piantare una Missione fra i negri secondo il gran disegno del nostro Superiore D. Nicola Mazza di Verona.


[237]
La barca che ci dovea trasportare in questo ardito e periglioso viaggio, era la Stella Mattutina di proprietà della Missione di Khartum; ed era guernita di 14 bravi marinai, alla testa dei quali presiedeva un coraggioso ed esperimentato Raiis (capitano), il quale fece altra volta questo viaggio; e bene abbiamo conosciuto per esperienza, quanto fosse destro e perito nella malagevole arte di navigare su questo grandioso e interminabil fiume. Dopo un terribile constrasto coll'onde contrarie del fiume Azzurro, girata l'estrema punta di Ondurman, ove s'uniscono i due gran fiumi, ecco presentarsi il Bahar-el-Abiad, che s'apre dinanzi a noi in tutta la sua incantevole maestà e bellezza. Un gagliardissimo vento ci spinge rapidamente su quelle acque sconvolte ed agitate, le quali per la lor grandezza, larghezza, e maestà, rassomigliano più che a fiume, ad un lago che scorra entro l'antico Eden.


[238]
Le sponde lontane sono pittorescamente ammantate d'una svariata verdura, che un sole cocente, ed una perpetua primavera, fecondano in ogni tempo e stagione dell'anno. La nostra Stella Mattutina sembra sorridere a quell'onde frementi, e vola maestosamente per mezzo a quel gran fiume colla rapidità, con cui i nostri piroscafi solcano il nostro Lago di Garda, benché la Stella Mattutina cozzi contro la corrente del fiume. La prima Tribù che s'incontra al di là di Khartum (la qual città è posta al 16º. grado di Latitudine N., e Verona fra il 45º. ed il 46º.) è quella degli Hhassanièh, che si stende sulla sinistra e destra sponda del Bahar-el-Abiad, e consta delle due razze negre, e nubiane, i cui abitanti s'occupano della pastorizia, da cui traggono il lor principale alimento.


[239]
Gli Hassanieh vanno sempre armati di lancia; e come i Nubiani di qua e là dal deserto, hanno sempre al gomito legato un tagliente coltello, di cui si servono a proprio servigio e difesa. E fu appunto in questa tribù che il secondo giorno ci fermiamo per la compera di un bue per noi, e pel nostro equipaggio. Nulla vi posso dire di questa vasta tribù, se non che è tribù nomade, le cui grandi famiglie girano or qua or là, secondo che trovano più pingui e agiati pascoli pei loro bestiami. Essa si stende, a quanto ci consta, fra il 16º. ed il 14º. grado di L. N. e fra il 29º. e 30º. grado di long.ne secondo il meridiano di Parigi.


[240]
I villaggi, e cittadelle, che s'incontrano in questa tribù, sono alquanto discosti dal fiume, altri a destra, altri a sinistra, e sono Fahreh, Malakia, Abdallas, Ogar, Merkedareh, Tura, Waled Nail, Uascellay, Raham, Mokabey, Gùlam Ab, Husein Ab, Scheikh Mussah, Salahieh, Tebidab, Mangiurah, Eleis etc. etc. quantunque ogni tratto di terreno per le tribù Nomadi, sia una città, mentre non hanno mai ferma stanza in un luogo. Entro i confini di questa tribù sorgono ad abbellire questa specie di terrestre paradiso i piccoli colli di Gebel Auly, Menderah, Mussa, Tura e Korum, dopo i quali, ad eccezione delle piccole montagne dei Dinka al 12º. grado, fino al 7º. è una perfetta pianura.


[241]
Oltre il 14º. gr.do di Lat. si stendono due altre piccole tribù cioè quelle di Schamkàb a sinistra, e Lawins a diritta; ma di quelle nulla sappiamo fuorché sono genti assai guerriere, e per essere vicine agli Hassanieh, ed i Baghara, i loro costumi saranno pressappoco consimili. Ma eccoci fin dal giorno 25 gennaio entrati nella vasta Tribù dei Bagharah, che alla sinistra si stende fra il 14º. e il 12º. gr. di Lat.; e a destra dal 13º. al 12º., essendovi nello spazio che corre dal 13º. al 14º. a destra la tribù nomade degli Abu-Rof, i cui costumi sono pressappoco come quegli degli Hassanieh.


[242]
Qui appunto noi veggiamo mutata affatto la scena della nostra lunga peregrinazione. Oltre la tribù degli Hassanieh, sul principio di quella dei Baghara, le città, i villaggi, le abitazioni vengono a scomparire, e le ultime diramazioni del tipo arabo-nubiano stanno per cedere definitivamente il luogo alla formidabile e razza dei negri. Se m'avessi a cimentare a descrivervi lo spettacolo, che ci tiene occupati per parecchi giorni lungo le sponde del Fiume Bianco fiancheggiate dalle prepotenti selve dei Baghara, tenterei l'impossibile; e credo che il più grande scrittore dei nostri tempi non potrebbe presentare un'idea della bellezza, maestà, ed incantevole aspetto di una vergine e non mai contaminata natura, onde sorridono questi giardini incantati.


[243]
Le basse sponde del fiume larghissimo e maestoso, sono coperte d'una imponente e rigogliosa vegetazione, non mai tocca né alterata da mano d'uomo. Da una parte immense boscaglie impenetrabili, e fino ad ora non mai esplorate, formate da gigantesche mimose e verdeggianti nébak (alberi di straordinaria grossezza, altezza, e vecchiezza, perché mai toccati da mano d'uomo) addensandosi insieme, formano una smisurata e variopinta selva incantata, che offre il più sicuro ricovero a immense torme di gazzelle d'antilopi, tigri, leoni, pantere, iene, giraffe, rinoceronti, ed altre fiere silvestri, che si familiarizzano con altre infinite steppe di serpenti d'ogni qualità e grandezza: dall'altra parte altre selve di mimose e tamarindi, ed ambai etc. compariscono vestiti di verbène, e d'una certa erba folta e seguace che formano come delle naturali capanne, ove certo si starebbe al sicuro dalla più diluviante pioggia.


[244]
Centinaia di amenissime isole, fertili, grandi, piccole, leggiadramente vestite di verde smalto, l'una più bella dell'altra, offrono da lungi l'aspetto di amenissimi giardini. Queste vaghe isolette sono ombreggiate da una serie di superbe mimose ed acacie, che lasciano appena penetrare qualche raggio del cocente sole africano, e formano per più di 200 miglia un arcipelago, che offre l'aspetto il più incantevole.

Infinite torme di uccelli d'ogni grandezza, varietà, colore; uccelli perfettamente dorati, altri argentati etc. svolazzano modestamente senza alcun timore su e giù pegli alberi, fra l'erba, sulle sponde, sopra le corde della barca. Ibis bianchi e neri, anitre selvatiche, pellicani, abusein, gru reali, aquile d'ogni specie, aghironi, pappagalli, marabuh, abumarcub, ed altri uccelli svolazzano, o passeggiano su e giù per le sponde collo sguardo rivolto al cielo; sì che par che benedicano la benefica Provvidenza di quel Dio che li creò.


[245]
Torme di scimmie accorrono al fiume per dissetarsi, saltano su e giù pegli alberi, scherzando lietamente colle più ridicole smorfie proprie della loro natura. Centinaia di antilopi gazzelle van pascolando fra quelle selve, che mai udirono il rimbombo di una schioppettata, o esperimentarono l'astuta arte dei cacciatori di tender loro insidie per ucciderle. Immensi coccodrilli sdraiati sugli isolotti, o sulla riva; smisurati ippopotami sbuffando su dall'acqua, specialmente sulla sera, intronano l'aria dei più furibondi ruggiti, che echeggiando nella foresta, mettono in sulle prime terrore, destano nell'animo l'idea più sublime di Dio.


[246]
Quanto è grande, e potente il Signore! La nostra barca cammina, si può dire, sulle spalle degli ippopotami; i quali per essere grandi come quattro volte un bue, e numerosi, perché a centinaia, potrebbero affondarci in un istante; ma Dio fa sì, che quegli animali ferocissimi fuggano dinanzi a noi. Piroghe e barchette di africani* nudi armati di scudo e di lancia, potrebbero assalirci in un paese segregato da tutto; e invece appena si accorgono che noi ci avanziamo senza timore, si danno a precipitosa fuga, nascondendosi sotto i rami di quegli alberi giganteschi posti sulle sponde del fiume, che per la loro smisurata grandezza, si stendono oltre l'argine del medesimo.


[247]
Altri uomini*, guadagnata la sponda, scendono a terra e s'inselvano. In tal guisa dilettando il nostro sguardo, e benedicendo il Signore, eccoci al Passo di Abu-Said-Mocadah, luogo ove il fiume è assai largo e basso, e ove la barca si arena. I marinai tutti son costretti a saltare nel fiume, e con indicibile fatica trascinando la barca, riescono dopo alcune ore a trarla fuori. E' una cosa grande l'arenamento d'una barca.


[248]
Più di cento volte ci toccò di trovarci in luoghi, ove il fiume era molto largo, e fondo solo un piede: in allora i marinai scendono nel fiume, e a forza di urti e spinte trascinano la barca per più miglia, finché il fiume sia più fondo, e la barca favoreggiata dal vento possa correre da sé. Oltre Abu-Said, vedesi sulla sponda qualcuno nascosto fra gli alberi colla lancia in mano, che sta furtivamente osservando la Stella Mattutina; altri accortisi d'esser veduti da noi, si danno alla fuga: in quel mentre la barca urta in uno scoglio, e noi siamo colpiti da improvviso sconquasso. Tutte le circostanze sembrano additarci che la barca è sfracellata: invece è salva; quantunque per tutto il viaggio continuasse a far acqua in modo inusitato. Piroghe di indigeni* sono ascose fra le lunghe canne, onde è coperta qualche isola.


[249]
Fra quest'isole spiccano per bellezza e grandezza quelle di Assal, Tauowat, Genna, Sial, Schebeska, Gubescha, Hassanieh, Dumme, Hassaniel Kebire, Mercada, Inselaba, el Giamus. Lo spazio finora percorso, è lungo i confini della tribù dei Baghara propriamente detti. I Baghara, che in nostra lingua significa vaccai sono così chiamati per la special predilezione che hanno per l'educazione delle bestie a due corna, fra le quali primeggiano le vacche, le quali per loro fanno l'ufficio che per noi fanno gli animali da soma e da cavalcatura. Di queste vacche ne hanno un numero infinito, e formano tutta la sorgente della loro ricchezza.


[250]
I Baghara sono divisi in varie tribù, conosciute nel Centro dell'Africa sotto il nome di Baghara Hawasma, Baghara Selem, Baghara Omur e Baghara Risekad; ed io giudico che sieno state così divise forse per la ribellione di grandi ricchi vaccai, che crescendo la loro dovizia di vacche, andarono in cerca di nuovi pascoli, facendosi capi di altrettante tribù. I Baghara essendo sommamente ricchi di bestiami sono in continua guerra colla potente tribù dei Scelluki, i quali vengono a rubare le loro ricchezze, come dirò più sopra, e colla grande tribù di Gebel Nuba, alla quale appartiene il moro Miniscalchi che ora si trova in Verona, e che voi pur conoscete. Circa il governo, e la religione dei Baghara, nulla vi posso dire. Solo che questa tribù, come quella degli Hassanieh, per molte giuste ragioni non convengono per ora al nostro scopo.


[251]
Noi perciò procediamo innanzi, e già dinanzi a noi quegli uomini* che da lungi ci scorgono, prontamente si danno alla fuga; mandre di migliaia di bufali, tori, e vacche si veggono nelle lontane praterie; crescono le boscaglie alla riva destra; vengono meno alla sinistra: fu uno spettacolo il vedere una mandra di buoi in un'isola, che spaventati al passaggio della nostra barca, corrono a tuffarsi nel canale per passare alla riva, indarno i guardiani li impediscono colle loro lance; per cui questi montati sul dorso de' buoi, tragittano il fiume, sicché parea di vedere un esercito datosi a precipitosa fuga; già la nostra Stella Mattutina vola per l'onde; ed ecco tutto ad un tratto vicino al basso fondo di Mocàda-el Kelb, la barca si arena; è la mezzanotte; veggonsi a diritta fuochi di indigeni*, che appoggiati ai loro scudi, colla lancia in mano ci stanno osservando; e questi sono Dinka.

A sinistra dodici o quindici piroghe, pressappoco simili alle gondole veneziane, benché assai più rozze sono ancorate, mentre i rispettivi barcaioli stanno colle loro mogli e figli nudi nella vicina boscaglia a cavalloni al fuoco (i quali fuochi sono fatti coll'accendere quei giunchi ancor piantati, che trovansi).


[252]
Siamo fra i Scellùki ed i Dinka. Qualche barca di Scelluki rasenta la loro riva fissando impauriti la nostra Stella Mattutina. Qualche altra dei Dinka, passa e s'allontana da noi impaurita. Noi salutiamo il capo; ed ei risponde al saluto e fugge. In quella notte sono vani i tentativi di estrarre la nostra barca dal fango e dall'arena. Due barcaiuoli fan guardia per isvegliarci, se s'avvicinan barche armate di indigeni* con ostili intenzioni. Dio ci proteggeva: nessun sinistro accidente ci tocca.


[253]
La nostra posizione è assai critica. Si tratta che siamo in mezzo al Fiume Bianco, in cui da una parte sono i Dinka, i quali anche nell'anno scorso hanno massacrato alcuni della barca di un certo Latif di Kartum, e fecero altre crudeltà; dall'altro sono i Scellùki, una delle più potenti e feroci tribù dell'Africa Centrale, che vive di rapine e ladronecci.


[254]
Noi non ci possiamo muovere: abbiamo bensì dieci fucili; il Missionario si lascia trucidare cento volte piuttosto che discorrere di difendersi con grave pregiudizio dell'inimico. G. C. non avrebbe fatto così. Il capitan della barca avvilito, ci dice che non sa che farci. Se quegli uomini* avesser voluto, avrebber potuto annientarci in meno di dieci minuti. Sapete voi come la discorrevamo noi?


[255]
Fra le altre cose, dopo trattato e ritrattato ogni partito, dicevamo che se fosser venuti gli Scelluki per assaltarci armati, noi con al petto l'invulnerabile nostro crocifisso avremmo ceduto loro ogni cosa, e barca e tutto; essi ci avrebbero certo menati schiavi dinanzi al re de' Scelluki, forse per subire la pena: ma colla grazia di Dio, e coll'esercizio della carità, e sulle prime in qualità di medici avremmo guadagnato l'affezione di quella gente*, finché senza cercare altrove campo da sudare nella vigna di Cristo, qui avremmo piantata la Croce e la Missione.


[256]
Tale era la nostra condizione, ma noi avevamo un'arma assai potente per non temere di nulla. Nella Stella Mattutina v'è una bellissima cappella, che è fregiata da una bellissima immagine di Maria. Come avrebbe potuto la nostra buona Madre, ai cui piedi abbiamo posto la nostra Missione, vederci patire, ed in grave imbarazzo; e non soccorrerci? Alla mattina si celebrò messa. Oh, come fu dolce in quella circostanza difficile stringere fra le mani il Padrone dei fiumi, ed il Signore di tutte le tribù della terra, e pregarlo per noi, pei nostri bisogni, per quelli che sono in pericolo con noi, per voi, per quelli che non lo conoscono, per tutto il mondo!


[257]
Sì, miei cari genitori, la più consolante preghiera in quel frangente fu fatta a pro dei Scelluki e dei Denka, nelle cui terre non brillò mai una scintilla dell'evangelica luce. Se noi fossimo stati fatti prigionieri in quel punto, e condotti incatenati davanti a quel superbo re, forse sarebbe stata la salute di quella fiera gente*; ma noi, e forse nemmen loro meritavano tanta grazia. Alla mattina i nostri marinai scendono nel fiume, e per più ore con indicibili sforzi e fatiche tentano di estrarre la barca da quel basso fondo; ma la barca non si muove: che doveasi fare in quel punto?...


[258]
Ci siamo fra noi convenuti di chiamare in aiuto quegli uomini*. Alzate le più alte grida, additammo loro di venire a noi, quasi per ricevere dei doni. Dopo un'ora di gridare, batter le mani, strepitare, e quel che volete, una piroga contenente 12 Scelluki* con un capo, si distacca dalla riva, e viene verso noi armati di lancia, arco, frecce, e scudo; mentre tutte l'altre sulla riva si stanno apparecchiando armate per venire in soccorso della distaccata.


[259]
Giunta a bordo della nostra Stella Mattutina, con motti e con grida mostriamo loro che vogliamo essere aiutati da loro ad estrarre la nostra barca. Essi ci fanno intendere che prima di far questo vogliono ritornare a riva a trattare col loro capo per convenire per quante conterie (pezzi di vetro) essi faranno questo. Noi non permettiamo. Allora essi deposte l'armi, ad eccezione della lancia, balzano nel fiume per aiutare i barcaiuoli: ma fu tutto vano. Allora facemmo loro intendere che andassero a chiamare degli altri, e che noi dopo li avremmo ben bene pagati. No, essi risposero; noi vogliamo, dissero, due o tre ostaggi dei vostri capi (così chiamava noi sacerdoti), e questi condurli con noi, e ritenerli, finché voi ci avrete dato conterie.


[260]
Mentre il capitano contrastava e diceva di no, noi convenivamo a chi dovesse toccare di andare ostaggio. Tutti quattro volevamo andare; e infine mentre che ciascuno di noi mostrava le ragioni per cui era conveniente che andasse, essi* si sono distaccati, e in men di un quarto d'ora, capitarono altre tre piroghe di uomini* armati come gli altri sopra, i quali a tutta possa si diedero a tentare di smuovere la nostra barca. Dopo non pochi sforzi la barca si muove: tutti allegri noi facemmo loro* coraggio; ed essi quando videro che la barca si movea, s'arrestarono, e colla lancia in mano domandarono le conterie. Noi le mostrammo loro, ma essi non ora noi pensammo di darle, ma quelli, avutele fra le mani, ad un tratto si dileguarono da noi, lasciandoci soli, e colla barca più approfondita che prima.

Essi giunti a terra li vedemmo, radunarsi in gran numero, e dividersi quel pacchetto di conterie. Così passò tutto quel giorno. Noi ad ogni momento stavamo osservando i nostri amici Scelluki; e a dirvi la verità, quel vedere andare avanti e indietro piroghe, comparirne delle altre, vedere i Denka dall'altra parte del fiume allontanarsi, (e noi sapevamo che i Dinka temono assai gli Scelluki, in modo che quando molti sono i Scelluki da una parte, fuggono i Dinka dall'altra) ci facea dubitare che essi tentassero di impadronirsi della nostra barca e fare una buona frittata di noi.


[261]
Venuta la sera, e la notte, noi teniamo consiglio del come uscire da quel frangente. Si propone, si discute, si prega: ma vel dissi di sopra che non si può mai temere quando si pensa che avevamo una Madre potente ed amorosa che vegliava per noi.


[262]
La Vergine Maria, il prezioso conforto del Missionario, quella Vergine, che è la vera Regina della Nigrizia, la Madre della consolazione, non poteva lasciare in abbandono quattro poveri suoi servi, che tentano di farla conoscere in un col suo divin Figlio anche a quelle genti idolatri. Ella veniva in nostro soccorso col suggerirci il mezzo di trarci da quell'imbarazzo. Alla notte vegliano le solite sentinelle; e ci vuol molto a negare a' barcaiuoli il fucile; e noi dovevamo così fare perché non succedesse una zuffa, e s'appiccasse mischia con loro*; poiché i nostri barcaiuoli son maomettani; ed è per loro una virtù uccidere altrui.


[263]
Passata la notte, alla mattina si dà esecuzione al disegno stabilito: il disegno era questo: coi 16 remi della barca (che sono grossi quattro volte più che quelli de' nostri benacensi battelli) costruire una zattera in luogo, ove il fiume fosse fondo; e sopra questa zattera mettervi 30 casse, quelle cioè che dal contatto dell'acqua non soffrissero detrimento, come ferramenta, bottiglie, chincaglierie etc. allo scopo di alleggerire la barca, la quale certo verrebbe più a galla dall'acqua, e così più facilmente verrebbe spinta dai barcaiuoli in luogo, ove l'acqua fosse fonda. La cosa fu eseguita con esattezza e celerità. Il caricare la zattera, il respingere la barca, il ricaricare, fu l'opera di circa 10 ore; ed è cosa incredibile sotto un sole di 38 gradi quanta fatica durassero i barcaiuoli ad affettuare il trasporto.


[264]
Dio benedì il disegno; e dopo 42 ore di penosa dimora in quel terribile basso fondo, favoriti da vento gagliardo proseguimmo il viaggio, ringraziando la divina Provvidenza che aveva in quel giorno ammutolita la bellicosità* dei Scelluki, i quali mai si lasciano scappare simili occasioni per far prede e bottino. Lieti per aver passato questo pericolo ci avanziamo rapidamente e con molta cautela: ad ogni quarto d'ora la Stella Mattutina si arena di nuovo, e con fatica si disarena: spesso urta negli scogli, e nelle secche; ed è meraviglia, che questa barca, quantunque la più grande e forte del Sudan, perché tutta lastricata di ferro, ci abbia condotti fin qui fra i Kich senza sfracellarsi.


[265]
Le sponde sinistra e destra brulicano di uomini armati di lancia, scudo, arco e freccia. Sono i Scelluki a sinistra; a destra i Dinka, i quali quando s'accorgono che i Scelluki sono in gran numero, s'addentrano fra la boscaglia, e sol compariscono quando men popolata di Scelluki è la riva sinistra. E' una cosa sorprendente il vedere tratti di molte miglia di terreno, coperte di bestiami, di vacche, di tori; e vedere nuvoli di migliaia, e milioni di uccelli (non esagero punto) d'ogni specie, colore e grandezza toglierci la vista del sole.


[266]
Immaginatevi foreste e praterie, ove mai si tesero insidie ad uccelli. Gli indigeni* non fan nulla per pigliare gli uccelli, i quali d'altra parte non sono fra loro un cibo ricercato. Più che si procede innanzi, vengono meno, e s'addentrano sempre più le boscaglie, finché più non si veggono; sicché le rive fino al 7º grado non compariscono coperte che di giunchi, papiri, mimosette; e solo di tratto in tratto sorge giganteggiando il Bamboas, che è la specie di albero più grosso ed alto del mondo. Prima di giungere alla capitale de' Scelluki, ove ci fermiamo colla Stella Mattutina, voglio darvi un piccolo cenno delle due grandi tribù degli Scelluki, e dei Dinka. La tribù degli Scelluki, una delle più grandi e potenti tribù dell'Africa Centrale, si estende dal 12º al 9º grado di L. N.


[267]
A quanto ci consta non hanno alcuna religione: solamente credono e riconoscono uno spirito invisibile che ha fatto ogni cosa, il quale talvolta scende a visitarli sotto la sembianza d'una lucertola, d'un sorcio o d'un uccello. Siccome gli Scelluki non hanno abbastanza mandre di vacche per fare i loro matrimoni e vivere, così sono in continua guerra colla vicina tribù dei Baghara, che ora sono molto ricchi, e questo per le ruberie che tentano presso i medesimi. Ogni anno, quando i venti soffiano dal sud, quella parte di popolazione Scelluka che si trova stretta da povertà, si unisce in numerose truppe comandate da un lor capo; e sopra le veloci loro piroghe scendono per ben duecento miglia il fiume, e s'ascondono nelle isolette folte di boschi, di cui vi parlai sopra.


[268]
Quando son giunti ad esplorare i luoghi ove i Baghara conducono ad abbeverare i loro bestiami, s'uniscono in squadre di trenta quaranta piroghe, le quali per essere veloci, lunghe, e basse, possono alla notte vogare inosservate, e scomparir facilmente dietro al folto erbame delle rive. Quando arrivan le greggi, e si gettano assetate nell'acqua, gli appiattati Scelluki piombano colla lancia in pugno in mezzo agli spaventati guardiani, imbarcano vacche, montoni, tori, etc. e ritornano alle loro isole, prima che dai lontani accampamenti i Baghara possano giungere in soccorso dei confratelli assaliti; i quali non avendo barche, né verun mezzo per correr dietro ai ladroni, non ponno che minacciare da lungi il rapitore nemico.


[269]
I Baghara poi si vendicano qualche volta degli Scelluki. Informati talvolta dell'arrivo e degli ostili disegni degli Scelluki, li aspettano imboscati nei macchioni della riva; corrono loro addosso al momenti in cui i negri stanno inseguendo la preda, li separano dai loro battelli, e fattili prigionieri, li vendono come schiavi ai mercanti nubiani, e diventano poi oggetto di commercio nei mercati di Khartum.


[270]
Il governo degli Scelluk è dispotico; ed il suo trono è insanguinato da gare di partiti o da delitti d'eredi. Quantunque noi siamo passati dinanzi alla capitale degli Scelluki, qui non vedemmo l'abitazione de' re; il quartiere reale era tre miglia distante; ed è fatto, quanto mi racconto un indigeno che sapeva arabo, in forma di labirinto: la vita del re non è sicura dalla sera alla mattina; ei vive invisibile, non dormendo mai due notti nella medesima stanza.


[271]
Tutti i villaggi di questa vasta tribù sono tenuti ad un annuo tributo di molte vacche, secondo la ricchezza, o il numero degli abitanti. Inoltre il re ha diritto alla terza parte di tutte le ruberie che i suoi sudditi commettono fuori della tribù, e punisce colla perdita di tutto o quasi tutto, quelli che rubassero, e non gli portassero la sua tangente. Praticano, come tutte le tribù dell'Africa, la poligamia; e ponno lasciare o tenere quante donne vogliono; e abbandonarle quando lor piaccia. Quanto alla caccia che fanno agli ippopotami, alla forma dei loro casolari etc. siccome sono comuni alle altre tribù dell'Africa da noi percorse, ve ne terrò parola quando vi parlerò delle medesime.


[272]
Noi avemmo più occasioni di conoscere ed osservare questa gente. Essi sono alti e nerboruti della persona; e molti vidi io di forma gigantesca. Gli uomini, come tutti i neri dell'Africa da noi visitati, sono perfettamente nudi; così pure le donne, ad eccezione delle maritate, che si cingono al fianco destro, od al sinistro una pelle di montone, di capra. Le più ricche hanno una pelle di tigre ma poco giovano queste a coprire quel che dovrebbe esser coperto; e quasi quasi da quel che vidi, son portato a credere che ciò non facciano per sentimento di pudore, ma per ambizione. La bizzarria degli Scelluki spicca specialmente nell'adornarsi i capelli. Questi si tagliano in mille forme: si fanno delle creste di gallo, delle barbe di capre; talora se li tagliano lasciando capelli che risultino come le orecchie di montone, o di tigre. Né io saprei minutamente decifrarvi la bizzarria di questo genere d'ornamento, di cui sono ambiziosi.


[273]
Questa sarebbe una tribù adattata al nostro piano di Missione; ma per ragioni che vi dirò, noi la lasciamo, ed eccoci alla sua capitale Denab, e Kaco. Questa città è posta sul Fiume Bianco, e ha più miglia di lunghezza. Il re non dà udienza mai a nessuno se non a tre o quattro suoi confidenti e alle innumerevoli sue donne, quando di queste vuol approfittare.

Allorché questi suoi confidenti si presentano, deono strisciarsi come i serpenti, ricevere gli ordini bocconi per terra; poi tornare indietro strisciandosi; insomma, mi permetterete che usi la frase veronese, per farvi capire: quando questi al re si presentano, deono andar dentro nella sua capanna gattognao. Dinanzi alla capitale degli Scelluki, noi godiamo uno spettacolo sorprendente. Fermatasi la Stella Mattutina dinanzi ad essa, comparisce una turba di gente di svariate razze e costumi, che piantano sulla riva mercato. Eravi una razza di uomini perfettamente rossi, come il sangue fresco, dei quali ne ho veduti vicino ad Halfaya.


[274]
Eranvi dei nomadi di color rossastro; eranvi gli Abu-Gerid, popoli del colore del mattone cotto; ve n'erano di perfettamente giallastri, i quali rassomigliavano agli Hassanieh; vi erano di quelli del Kordofan, che sono nero-bruni; e poi nazionali Scelluki; i quali, come tutti i negri dell'Africa Centrale sono sempre armati di lancia, (che varia la forma secondo le tribù); di scudo di cuoio di forma oblunga, d'arco e di frecce; e quest'armi portano sempre, (ad eccezion dello scudo, che qualche volta depongono) sia che pascolino le greggi, sia che mercanteggino, sia che sieno oziosi. Tutte le tribù da noi visitate si servono della lancia per difendersi, od assaltare, per tagliare ogni cosa che serva al loro uso, per pescare, cacciare etc.


[275]
Sì gli uomini che le donne sono ornati di fila di conterìe, che si mettono al collo, o come noi la fascia si cingono ai fianchi, o sulla fronte; e quel che ha più conterie, è stimato il più bello: ho veduto il figlio di un capo che era carico di pezzi di vetro fino alla pancia, e camminava come fosse il signore del mondo.


[276]
Il re, a proposito, si crede il più gran monarca della terra, ad eccezione di quel d'Abissinia; per cui non dà udienza a nessuno, fuorché il re d'Abissinia, se venisse. A Kaco, che è una città degli Scelluki posta al 10º grado, ho tentato di confrontare la lingua del mia amico Bahhit Miniscalchi; ma la trovai differente. Sono peraltro di opinione, che per Kaco si possa penetrare con molta facilità nelle tribù di Karco e Fanda, cioè Gebel Nuba, senza passare il deserto di Baghara e Kordofan e Dongola, la qual via fu tenuta dal moro Miniscalchi. Anche quella tribù sarebbe adattata al nostro piano, ma militano in contrario le ragioni che vi dirò. Tutta la costa sinistra degli Scelluki fino al 9º e mezzo, ribocca di scilluk armati come vi dissi, camminano assai difettosamente marciando coi talloni sporgenti all'infuori.


[277]
Ma veniamo ai Dinka. Questa è la più vasta tribù dell'Africa Centrale, a quanto ci consta; ed è questa la ragione per cui da gran tempo noi abbiamo gli occhi rivolti a sceglierla come punto centrale delle nostre fatiche, e come campo ai nostri sudori. Circa allo stato di questa tribù, al governo, alla religione, etc. nulla di preciso si sa: sono ignoti i suoi confini. Prima peraltro di venire a questa scelta, vogliamo scorrere altre tribù, per fare poscia una più retta e sicura decisione. I Dinka, come tutte le tribù da noi vedute, così nudi come sono, si tingono di cenere tutto il corpo, testa ed occhi; e questo è a quanto ci fu detto, per difendersi dalle zanzare, che in numero infinito, e in ispecie diverse tormentano chi abita l'Africa Centrale.


[278]
Le sue sponde riboccano di coccodrilli, ed ippopotami; e un giorno osservando da lungi, vidi un grande e lungo scoglio, che io credeva di granito rosso; era un'isola, tutta formata di grossi ippopotami tutti ammonticchiati insieme. I Denka, come tutti i mori dell'Africa, hanno braccialetti di avorio al gomito ed ai polsi della mano. Le loro frecce sono tinte in una certa erba velenosa, e sono quindi mortali. Gli appartenenti a questa tribù, si distinguono dalle altre razze dei negri: essi hanno la fronte spaziosa e sporgente, il cranio piatto, e cascante verso le tempia, il corpo lungo e magro.


[279]
Dal vedere quegli uomini colla lancia in mano sbadatamente appoggiati colla persona sui loro scudi, par che mostrino il ritratto della vita oziosa ed inerte; e purché essi abbiano merissa da ubriacarsi, del latte onde vivere, e delle donne con cui trattare, essi nient'altro desiderano. Ma la luce del Vangelo brillerà dinanzi ai loro occhi, e penetrando le loro menti e i loro cuori, colla grazia divina muteranno pensieri, consigli, e costumi. La loro lingua è estesa ad altre tribù dell'Africa; e a quanto mi pare non è che un ammasso di monosillabi. I villaggi dei Denka sono assai meschini, e contrastano colla maestà delle città Scelluke, le quali sono più grandi spaziose e comode.

Tutte le città sono un ammasso di villaggi uniti insieme, che si distinguono per uno spazio intermedio di circa 30 passi. I villaggi sono composti di cinquanta, cento, trecento e più capanne, le quali sono formate a guisa di cono. Il recinto delle medesime è rotondo, dell'altezza di circa 7 piedi, ed è di pantano; e sopra vi cade come un coperchio di canne assai eleganti. Osservate la tavoletta Nº. 1 che presenta un'idea di Kaco. Ma basta dei Denka:(1) più tardi, se a Dio piacerà, quando riusciremo a penetrare nell'interno di questa vasta tribù, potrò darvi più ubertose notizie.


[280]
Prima peraltro di procedere innanzi, voglio accennarvi, come ci fermammo ad Hano per provvedere un toro. Qui ricevemmo nella Stella Mattutina il vecchio capo (Sceikh) di questa città, il quale colla sua bianca capigliatura, colle membra tremanti, nudo com'era, facea compassione. Lo facemmo entrare nella bella cappella, e sorpreso dalla meraviglia, scoppiò in un alto grido, e si ritrasse come uomo fuori de' sensi: avendolo condotto dinanzi a un grande specchio della stanza della barca, non è a dir gli atti strani e curiosi che vi fece. Vedendo la sua figura nello specchio, si parlava, rispondeva, gridava, prorompeva in grosse risa, e finalmente, forse mosso da qualche atto veduto nello specchio, si mise a fuggire. Noi lo rattenemmo; e ci fece tante proteste coi motti, che parea volesse darci in mano il suo potere. Finalmente se n'andò a terra sopra un battello fatto di canne di ambai composto a modo di sarmento, o fascio, con cui son soliti gli Scelluki di traversare il Nilo.


[281]
Quel villaggio, o città, era circondato da bellissime palme di Doleb, che è un albero come il dattero con questa differenza, che a mezza pianta è più grosso, che in fondo ed in cima. Oltre Hano poche miglia s'apron maestose le bocche del fiume Sobat, che menano nell'interno della tribù dei Dinka, le quali rosseggiano, per dir così, ancora del sangue di alcuni che tentarono di entrarvi: questi pagarono il fio perché si presentarono con animo ostile, minacciando gli indigeni, se non tirassero fuori i denti di elefante, che possedevano. Noi fin dall'Europa avevamo determinato di penetrare nei Dinca per le bocche del Sobat; e forse le seguiremo questo progetto. Ma ora fino d'Assuan abbiamo pensato di scorrere più luoghi per assicurarci meglio ove a Dio piaccia che cominciamo la nostra missione.


[282]
Queste bocche formano come un amenissimo lago vestito all'intorno di rigogliosa vegetazione, giunto al qual punto, il fiume volge bruscamente ad occidente perfetto, bagnando a sinistra la Tribù dei Gianghèh, a dritta la immensa palude dei Nuer, che è una vera isola, da una parte circondata dal Fiume Bianco, dall'altra dal canale dei Nuer, ed ha la circonferenza di oltre 400 miglia. Nulla vi dico della tribù piccola dei Gianghèh, se non che è piena di piante di papiro, di cui servivansi gli antichi per iscrivere, invece della carta e di cui abbondava una volta l'Egitto: questa benefica pianta è come quella di granoturco, fuorché le sue foglie come i capelli cascano vezzosamente a guisa di criniera.

In questa tribù salutiamo quegli indigeni, i quali rozzamente, ma cordialmente, rispondono con grida ai nostri saluti, esultanti per avere ucciso un grande ippopotamo, le cui carni a pezzi avean distese al sole per poi così crude mangiarle, come praticano i negri.


[283]
Nei Gianghèh vedemmo molti baobas di mezzana grandezza, immense torme di bufali selvatici, che sono della grossezza di un bue, aventi le corna mostruosamente attortigliate verso la fronte, e dei quali fanno caccia quelle genti. Verso le montagne di Tkem, e Tira, che sono molto addentro all'occidente, sonvi immense giraffe, che giungono col loro lungo collo fino all'altezza di 25 piedi. La sponda destra poi dei Nuer ci presenta lo spettacolo di una mandra di grossi elefanti, di cui abbonda quell'immensa palude, i quali pascolavano, e parea venissero al fiume per dissetarsi. Ivi son molti rinoceronti, uno dei quali si uccise l'altro ieri vicino alla nostra provvisoria stazione.

Fu dopo la vista di questi elefanti, che un colpo di vento impetuoso squarciò la vela maggiore della nostra barca, sicché fummo costretti a sostare in quella palude un mezzo giorno, vicino al luogo, ove poco fa un nubiano della missione di Khartum scostatosi da riva, veniva trucidato da un Nuer con un colpo di lancia.


[284]
Ivi mentre D. Beltrame dava la caccia ad un ippopotamo, io volli seguire una torma di Abusin, che sono uccelli come un capretto: ma ai colpi di D. Giovanni, che è cacciatore discreto, l'ippopotamo non si degnava nemmeno di muoversi, perché la sola sua pelle è grossa 4 dita; ed a' miei colpi, gli Abusin appena si prendevano il disturbo di volare pochi passi lontano, disprezzando i miei sforzi, come fosser nulla: di palla io non ho mai sparato. Aggiustata la vela, proseguiamo il viaggio, colla vela ravvolta (fatta su), e la barca senza vele spiegate corre rapidamente come un vapore. Due giorni dopo che ci voltammo ad occidente, giungemmo alle bocche d'un altro fiume grandissimo dell'Africa Centrale, il Bahar-el-Ghazàl, o fiume dei cervi. L'aspetto di questo lago formato dal fiume Bianco e Gazàl, è di un lago incantato, fiancheggiato all'intorno da immensi ed amenissimi giardini di mimose e ambai e baobas formati dalla natura, cui non osò toccare mai man d'uomo.


[285]
A questo punto, che è il 9º.o grado, volgiamo a perfetto mezzogiorno, sempre costeggiando la immensa tribù dei Nuer, che abita la sinistra e la destra sponda. Da questo punto fino ai Kich, il fiume effettua più di 40 svolte, volgendo ora a mezzogiorno, ora a settentrione, ora ad oriente, ora ad occidente, sicché per più giorni toccò a barcaiuoli di rimorchiare la barca (tirar l'anzana voi dite sul lago di Garda) sotto un cocentissimo sole; e siccome i Nuer poco stimano la vita di un uomo, così ogni volta che i barcaiuoli scendevano a terra, sempre dovevano armarsi. L'imbarazzo poi era in quei luoghi, ove con vento contrario non si potea scendere a terra, in causa delle boscaglie che spandeano i folti rami fino bene addentro al fiume; in allora si gettava l'ancora, e si aspettava fino a vento propizio: ma il gettar l'ancora sul Fiume Bianco, non è come sul lago, perché qui la corrente trasporta all'ingiù. In questo corso, godemmo sulla sera un sorprendente spettacolo d'ippopotami e d'ibis. Degli ippopotami ne abbiamo veduto migliaia e migliaia fin da Khartum e così pure degli ibis.

L'ippopotamo grande come quattro volte il bue ha la testa smisurata della forma di un vitello; nella sua bocca sta un uomo; il dorso è come quello del cavallo, e le gambe corte come quelle del maiale, ma in proporzione; il suo muggito ordinario è come quello del bue ma più sonoro e più basso. L'ippopotamo vive il giorno nell'acqua, e alla notte esce dal fiume, e si pasce di erba; nei luoghi ove v'è frumento e durah, come nella Nubia, devasta una campagna in una sola notte. Verso la sera suole l'ippopotamo dal fondo del fiume saltar sopra l'acqua precipitosamente sbuffando, e muggendo, e facendo dei salti come quelli del cavallo, e poi tuffarsi nel fiume sconvolgendo tutta l'acqua come quando v'è tempesta. La nostra barca camminò più volte sopra il dorso degli ippopotami; e tante volte ci toccò di sostenere degli urti tremendi, cagionati dal passaggio di un ippopotamo. Appunto nella Stella Mattutina, corre qualche anno, il cuoco che cucinava, venne spinto da un ippopotamo nell'acqua, e con un sol boccone ingoiato.


[286]
Ora quella sera noi ci trovavamo in mezzo a migliaia d'ippopotami, i quali sbuffando, muggendo, e correndo precipitosamente, parea che intorno a noi si fosse appiccata una mischia di questi terribili anfibi. Questa scena durò fino alla mattina veniente, costretta tante volte la barca a correre da una parte all'altra del fiume per evitare questi terribili animali insieme uniti, e formanti come altrettante isole. Quella sera ancora scorremmo più miglia vagheggiando alla destra sponda una distesa di altissimi alberi, per tre miglia tutti coperti d'ibis.


[287]
L'ibis è come due volte il nostro pitto [pitto = tacchino], avente il lungo collo, il becco d'anitra e bellissime piume: l'ibis era anticamente uno dei più gran dèi dell'Egitto; ed il suo nome fu anche adesso consacrato in Verona da una società di scienzati, che stampano un foglio col titolo di Ibis. Ora immaginatevi di scorrere tre miglia per una distesa di alberi tutti coperti, più che mosche di centinaia di migliaia di questi preziosi volatili, i quali senza timore stanno osservando la Stella Mattutina che passa.


[288]
Quello fu un argomento da magnificare la grandezza di Dio, che con tanta sapienza e potenza pensa anche a quegli animali. A rendere più vaga quella sera e quella notte, concorsero i fuochi innumerabili dei Nuer; i quali per aprirsi il passaggio dall'interno verso il fiume danno fuoco all'alto erbame di tutta la pianura; il che è uno spettacolo degno a vedersi. La vasta tribù dei Nuer ci presenta lo spettacolo ancora di immense truppe di antilopi, di bufali e di molti altri animali. Passata la vastissima città di Goden, con somma nostra sorpresa scorgiamo che i Neri coltivano durah. Le loro capanne rassomigliano a quelle degli Scelluki, ma poste molti passi l'una distante dall'altra; e intorno a ciascuna capanna sonvi seminati di durah, che servono per quella famiglia.

La tribù dei Nuer è la più industriosa di quante noi abbiamo vedute, e quindi a mio credere, la più ricca. Ebbi a conoscere qualche cosa di questo popolo, per esserci fermati a Fandah-el-Eliab, che è come capitale, ed il primo mercato delle tribù.


[289]
Qui voglio farvi una digressione brevissima. Fin dall'Europa, dai libri, etc. e specialmente dietro i tragici racconti che sentimmo a Khartum, ci siamo dei Nuer formata un'idea spaventevole; che ammazzino, che massacrino, che mangino gente etc. etc. su ciò ci confermammo specialmente a Khartum, ove fummo consigliati ad armarci di molti fucili per resistere agli assalti dei Negri. Fin dalla tribù degli Hassanieh vedemmo sempre i Neri a fuggire dinanzi a noi. I Baghara, gli Scelluki, i Denka, i Nuer etc., o rispondevano ai nostri saluti, o fuggivano: insomma a dirvela in una parola, benché noi ci troviamo, e ci trovammo sempre in mezzo a tanta gente armata di lancia, scudo, frecce avvelenate, e grossi bastoni, devo conchiudere che essi temono ed hanno più paura di noi, che noi di essi; per cui quando ci presentiamo ai neri, marciamo intrepidi e senza mostrar verun timore, sicché essi veggendoci così risoluti fuggono se non li invitiamo a rimanere con noi.


[290]
E ciò io misi in pratica quando giunto a Fandah, scesi in mezzo alle lance di un grande mercato di Nuer, che al nostro passaggio, ci aprivano la via come quando da noi passa un imperatore. In quella circostanza ebbi a vagheggiare la bizzarria degli uomini e delle donne dei Nuer. Molti aveano i capelli impiastricciati di fango, di cenere, o durah, e cascanti a forma di codini; altri colla parrucca tutta vestita di perline e conterie a guisa di elmo militare; altri coi capelli rizzati bruscamente al cielo, come quei diavoli che da noi si dipingono; altri con piastre di ottone o di rame sulla fronte; altri coi capelli ridotti alla forma di un piatto; altri con strisce di pelle di tigre al collo; tutti con due tre ed anche cinque braccialetti di avorio ai gomiti; i quali posti in corpo a quelle figure nude impiastricciate di cenere, vi dico la verità che pareano tanti diavoli.

Maggiore poi era la bizzarria delle donne, le quali aveano alle orecchie, due, tre, dieci, ad anche quindici anelli di rame; altre aventi le orecchie tutte vestite di conterie e vetri, altre collo stomaco tutto adorno di fila di anelli, conterie, etc., molte con una filza di conterie, vetri, o rame piantati nel labbro superiore e sorgenti verso il cielo.


[291]
Insomma era uno spettacolo a vederli in mezzo alle lance, agli scudi, alle frecce. Il viso delle donne è mostruoso, colla lunga e bianca dentatura, colla pelle raggrinzata dalla cenere, e col corpo mostruosamente impantanato, dico la verità, che fanno quasi vomitare. Questa vasta tribù dei Nuer, sarebbe un bellissimo campo alle nostre fatiche; ma il suo terreno paludoso è mortale all'Europeo; e quel che è più milita la ragione che vi dirò più sotto. A Fandah ricevemmo in barca il capo di questa tribù, il quale fece le medesime maraviglie di quello di Hauo: questi era però più fiero e risoluto.


[292]
Vicino a Meha veggiamo nel fiume il cadavere di una donna; e ci accorgiamo che siamo nella tribù dei Kich, ove è il mal vezzo di gettare i morti nel fiume. Ivi un circasso Kosciut con tre altri ci viene a trovare nella Stella Mattutina, e ci racconta molte cose della tribù degli Angai, che è molto all'interno, il capo della quale poco fa comprò un bel giovane per 17 buoi, e poi lo uccise. Veggiamo il capo della tribù lurido come un maiale, il quale era arrabbiato perché erano appena venuti i Nuer nella sua tribù, e gli aveano rubate tutte le sue mandre. Veggiamo i miseri casolari dei Kich, che abbastanza ci annunziano in quali miserie si trovino quei poveri africani. Passando dinanzi ad un villaggio, ove era uno dei capi, venne dietro alla nostra barca dicendo "il nostro signore è venuto" grida ciam-ciam che significa ho fame; e noi datogli un po' di biscotto, volle seguirci armato dalla riva, quasi per assicurare i nostri passi dai ladroni, che sono in gran numero; anzi si può dire che i Kich sieno tutti ladri; benché poco avveduti e timidi.


[293]
Lasciata la grossa borgata di Abu-Kuka, aiutati dai negri, che rimorchiavano la barca, finalmente il giorno 14 febbraio giungiamo alla Stazione di S. Croce ov'ora ci troviamo, che è nel paese di Pà-Nòm, 25 giorni dopo la nostra partenza da Khartum, poco più di 1000 miglia distante da questa città a calcoli precisi e ristretti. Pà-Nòm è posta al settimo grado di Lat. N., ed è un magnifico punto centrale, e più sicuro degli altri, per intraprendere esplorazioni.

Quivi perciò ci fermiamo; e se altro non succede in contrario, siamo risoluti di ordinare il piano del nostro Superiore, ed eseguire i suoi ordini, di trovare una tribù adattata ai suoi disegni; ed ecco che cosa intendiamo di fare. Da tutte le esplorazioni ed informazioni che abbiam preso, abbiamo potuto ricavare con certezza, che la lingua dei Dinka è la più estesa di tutta l'Africa bagnata dal Bahar-el-Abiad; ed è parlata ed intesa non solamente dalla tribù dei Dinka, ma ancora dai Nuer, dai Gianghèh, dai Kich, dai Tuit, dagli Scelluki che abitano la riva sinistra dirimpetto ai Dinka.


[294]
Ora noi ci fermiamo qui ai Kich per apprendere la lingua dei Dinka, e praticare contemporaneamente delle esplorazioni per meglio chiarirci su quello che Dio vuole che noi facciamo. Appresa la lingua, abbiamo subito molte tribù da scegliere, ove si parla il Dinka: in tal guisa abbiamo maggior tempo da consultare la volontà del Signore.


[295]
La nostra stazione attuale provvisoria è posta poco distante del fiume, al principio di una selva inesplorata, piena di elefanti, di tigri, di leoni, di iene, di bufali, rinoceronti ed altre fiere e bestie feroci. Ogni notte elefanti, e leoni ed altre fiere passano per la nostra stazione e vanno al fiume ad abbeverarsi. Tre giorni dopo il nostro arrivo ai Kich un leone trasse un asino fuor del tugurio, e gli rovinò la schiena; due giorni dopo si videro più di 200 elefanti passar vicino a noi (chiusi nelle nostre capanne) e abbeverarsi nel fiume. Domenica passata D. Angelo ed io, addentratici nella selva per un'ora e mezza affine di vedere se sonvi alberi piccoli per fare una capanna, vedemmo alberi atterrati in gran numero da elefanti, e le orme di bufali e leoni, ma non vedemmo bestie feroci, perché queste viaggiano di notte, e perché Dio ci proteggeva.

Vi promisi di sopra di farvi sapere qualche cosa della caccia degli elefanti ed ippopotami, ma non ho tempo. Bastivi sapere che l'elefante è l'animale terrestre il più grande che si conosca, che colla sua proboscide (naso) atterra alberi grossissimi, che i due suoi denti davanti pesano tre, quattro, ed anche cinque pesi l'uno; e che al Cairo il dente di elefante si paga cento talleri per ogni cantaro (4 pesi dei nostri).


[296]
Carissimi genitori; veggo che sono in mondo affatto diverso da quello dell'Europa. [......] Mi pare peraltro che le relazioni dei viaggiatori sull'Africa, sieno esagerate. E' vero che questi uomini* , i quali massacrano, uccidono, sono crudeli contro i bianchi: ma solo quando sono provocati.


[297]
Noi venimmo qua col bacio della pace, allo scopo di portar loro il più gran bene che vi sia, la Religione. Essi non ci hanno mai dato occasione di disgusto: ci portano legna, paglia, e tutto ciò che vi è; e noi li ricambiamo con durah, o conterie, ed essi sen vanno contenti. Non temete, o carissimi; col crocifisso al petto, o colla parola di pace si ammansano le bestie più feroci; egli è vero che ci vuole la grazia di Dio, ma questa non manca mai. Dovremo affaticare, sudare, morire; ma il pensiero che si suda, e si muore per amore di Gesù Cristo, e per la salute delle anime le più abbandonate del mondo, è troppo dolce per isgomentarci alla grande impresa.


[298]
La prima fatica, che Dio vuole che facciamo, è l'apprendere la lingua dei Dinka. Finché si ha delle grammatiche, dei caleppini, e dei bravi maestri, egli non è tanto difficile l'impossessarsi di una lingua straniera. Ma il nostro caso è ben differente. La lingua dei Dinka non fu mai conosciuta; quindi non esistono né grammatiche, né dizionari, né maestri. La grammatica e il dizionario della lingua dei Dinka, li faremo noi; e si tratta che tutte le parole dobbiamo cavarle dal labbro di questi indigeni, i quali non conoscono la nostra lingua né l'arabo; e perciò bisogna servirsi di motti: vedete quante difficoltà!


[299]
Avuto poi che si abbia un discreto deposito di parole, bisogna a forza di raziocini e di deduzioni cavarne le regole grammaticali, la formazione dei tempi, il modo di fraseggiare, e simili. Sì, tutto questo dovremo far noi. Peraltro per predicare non aspettiamo ad imparare perfettamente la lingua. Appena sappiamo balbettare quattro piccoli periodi voi ci vedrete in mezzo ad una turba di uomini* armati, a manifestar loro un'idea di Dio, di Gesù Cristo e della religione. Già cominciammo qui ai Kich a radunarsi. Dio muova i loro cuori.


[300]
Quello che ancora ci dà pena è il vedere questa gente* deplorabilmente oziosa. Sonvi pianure di centinaia di miglia, aventi un terreno, che in Europa farebbe miracoli; ed essi lo lasciano incolto. Patiscono la fame, e non pensano a seminare. Mancano, è vero, d'istrumenti, e di tutto; ma quell'industria che ha loro insegnato di lavorare la lancia e le frecce, dovrebbe avere insegnato loro a farsi anche delle buone zappe, badili, picconi, e taglienti. Ma su di ciò nulla vi voglio dire, riserbandomi a conoscerli meglio per descriverveli. Finora non vi parlai di Religione, e di idee, che costoro* hanno di Dio. Noi per scegliere rettamente un luogo di Missione, dobbiamo informarci di tutto, anche di quelle cose, che sembra non abbiano la minima relazione colla Religione. Ma verrà il tempo che vi scriverò anche di questa. Coloro* che abitano le sponde del fiume si danno alla pesca.


[301]
Il Nilo è pieno di grandi pesci; non si dee confrontare l'abbondanza del pesce che si trova nel nostro Lago con quella del Nilo, e specialmente qui fra queste tribù*; e questo lo deduco dal modo con cui questi indigeni fanno la pesca. Essi non hanno né ami, né reti; hanno una lunga canna, in fondo alla quale v'è una freccia; poi montano sulle loro piroghe, e fanno per esempio un tratto di cento passi, seguitando a vibrare la canna alla ventura, senza prima aver preso di mira il pesce; e non è a dire quanto pesce riescano a prendere in poco tempo. Le loro piroghe sono della lunghezza dei nostri battelli, ma strette oltremodo, non oltrepassando tre spanne ed appena vi può stare una persona. Queste piroghe i Scelluki compongono ed uniscono insieme con corde di scorza di alberi; e qui presso i Kich sono di un solo pezzo, con un concavo formato a forza di colpi di arponi.


[302]
Ma basta, o cari genitori; io avrei altre cose da dirvi, vorrei trattenermi sempre con voi per consolarvi, per ripetervi che stiate allegri e tranquilli. Non vi querelate della lontananza e dell'abbandono: lasciate che piangano la lontananza quelli che non han religione. Supposto anche che non ci avessimo più a vedere su questa terra, non è forse una fortuna l'abbandonarci in terra per trovarci beati in cielo, e per sempre?


[303]
L'addio, la lontananza, l'abbandono possono piangerlo quei meschinelli e poveretti, che non conoscono altro mondo che questo, altra unione, che la materiale della persona, ma noi sappiamo per fede che v'è un Paradiso; e là si riuniscono tutti i veri figliuoli di Dio; là s'incontrano le preghiere degli uomini, che s'innalzano da tutti gli angoli della terra; per cui quantunque voi siate in una parte del mondo, ed io in un'altra, siamo e sarem sempre uniti, perché congiunti ad un solo punto, Dio; che è centro di comunicazione fra me e voi.


[304]
Ma sapete voi quello che la Provvidenza ha stabilito?.. Forse ci rivedremo ancora. Il clima dell'Africa è terribile; ma non tanto come si crede. Non vi pare una meraviglia, che in sei che siamo, nessuno morì nel viaggio? A vostra consolazione devo ancora dirvi, che la posizione in cui siamo, è molto migliore di quella di Khartum; ed è sana. Al caldo siamo già avvezzi: le febbri vanno e vengono, ma finalmente vanno. Morirò; Dio lo sa: ma finora sono sano; e tutti cinque godiamo d'una meravigliosa sanità. Ringraziamo il Signore, ma col patto che ci mandi delle altre tribolazioni, se non ci vuol mandar malattie, e morti.


[305]
Ma basta, o dilettiss.mi Genitori; il Signore vi benedica prima nell'anima, e poi nel corpo. Ricordatevi che vi ho sempre nel cuore. I miei compagni vi salutano di cuore, vi mandano la lor santa benedizione, e desiderano di essere nella vostra memoria! Pregate per essi e per la Missione. Quando meno ve l'aspettate, Dio vi consolerà. E poi, non potrò io consolarvi con le mie lettere? Sì che sono meschine e magre di sostanza, ma pensate che sono scritte, barbaramente sì, ma da vostro figlio che vi ama.


[306]
Io serbo le vostre lettere come una reliquia; le protocollo appena ricevute; e quando un naturale sentimento di dolore per voi mi opprime, le leggo, e mi consolo, perché so di vivere nella vostra memoria. Fate lo stesso anche voi: quando le cose vanno a rovescio (che allora è segno che siamo in questo mondo) leggete qualche pagina di questi rozzi scarabocchiamenti di lettere, che di quando in quando vi mando, e vedrete che vi consolerete. Oh chi sa qual consolazione Dio v'ha apparecchiato in terra! Voi però mirate sempre a quelle del cielo, disprezzando le temporali. Dio vede tutto! Dio può tutto! Dio ci ama! pregate per la conversione dell'Africa.


[307]
Frattanto io vi saluto tutti e due. Salutate caramente Eustachio, Erminia, zio Giuseppe, Cesare, Pietro, Vienna e tutti i parenti, non dimenticandovi di dare un bacio per me ad Eugenio quando sarà reduce gloriosamente da Innsbruk. Riveritemi tanto il Sig.r Consigliere, Padrone, la signora Livia per mezzo di loro, Adolfo, ed i Sig.ri Giacomo e Teresa Ferrari di Riva. Riveritemi il novello Economo Spirituale, dicendogli che come suo parrocchiano ho diritto anch'io alla sua pastorale sollecitudine; ma siccome egli è in un emisfero, ed io sono in un altro, e essendo io parecchie migliaia di miglia lontano dai suoi occhi, per cui non può esercitare la sua paterna cura, ho almeno diritto di partecipare di questa pastoral sollecitudine colle preghiere; quindi siccome il suo ufficio porta di pregare il Signore pel suo popolo, e alla festa di dire messa pro populo, così io intendo di partecipare delle sue pastorali cure, partecipando delle sue preghiere: in una parola ditegli che preghi il Signore per me che son sua pecorella, quantunque smarrita.


[308]
Salutatemi il Sig.r Giuseppe e Giulia Carettoni, il Sig.r Pietro Ragusini, e Bortolo Carboni, la famiglia Patuzzi vecchi e giovani, D. Bem, le tre Sig.re Parolari-Patuzzi, i Sig.ri Girardi, cioè la Sig.ra Nina e Titta, il Sig.r Giovanni, Ventura, etc., il Medico, tutti i Lucchini, l'amico Ant.o Risatti, il Caporale a nome anche di D. Angelo, il Pittore, i giardinieri di Supino e Tesolo, Rambottini e Barbera, il buon Pietro Roensa colla sua famiglia e figlia serva dei nostri. Siamo intesi della nostra domestica. Salutatemi la Sig.ra Cattina Lucchini, il Sassani etc. etc. Mandate i miei cordiali saluti all'Arciprete della Pieve, a D. Luigi, D. Pietro, al Parroco di Voltino, al D.r David, ed alla bell'anima della vecchia Marianna Perini.


[309]
Insomma salutatemi tutti che frequentano la nostra casa, il Minico in Riva, i nostri parenti di Bogliaco e Maderno, e tutti i patrioti limonesi: dite a' Limonesi che li ho abbandonati colla persona, ma giammai collo spirito. Non si può sentir tanto la dolcezza della memoria della patria, se non da chi è lontano. Dite che preghino il Sig.re per un lor compatriota, che sente anche da lontano affetto per loro. Ricordatemi all'invulnerabile Pirele, a sua moglie la pudibonda Maria. Insomma addio, miei cari genitori; godo di ripetervi che sono della più prospera salute; lo spero anche di voi. Spero che ricevuta questa lettera, avrete già ricevuto il plico da Gerusalemme. Dite a quelli, a cui mando ricordi, che si ricordino di me, ma presso Dio.

Ricevete il più cordiale abbraccio, ed insieme la santa benedizione del



Vostro affez.mo figlio

D. Daniele Comboni

Mission.o Ap.lico nell'Africa Centrale



(1) Denka si tagliano i due denti incisivi all'età di 7 anni.






33
Eustachio Comboni
0
dai Kich
5. 3.1858
A EUSTACHIO COMBONI

AFC



Mio cariss.mo cugino!

Dalla tribù dei Kich al 7º. gr. L. N.

5 marzo 1858

[310]
Non mi ricordo se nell'ultima mia scrittavi da Khartum, io abbia fatto con voi un giusto lamento: se ciò anche fosse, questa volta io voglio ripetervelo. Aprendo ora la cara vostra lettera, non trovo notizie del piccolo Erminio.... basta... m'intendete... desidero d'essere da voi informato non solo del carissimo Eugenio, ma anche degli altri. Spero che voi starete tutti bene, ed anche lo zio.


[311]
Ho inteso che lo zio vagheggia il viaggio di Gerusalemme: sarebbe una bella cosa, poiché son certo che dopo morrebbe volentieri. Io peraltro, a dirvi il vero non lo consiglierei a venire a questo passo, non già per le 2000 miglia di mare che vi sono; ma pel passaggio delle montagne della Giudea, le quali non sono sempre sicure, e poi vi vuole una forza giovanile, dovendo soffrire disagi ed altri incomodi, incompatibili con 6O anni sulla groppa; molto meno poi lo consiglierei a mettersi in viaggio con frati, i quali, per essere avvezzi a patire, non durano fatica a star per un mese in un lurido e puzzolente bastimento.

Se però lo zio si risolvesse la Pasqua ventura a fare questo viaggio, meglio è che vada col Lloyd Austriaco; e che voi subito m'abbiate a scrivere perché io possa raccomandarlo in Alessandria, in Jaffa, al Console Francese in Gerusalemme, e in tutte le città della Palestina, ove tengo dei corrispondenti galantuomini. L'avverto ancora che non tutti i frati sono opportuni; l'esperienza me l'ha insegnato. Per la lingua, a chi non ha relazioni, ce ne va fuori coll'italiano, perché in Palestina sonvi più di 100 Missionari italiani. Basta.


[312]
La mia attual posizione, le mie occupazioni m'impediscono di darvi una breve relazione del mio viaggio nel Centro dell'Africa: potrete leggere quel confuso affastellamento di scarabocchi e d'idee, che scrissi a mio Padre. Che mutazione successe nella vita! Sei mesi fa, mi trovava fra gente colta, incivilita, fra cristiani; ora non posso voltarmi senza che bussi dentro in una ciurmaglia di poveri individui*, che colla espressione in loro lingua: ciam ciam (ho fame) ci domandano il baksis: in Europa si abitava in case fatte a muraglia, si mangiava sopra tavole, si dormiva sul letto; qui una rozza capanna di canne e di giunchi ci accoglie, si mangia saporitamente sopra una delle nostre casse di viaggio, e si dorme sopra un asse, o sopra un rozzo angharèb fatto di corda di dattero.


[313]
In Europa non si vedeano che cani, capre, buoi, asinelli; qui siamo quasi familiarizzati cogli elefanti dalla lunga proboscide, coi bufali dalle biforcute corna, cogli ippopotami dalla larga bocca, coi coccodrilli, colle iene, coi leoni, e con altri feroci animali, che di notte vengono intorno alle nostre capanne. Tuttavia mi trovo molto contento, perché quantunque ancora non vegga in qual modo queste persone* abbiano a convertirsi, tuttavia diffidando affatto dei mezzi umani, ho fiducia in un colpo prodigioso della grazia di Dio.


[314]
La nostra vita, la vita del Missionario è un misto di dolore e godimenti, di affanni e speranze, di patimenti e conforti: si lavora colle mani, e colla testa, si viaggia coi piedi e colle piroghe; si studia, si suda, si soffre, si gode; ecco quanto che da noi vuole la Provvidenza.


[315]
Jeri, avendo avuto una visita del capo di Abukuk, dal quale dobbiamo comperare una barca, avendogli parlato di Dio, e del cielo; domandò se in questo paradiso vi sono vacche, ed orecchini di rame: egli ha 10 mogli, circa 1000 vacche, tre coffe di conterie, e ci domandò da mangiare perché era affamato; anzi venne più volte da noi a domandarci l'elemosina. Qui v'è una sola stagione: il tempo più caldo è dal novembre all'aprile, in cui abbiamo il sole sulla testa in linea retta; e dall'aprile al novembre è men caldo, perché sonvi le piogge. Ma basta; leggerete con comodo quel magro racconto del viaggio diretto a mio Padre.


[316]
Spero che voi godrete ottima salute, e che la buona mia cugina Erminia sarà poco visitata dalle convulsioni. Salutatemela tanto. Vi raccomando di tutto cuore il mio caro Eugenio. Nel dirigerlo, nel consigliarlo, nel vegliare intorno a lui, (nella qual cosa so con mio sommo piacere quanto siete sollecito) consultate più la religione che l'interesse, e le vane idee di grandeggiare nel mondo. Se giungerà a passarla bene ad Innsbruk, cioè, che non si contamini col familiarizzarsi coi compagni cattivi (cosa che mi fa molto temere per causa della perversità della moderna gioventù) vedrete delle belle cose nel bravo Eugenio.


[317]
Vi raccomando anche l'Erminio, procurando che stia lontano da certe villane e rozze compagnie: siccome per indole è un po' orgogliosetto, gioverà molto tenerlo basso, e vegliare sopra di lui, procurando però di fargli sempre trapelare, che avete speranza che si emendi; altrimenti si darà ad una certa disperazione, e si lascerà trasportare in balia del suo cattivo temperamento.


[318]
Vi raccomando ancora il piccolo Enrico: quantunque meno furbo, ed acuto, egli seguirà le pedate di Eugenio: coltivategli l'idea di religione. Così pure i figli del Cesare procurate che sieno educati. Dio vi ha messo in grado; approfittate: certe gregge idee acquistate dal continuo contatto di cataplasmi cronici, non mi piacciono; m'intendete... L'educazione è il più prezioso patrimonio dell'uomo e della donna; e questa è più stimabile presso Dio e presso gli uomini, che le migliaia di fiorini di patrimonio. Ora si spende, ma già dopo in fine dei conti si guadagna anche nella borsa.


[319]
Frattanto io vi saluto, scrivetemi, caro mio Eustachio: le vostre lettere mi consolano molto, e mi son graditissime. O quanto son cari gli accenti delle persone amate lontane! Mi scrivano anche i vostri figli: datemi relazione di essi, de' miei genitori, dell'[......] del Pietro, del Cesare, di tutti. Riveritemi il Patriarca Beppo, colla garruletta sua moglie la Sig.ra Giulia.


[320]
Io vorrei, ditele, saper fare il pane come ella sa farlo, perché non mi toccherebbe a mangiar tanto durah, che è come il così detto pastello. Ma Dio sia benedetto! Riveritemi il Sig.r Giacomo e Teresa Ferrari; siamo intesi tutti i nostri di Riva, colla rispettiva servitù, mentre con tutto il cuore dandovi un affettuoso abbraccio, mi dichiaro



Vostro affez.mo cugino

D. Daniele Comboni.


[321]
Ricordatemi allo zio, dicendogli che i nostri patti sieno infrangibili. Così pure spedite i miei speciali saluti a D. Giordani, e D. Giovanni Bertanza.






34
Don Pietro Grana
0
dai Kich
9. 3.1858
A DON PIETRO GRANA

ACR, A, c.15/39



Amat.mo mio D. Pietro!

Dalla Tribù dei Kich al 7º. gr. L. N. 9/3 = 58
[322]
Un dovere ed un piacere m'apportò la cariss.ma sua 21/11 = 57, che mi giunse pochi giorni fa da Khartum: un dolore fu il pensare che la mia povera patria per la sua partenza rimase vedovata del più saggio de' suoi pastori; il che è gran male, ed è foriero di chi sa quante disavventure! Un piacer poi io provai, e grande, nel sentire che venne finalmente eletto al grande ufficio di Arciprete di Toscolano; e su questo riguardo, non so se abbia esultato più il suo cuore, o i fortunati Toscolanesi, oppure il cuore del suo amico lontano al momento che un giallàba nubiano gliene recava la lettera, che racchiudeva sì bella notizia.


[323]
No, no, mio D. Pietro; non è perché era Parroco di Limone, o il conforto de' miei genitori isolati, od altra secondaria cagione che io stabiliva con Lei unanimamente di tenere stretta relazione, benché per sì smisurata distanza divisò.


[324]
Era l'affetto; erano due cuori che felicemente s'accoppiavano in uno: era la più stretta e sincera amistà che ambedue ci muoveva a stringerci anche da lontano in leale e reciproca corrispondenza. Benché dunque lontano da Limone, benché Arciprete di Toscolano, non s'intende che sia rotta la nostra epistolar relazione; io continuerò senza interruzione a metterla a parte degli esiti della nostra grande Missione; D. Pietro poi continui a consolare la mia solitudine con lunghe lettere che mi informino di lei, di quel che ha relazione a lei, della sua famiglia, di Toscolano etc. etc. perché saranno per me notizie gratissime.


[325]
Saprà, come le scrissi da Khartum, che D. Giovanni, D. Francesco, D. Angelo ed io partimmo da questa città ai 21 gennaio, dopo gli scambievoli abbracciamenti del nostro confratello D. Dalbosco, che lasciammo in Khartum in qualità di nostro Procuratore, e come centro di comunicazione fra noi e l'Europa; quantunque anche in Alessandria d'Egitto avessimo stabilito un altro Procuratore secolare nella persona del Conte Frisch di Vienna, ottimo italiano. Girata l'estrema punta di Ondurman al 16º. g.r L. N., nel qual punto si uniscono i due gran Fiumi Bahar-el Azrek, e Bahar-el-Abiad e formano il Nilo, ecco che la nostra barca entra maestosa nel Bahar-el-Abiad, che s'apre dinanzi a noi in tutta la sua maestà e bellezza.


[326]
Questo gran fiume, benché più basso, è molto più largo del Nilo; e quantunque noi moviamo contro la sua corrente, pure favoreggiata da vento gagliardo la nostra barca corre per quell'onde agitate colla celerità dei nostri benacensi piroscafi. Le tribù che s'incontrano oltre Khartum, la quale è posta sul limitare dei paesi, sono gli Hassanièh, i Lawin, ed i Baghàrah, le quali sono nomadi a causa del più rilevante loro esercizio, che è quello della pastorizia, dovendo girare qua e là secondo che trovano più pingui i loro pascoli. Oltre queste tribù sonvi quelle dei Dinka alla destra, e dei Scelluk alla sinistra sponda del fiume; ed è prima di giungere a queste che noi godiamo lo spettacolo di una natura abbandonata a se stessa, e non mai frenata né imbastardita dalla mano dell'uomo.


[327]
Le sponde del fiume sono coperte d'una potente e rigogliosa vegetazione che per lungo tratto sembra un Eden incantato: gruppi di centinaia d'isolette sparse per circa 200 miglia lungo il fiume tutte vestite di verde smalto, offrono l'aspetto di amenissimi giardini. Boscaglie vergini e selve impenetrabili di gigantesche mimose di verdi nàbac, di spinose acacie, di papiri, tamarindi ed altri alberi foltissimi d'ogni grandezza, stendonsi per ragguardevole distanza entro terra ad occidente ed oriente, ed offrono il più sicuro ricovero a migliaia d'antilopi, di gazzelle, di giraffe, leoni, ed altre fiere silvestri, che passeggiano e vagano senza timore quei recessi inviolati non mai segnati da umana orma

Immense torme di volatili d'ogni specie, grandezza, e colore, svolazzano liberamente per quelle frondi, empiendo l'aria di sguaiati, e tuttavia piacevoli canti: gl'ibis, l'aquile reali, l'anitre selvatiche, gli aghiron, gli abusin, gli abumarkub, i pappagalli dalle piume d'oro, pellicani, abumie etc. etc. camminano e volano lungo le sponde a torme di migliaia, e facilmente da lungi si confondono colle scimmie che van su e giù pegli alberi, vengono ad abbeverarsi nel fiume; e fanno smorfie al nostro passaggio; insomma par di vedere una foresta ambulante.


[328]
A questo spettacolo poi s'aggiunge il fragoroso muggir di centinaia di migliaia d'ippopotami che alzano dall'acqua la testa mostruosa sbuffando, e spesse volte col loro dorso sconquassano la barca, mentre nell'isole si veggono a torme sdraiati i coccodrilli, che al nostro passaggio l'un dopo l'altro strisciando, si rifuggon nell'acqua. L'ippopotamo è circa 4 volte maggiore del bue; e la sua bocca racchiude un uomo intero, come ci fu detto che successe più volte; noi lo vedemmo spesso colla immane bocca aperta; è uno spettacolo. Il maggior coccodrillo che noi vedemmo venne da noi calcolato 20 piedi: ve ne sono peraltro anche di trenta piedi. Gli ippopotami nuotano attruppati a centinaia, a migliaia, ed al passaggio nostro si tuffan nell'onde.


[329]
Nella tribù dei Nuer la nostra barca andò per quattro miglia sempre camminando a gonfie vele sopra i dorsi degli ippopotami. Le prime volte fa paura: ma poi ci si avvezza, quantunque il cuoco della nostra barca venne dall'ippopotamo balzato nel fiume, e divorato. Dopo il 10º. g.r di latitudine la natura comparisce più pallida, si diminuisce la vegetazione, le sponde sono coperte di giunchi, e così continua fino al 7º. grado. Io taccio le molte vicende di questo viaggio, le truppe di elefanti, di bufali selvatici, di antilopi etc. che dalla barca veggiamo. Ometto di parlarle della tribù dei Dinka dei Nuer, dei Gianghèh etc. che abbiamo percorso, e delle molte impressioni che ci destarono queste immense regioni, perché troppo lungo sarei, come lo fui in un letterone che su questo viaggio scrissi a mio padre; e così di passaggio le cito un evento che ci toccò nella tribù degli Scelluk.


[330]
Il giorno 30 gennaio la nostra barca si arena a Mocàda el-Kelb in questa Tribù. Nel Nilo e nel Fiume Bianco ci siamo arenati più di mille volte, in causa che il fiume in molti luoghi è basso; ma qui il vento ci spinse così profondamente, che non valse la forza di 15 nostri barcaiuoli ad estrarla. Quando la barca si arena, i barcaiuoli scendono nell'acqua, ed a forza di urtar colle spalle, favoriscono l'impeto del vento, e la barca si estrae: la sera del 29, dopo replicati sforzi il nostro capitano ci dice che non sa come fare ad estrarla. Si tratta che siamo in paese fra i Denka a destra e i Scelluk a sinistra, i quali vivono di rapine, la terza parte delle quali devono dare al re. Sulla spiaggia veggiamo schierate 10 barche di Scelluki armati tutti di lancia, arco, frecce, bastoni e scudo.


[331]
In Khartum ci aveano fatte orribili descrizioni degli Scelluki, ed il capitano tutto confermava. Alla sera fra noi si consulta sul modo di sbarazzarci da quel pantano; ma nulla si produce che aggradì: finalmente si decide di chiamare i Scelluki ad aiutare quei barcaiuoli, promettendo loro conterie, perline e regali. Noi frattanto trovammo gran difficoltà ad impedire ai marinai, che si mettessero in armi.


[332]
Il Missionario deve morire piuttosto che iniziare la predicazione del Vangelo col difendersi uccidendo il nemico: d'altra parte che cosa poteano fare 11 fucili, che noi prendemmo per difenderci dalle fiere? Alla notte abbiam deciso di chiamare in soccorso gli Scelluki; e se quelli comparissero con animo ostile, di cedere la barca nostra con tutto quel che contiene, e se non fossimo rimasti uccisi, di tentare di piantare la Croce fra quella tribù, ove mai rifulse la luce evangelica.


[333]
Alla mattina a forza di grida, d'alzare la bandiera della nostra Missione, etc. facciamo intendere a quegli uomini* che stavano sulla riva, di venire a noi; ed ecco distaccarsi una feluca con 12 indigeni armati come sopra, e di gigantesca statura. Fatto loro intendere come vogliamo che aiutino i barcaiuoli ad estrarre la barca, rispondono che prima due di noi montassero la loro piroga come ostaggi, che essi li avrebber condotti alla riva, ove avrebbero trattato col loro capo sul prezzo di conterie da darsi a loro per prestare essi il loro ufficio; mentre il capitano risponde di no, noi quattro ci disponiamo ad andare ostaggi; e vi vuol molto a persuadere ciascuno gli altri, perché ciascuno voleva essere l'eletto ad ostaggio.


[334]
Mentre così noi parliamo, quegli uomini* si danno ad aiutare i barcaiuoli; ma dopo molti sforzi veggendo che la barca punto non si muove, cerchiamo di far loro intendere che chiamino altri loro fratelli che vengano in nostro soccorso. (Gli Scelluki forse credeano che la nostra barca, dopo rimossa dall'arenamento venisse condotta da loro). In meno di mezz'ora ecco comparire altre tre barche armate; e tutti in numero di 50 si danno a smuovere la barca. Appena che questa cominciò a smuoversi, ecco che tutti s'arrestano, e vogliono conterie: noi gliele mostriamo; ma essi diffidando di noi le vollero subito e noi avendole loro date, essi in un baleno s'allontanarono dalla nostra barca, e fuggirono.

Questo fu lavoro del giorno 30. Alla sera chiamiamo e richiamiamo soccorso, ma nessuno viene alla nostra volta. Che fare in mezzo al fiume fra due potenti tribù? L'affare nostro era serio. Ma nella nostra barca (che è di proprietà della Missione di Khartum) v'è una bellissima cappella adorna di una immagine di Maria. Poteva forse questa nostra buona Madre lasciare abbandonati quattro suoi figli, che cercano di farla conoscere in un col suo Figlio anche a quei miseri popoli? No, la buona Madre veniva in nostro soccorso, col suggerirci un mezzo per trarci da quell'imbarazzo.


[335]
Alla mattina del 31 coi 15 remi della barca si improvvisò una zattera, e sopra vi collocammo più di 30 casse, al fine di alleggerire la barca: poi a forza di spinte date da quegli instancabili nubiani marinai, venne la barca sospinta in luogo ove l'acqua era profonda; poi ricaricata di nuovo con indicibile fatica, mediante il lavoro di 10 ore, partimmo ringraziando il Signore e Maria, e lasciando delusi quei Scelluki fra i quali noi scorgevamo un andare e un venire che ci garbava poco. Sia benedetto il Signore, di cui abbiamo esperimentato una meravigliosa assistenza in tutti i nostri viaggi.


[336]
Da Khartum fino ai Kich tutti gli uomini e donne vanno perfettamente nudi, ad eccezione delle maritate, o meglio figlianti che si cingono i lombi d'una pelle di capra o di tigre; dormono ravvolti nella cenere, si tingono di cenere tutto il corpo, e vanno armati sempre di lancia, arco, frecce, scudo etc. etc. Noi abbiamo rilevato dalle nostre esplorazioni che la lingua più estesa delle Regioni Incognite dell'Africa Centrale è quella dei Dinka, la quale è parlata non solo da questa tribù, ma da altre dieci o dodici; perciò noi ci tratteniamo qui fra i Kich per istudiare questa lingua, e facciamo contemporaneamente delle esplorazioni verso l'Equatore: poi in quella tribù che crederemo più opportuna cominceremo la predicazione dell'Evangelo, giusta il gran piano del nostro Superiore D. Mazza.


[337]
Io ho cominciato l'esercizio anche della medicina, e a quest'ora ho per clienti tutti i malati dei luoghi circonvicini: quando sono guariti vengono da me, e mi sputacchiano su tutto, prendendomi specialmente le mani e sputandovi dentro, segno della più viva gratitudine. Della lingua dei Dinca, balbetto 522 parole; anzi 523 perché in questo momento imparo che a-gnáo significa gatto. E' una fatica indicibile l'imparare una lingua traendo ciascuna parola dal labbro degli indigeni: ma basta, mio D. Pietro; da questo piccolo foglio non può avere nemmen la più languida idea, di quello che fu oggetto delle nostre osservazioni: ma scriverò... I miei compagni la salutan di cuore, congratulandosi che la Provvidenza l'abbia chiamato a pascere sì considerabile greggia.


[338]
Godo poi a farle noto, che ad onta dei disagi di lunga peregrinazione, ad onta del cocentissimo sole africano godiamo d'una meravigliosa salute. Di 22 Missionari della Missione di Khartum che esiste da 10 anni, ne morirono 16, e quasi tutti i primi mesi. Noi stiamo ad ogni ora apparecchiati alla morte, ma oltre il clima, molto cagiona la morte la mancanza di medici, e di medicine. Ma gloria al Signore. Io la saluto di cuore; colla prima spedizione, gli capiterà qualche oggetto del Centro dell'Africa. I miei saluti alla sua mamma, alla buona Elisa, a tutta la sua famiglia, al suo clero, alle cui orazioni mi raccomando, alla Giulia Pomaroli, all'Ingegnere Mastella e sua moglie quando scrive a Modena e mi creda di cuore



Suo affez.mo

Daniele Comboni




[339]
NB. La settimana ventura tentiamo una esplorazione fra la bellicosa Tribù dei Tuit, che giace al 6º. g.r L. Abbiamo fatto venire qui ai Kich il capo di questa tribù; e dopo avergli regalato un mazzetto di conterie, crocette etc. ci disse che entriamo nella sua tribù quando vogliamo, che egli penserà a disporre i suoi sudditi. Ci diede peraltro un avvertimento, di non entrare nelle sue capanne, perché v'è uno spirito che divora gli uomini. Noi l'abbiamo assicurato che lo metteremo in fuga: no, rispose, egli divora tutto.

Vedremo. Ora che cominciamo a balbettare questa lingua, abbiamo agio di metterci in mezzo ad una turba di questi indigeni* armati, e parlar loro di Dio. Già parecchi alla mattina entrano a Messa, altri vengono per essere istruiti; e molti mettono in pratica l'uso di segnarsi; a farci amare, molto ci giova l'esercizio della carità; specialmente colla assistenza a' malati.


[340]

Qua e vivi e moribondi giacciono in terra avvolti in cenere; ecco tutta la lor medicina. E' una cosa deplorabile la miseria d'ogni genere, che sonvi qui fra le tribù dell'Africa Centrale. Oh! se tanti sacerdoti bravi della diocesi di Brescia, che ora stan neghittosi ed oziando fra le domestiche mura, vedessero tanti milioni di anime che siedono nelle tenebre e nelle ombre di morte; se potessero con un volo trasportarsi qui nelle Regioni Incognite, sarei sicuro che diverrebbero tanti Apostoli dell'Africa! Ma spero nella Provvidenza di Dio, che scuoterà i generosi petti anche dei sacerdoti Bresciani; e il pensiero che sono tanto ardenti e magnanimi per la causa della patria, mi persuade che lo saranno ancor più per la causa di Dio, per l'incremento del suo Regno: ma per fare questo ci vorrebbe una scintilla.
 


[341]
Oh! spero che l'esempio dei Missionari dell'Istituto Mazza in Verona, e quello del Seminario di S. Calocero a Milano, ecciterà vivamente anche i fervidi e magnanimi cuori dei miei fratelli e compatrioti bresciani, a mettersi a grandi imprese per la diffusione del Regno di Dio. La prego di offerire la mia servitù a M.r Vescovo di Brescia. Ma basta, caro mio D. Pietro; mi scriva. Sono cari gli accenti degli amati lontani! E care mi torneranno le notizie dell'attual sua posizione, del grave incarico a cui venne chiamato, etc. etc. di tutto. Addio!






35
Dott. Benedetto Patuzzi
0
dai Kich
15. 3.1858
AL DOTT. BENEDETTO PATUZZI

ACR, A, c.15/88



Diletto mio compare ed amico!

Dalla tribù dei Kich nell'Africa Centrale

al 7.mo g.r L. N. 15/3/ = 58
[342]
Oh la grande scoperta che il vostro amico lontano ha fatto in questo giorno. Oggi mi sono accorto che il tempo è veramente galantuomo; e sapete perché?.. perché oggi ho scoperto che io sono avviato a gran passi a diventar vecchio. Oh! carissimo; oggi appunto io tocco il 27º. anno di età; e parmi iersera quando era giovane; parmi iersera quando piccino imparava sulle ginocchia della mia madre a fare il segno di croce, o quando dalla famosa tesolica valle, ove respirai le prime aure di vita, partiva soletto, e mi recava in seno all'ottima patriarcale vostra famiglia, per apprendere i primi rudimenti della lettura italiana dal celeberrimo grammatico D. Pietro, vostro zio carissimo, il quale con una pazienza da Giobbe, con una costanza da tedesco, e sovente con qualche frutto non troppo piacevole di Legnago, pel considerabile stipendio di Nº. 75 centesimi al mese, energicamente s'occupava alla mia istruzione.


[343]
Oh innocenti e soavi memorie dei tempi che furono!... Ma anche voi, Benedetto mio caro, v'avvicinate a gran passi alla canizie dei vostri venerandi antenati.... Dunque siccome io e voi così rapidamente invecchiamo, voglio che questo giorno sia da noi consacrato a rammemorare le vicende trascorse della nostra gioventù, come appunto farebbero ora due gloriosi veterani di Napoleone, i quali trovandosi insieme, passerebbero molte ore nel ricordar le fatiche, i viaggi, le battaglie, e i trionfi passati. Or ecco, che questa volta farò io da protagonista; io comincerò, a trattenervi, rammentando le mie vicende: voi poi adempirete le vostre parti, quando vi saran giunte all'orecchio le mie. Ma io non toccherò tutte le circostanze delle mie passate vicissitudini: solo vi farò un brevissimo cenno del mio viaggio sul Bahar-el-Abiad, sperando che vi tornerà gradito il sentir quelle cose, che occorsero ad un vostro sincero amico, il quale in quei lieti momenti pensava anche a voi, e gli parea talora che voi gli foste compagno, e compartecipe delle molteplici e differenti ricevute impressioni.


[344]
Prima poi di toccarvi il breve ragguaglio del mio viaggio sul Bahar-el-Abiad, debbo premettere, che il Nilo, sopra il quale viaggiai da Cairo fino a Korosko, e da Berber fino a Khartum, è formato dai due grandi fiumi conosciuti dagli Arabi sotto il nome di Bahar-el-Azrek, o Fiume Azzurro, e di Bahar-el-Abiad, o Fiume Bianco, così detti appunto dal colore delle loro acque, i quali si uniscono ad Ondurman vicino a Khartum formando il Nilo propriamente detto, che dopo un corso di parecchie migliaia di miglia attraverso la Nubia e l'Egitto, sbocca per diversi rami nel Mediterraneo.


[345]
Le sorgenti del Fiume Azzurro, sono conosciute fino dall'antichità; e sono le montagne dell'Abissinia, non molto lungi dal lago di Dembea, le quali furono sempre a torto riguardate come le sorgenti del vero Nilo. Su questo fiume viaggiò nel 1855 il nostro D. Giovanni Beltrame fino al 10º. grado L. N., allo scopo di cercare un punto adattato per una Missione giusta il gran piano del nostro Superiore D. Nicola Mazza; ma per molte giuste ragioni essendo inopportuno qualunque luogo del Fiume Azzurro, il Superiore stabilì che con questa nostra spedizione si tentasse la realizzazione del suo disegno sul Fiume Bianco.


[346]
Debbo ancora premettere che questo fiume, di gran lunga più largo, maestoso, e lungo dell'Azzurro, è stato altra volta fino a un certo segno percorso da alcuni altri, e specialmente dal Missionario D. Angelo Vinco del nostro Istituto: quindi le sue sponde sono in qualche modo conosciute; ma nessuno penetrò molto addentro terra, ove certo per immenso tratto si stendono le sue vaste tribù; sicché, quantunque di queste si sappia il nome, perché le loro estremità giungono fino al fiume, pure a tutta ragione, le tribù del misterioso Fiume Bianco, sono incognite, perché nulla di certo si sa dei loro costumi, popolazione, governo, religione, e simili.


[347]
Ciò posto, il nostro disegno è di realizzare in una delle tribù dell'Africa Centrale, che si crederà la più adattata, il piano di Missione del nostro Superiore, cominciando dalle sponde del Fiume Bianco; nella qual'opera molto ci gioveranno i due Istituti dei negri e negre, che il grand'uomo di Dio va formando in Verona, come felice semenzaio per lo stabilimento delle Missioni nell'Africa Centrale.


[348]
A tale scopo all'alba del giorno 21 gennaio, dopo gli scambievoli abbracciamenti del nostro caro compagno D. Alessandro Dalbosco, che rimase a Khartum in qualità di nostro Procuratore, e centro di comunicazione fra l'Europa e le tribù, ove noi contiamo di stabilirci, partivamo da questa città noi quattro, cioè D. Gio. Beltrame capo della Missione D. Francesco Oliboni, D. Angelo Melotto, ed io, accompagnati da D. Matteo Kirchner Missionario della Stazione di Khartum, il quale era incaricato dal Vicario Apostolico, testè recatosi in Europa, di visitare in sua vece le due Stazioni di S. Croce, e Kondokoro.


[349]
La barca che ci dovea trasportare in questo periglioso viaggio, era la Stella Mattutina, di proprietà della Missione di Khartum, una delle più grandi, e certo la più elegante di quante mai finora abbiano mai solcato le maestose onde del Fiume Bianco, ed era guarnita di quattordici bravi marinai, a capo dei quali presiedeva un bene sperimentato Raies (capitano), il quale fece altra volta questo viaggio; e noi abbiamo più volte coll'esperienza toccato con mano quanto fosse destro e perito nella malagevole arte di navigare questo gran fiume. Dopo non lieve contrasto col vento del Nord, superato il Fiume Azzurro fino all'estrema punta d'Ondurman, ove insieme congiungendosi i due gran fiumi mantengono ciascuno alla sua parte il color proprio delle loro acque, per lo spazio di ben quattro miglia, ecco presentarsi dinanzi a noi il Fiume Bianco, che ci si dispiega in tutta la sua incantevole maestà e bellezza.


[350]
Un gagliardissimo vento ci spinge rapidamente su quelle acque sconvolte ed agitate, le quali benché contrarie nel loro corso a noi, pure sembra che umiliate si ritirino al passaggio della nostra Stella Mattutina, che maestosa s'avanza colla celerità quasi de' nostri piroscafi sul Lago di Garda. Le sue sponde lontane sono pittorescamente ammantate d'una svariata verzura, ove stanno a pascolare grosse mandre di buoi e di capre; e più lungi addentro terra ergono al cielo i lor rami le gigantesche mimose, sopra cui svolazzano liberamente numerose torme di vaghissimi uccelli.


[351]
La prima tribù che s'incontra al di là di Khartum, è quella degli Hassanièh, che si stende a destra e a sinistra del fiume; i cui abitanti s'occupano della pastorizia, onde traggono il lor principale alimento. Questi nomadi vanno sempre armati di lancia, e come i Nubiani che abitano di qua e di là del deserto, hanno sempre legato al nudo gomito un tagliente coltello, di cui si servono ad ogni loro bisogno. Ed è appunto entro i confini di questa tribù, che il secondo giorno ci fermiamo a Uascellai per provvederci di un bue, perché il nostro Raies ci faceva avvertiti, che per più giorni non avremmo trovato di che provvedere di cibo noi e il nostro equipaggio. Nulla vi posso dire intorno a questa tribù, se non che è nomade, i cui abitanti nella maggior parte, benché siavi qualche borgata e villaggio, tuttavia girano or qua or là, secondo che trovano più pingui ed agiati pascoli pei loro bestiami.


[352]
Oltre il 14º. grado di Lat.e stendosi due altre piccole tribù, cioè quelle degli Schamkàb a sinistra, e Lawins a destra del fiume, oltre alle quali comincia verso il sud la vasta tribù dei Baghara, che alla sinistra si stende fra il 14º. ed il 12º. g.r di Lat. N.; ed a destra dal 13º. al 12º., essendo nello spazio intermedio fra il 13º. ed il 14º. la tribù nomade degli Abu-Rof, di cui nulla vi posso dire con certezza, fuorch'ella esiste. Qui appunto lungo le sponde occupate dai Baghara, e, parte di quelle dei Scellùk, la scena si fa più interessante e maravigliosa; i villaggi e le abitazioni cominciano a scomparire; tutto è silenzio; la nostra dahhabia (Stella Mattutina) è la sola che scorra per quelle acque tranquille; e noi dal ponte della barca vagheggiamo pieni di meraviglia lo spettacolo di una vergine ed non mai contaminata natura, onde sorride questa incantevole parte del fiume.


[353]
La sue sponde per lungo tratto sono coperte d'una imponente e rigogliosa vegetazione non mai frenata, né alterata dalla mano dell'uomo: fitte, ed immense boscaglie impenetrabili, e fino ad ora inesplorate, da gigantesche mimose e verdeggianti nabak formate, s'addentrano per lungo spazio, formando una sterminata e variopinta selva incantata, che offre il più sicuro ricovero a grosse torme di gazzelle ed antilopi e qualche bestia feroce, che noi scorgiamo vagar liberamente, e senza tema di ostili insidie; le quali foreste in sulle sponde veggonsi talvolta leggiadramente vestite di graziose verbène, e d'una certa erba folta e seguace, che naturalmente compongono come delle piccole capanne, sotto a cui si starebbe al coperto dalla più gran pioggia. Centinaia di amenissime isole, succedentesi le une alle altre, e l'una più ridente dell'altra, leggiadramente vestite di verde smalto, offrono da lungi l'aspetto di fertilissimi giardini: queste vaghe isolette sono ombreggiate da una serie di mimose ed acacie, che lasciano appena talvolta penetrare qualche raggio del cocente sole africano, e formano per quasi duecento miglia un arcipelago d'incantevole fertilità e bellezza


[354]
Torme infinite di volatili d'ogni specie grandezza e colore, all'ibis bianco e nero dal ricurvo e lungo becco, e il pellicano dal bianco e maestoso collo, e il pappagallo dalle penne d'oro, e l'aquile reale, ed anitre selvatiche, e abusin, e gru reali, e abumarcub, e aghiron, e marabuh etc. etc. svolazzano modestamente e senza timore su e giù pei rami, e lungo le sponde, o tra il folto erbame, collo sguardo sovente rivolto al cielo, sì che par che benedicano il Dio dei fiume e delle foreste che per loro creò.

Scimmie d'ogni specie saltellano entro alle boscaglie, si arrampicano su pegli alberi, fan capolino dai folti rami, corrono al fiume per dissetarsi, mandano grida, fuggono, s'arrestano; grandi coccodrilli sbadatamente sdraiati in sulla riva, o sulla nuda sabbia di qualche piccolo tratto d'isolotto infecondo, che al nostro passaggio si strisciano con somma difficoltà per guadagnare il fiume, in cui si nascondono; smisurati ippopotami alzano a centinaia l'immane lor testa dall'acqua sbuffando, e mettendo fragorosi muggiti, urtano alle volte la barca col pesante lor dorso, e si rituffano strepitando nel fiume.


[355]
Insomma, o carissimo, io non saprei come darvi una languida idea di quel meraviglioso spettacolo di cui fummo testimoni durante qualche giorno fra le tribù dei Baghara e Scelluk. La nostra dahhabia frattanto vola rapidamente su quelle candide acque testimone ora di qualche piroga di africani* armati di lancia, che al nostro passaggio si danno a precipitosa fuga, o s'appiattano fra i folti rami degli alberi che stendonsi per lungo tratto oltre la riva, o scendendo a terra s'inselvano; ora di qualche barchetta dei Baghara che furtivamente ci stanno osservando nascosti fra le canne colla lancia in mano; ora di qualche Scilluk, che dopo averci salutati colla parola d'ordine Gabbabah, mettesi a precipitosa fuga e s'inselva: e fu una scena piuttosto curiosa il vedere in un'isola una grossa mandra di buoi, che spaventati al passaggio della nostra barca, si slanciava a tuffarsi nel canale per passare alla riva; indarno i guardiani li impediscono colle lor lance; che ancor essi montati sul dorso dei bovi, tragittano precipitosamente il fiume.


[356]
Ma ecco che la nostra Stella Mattutina rompe in uno scoglio; appena messa in istato di proseguire eccoci al passo di Abuzeit, ove per essere il fiume assai largo e basso, la barca leggermente si arena: i barcaiuoli sono costretti a balzare nel fiume, ed a colpi di spalle urtar nella barca per farla avanzare. E' cosa incredibile la fatica e gli sforzi che deono fare quegli infaticabili nubiani per estrarre la barca da un basso fondo, specialmente quando questo occupa lo spazio di parecchie miglia.

Noi procediamo innanzi ora a gonfie vele favoreggiati da vento gagliardo, ora assai lentamente a cagione dei bassifondi arenosi, ora urtando in qualche secca nascosta nel fiume, e già oltrepassati i confini della vasta tribù dei Baghara, ci troviamo circondati dai paesi delle due grandi tribù dei Denka a destra, e dei Scelluk a sinistra del fiume.


[357]
I Baggara, che nella nostra lingua si direbbe Vaccai, e che sono così chiamati per la special predilezione che questi popoli hanno per l'educazione delle vacche, le quali per loro esercitano l'ufficio che per noi fanno gli animali da soma e da cavalcatura, sono di frequente in guerra colla potente tribù dei vicini Scelluki, i quali non avendo abbastanza vacche per fare i loro matrimoni, o mantenere le loro famiglie, si uniscono in grosse squadre, e sopra le veloci loro piroghe s'appiattano sotto ai lunghi rami, che stendendosi sopra l'acqua dalle vicine isolette, e aspettando che i Baggara conducano le loro mandre ad abbeverarsi nel fiume, vi si scagliano sopra, e imbarcatele, s'allontanano, prima che gl'infelici guardiani di vacche abbiano l'agio d'invocare soccorso dai loro accampamenti vicini.


[358]
I Baggara poi si vendicano talvolta degli Scelluk col farli schiavi e venderli sui mercati di Kordofan e di Khartum. Noi ci troviamo adunque a lato della potente tribù degli Scelluk. Questi sono sempre armati di lancia e d'un grosso bastone di ebano, ben tarchiati della persona, di statura alta e talor gigantesca; molti si danno alle rapine, di cui una terza parte deono dare al re, che vive invisibile in un villaggio non molto lungi da Denab, fatto a mo' di labirinto, e mai dorme due notti consecutive in una medesima capanna.

Di questa gente* si dice e si scrivono cose orribili circa alla loro crudeltà. Noi peraltro, la Dio mercè non avemmo ad esperimentare nulla di male al nostro passaggio da parte loro; quantunque essi avessero avuto tutto l'agio di fare di noi uno scempio.


[359]
E fu specialmente poco oltre al guado di Mocàda-el-Kelb, che la nostra nave fu spinta da un gagliardissimo vento in un limoso bassofondo, donde gli sforzi reiterati de' barcaiuoli non valsero ad estrarla: era la notte del 27-28 gennaio, allor che noi scorgevamo i fuochi accesi sulla riva sinistra degli Scelluki, che stavano oziando in compagnia delle loro mogli, mentre aveano le loro piroghe ancorate sulla riva del fiume. A destra stavano molti Denka*, i quali al vedere la nostra barca, e più gli Scelluki si ritiravano addentro terra.


[360]
Alla mattina del 28 i barcaiuoli balzano nel fiume e s'attentano di smuovere la barca, ma a nulla valgono i loro conati. Si viene al partito di chiamare in soccorso i vicini Scelluk: il Raies alza la voce e grida verso quella volta; ma nessuno si muove. Si ripetono le grida alte e sonore; ed ecco staccarsi da riva una feluca con dodici individui* armati di lancia e bastoni; e in meno di cinque minuti eccoli a bordo della nostra dahhabia.

A forza di gridare si fa loro intendere che noi vogliamo esser da loro aiutati ad estrarre la barca: essi rispondono che prima vogliono tornare a riva per concertare col loro capo del prezzo da riscuotersi in ricambio del prestar l'opera loro, e che per tale oggetto richiedevano due ostaggi da noi. Ad un no ripetuto del raies per un pugno di conterie e perline di vetro, quegli Scelluki si misero ad urtare colle spalle nella barca: ma per non esser punto destri in tale operazione, a nulla valsero i loro sforzi.


[361]
Allora il Raies fece loro intendere che chiamassero in soccorso altre barche ed altri loro fratelli, che n'avrebbero larga mercede: in meno di un quarto d'ora compariscono altre tre barche di uomini* armati, i quali s'adoperano alla rinfusa e senz'ordine di aiutare i barcaiuoli nel malagevole ufficio di estrarre la barca: tutti insieme, in numero di 50 individui si mettono all'opera; ed ecco che finalmente riescono a smuoverla: ma invece di continuare con reiterati colpi l'opera bene incominciata, quei diffidenti uomini* s'arrestano, e domandano il prezzo in conterie: noi gliele mostriamo, incitandoli all'opera; ma essi rifiutano.

Finalmente noi le diamo nelle loro mani; quegli vedutisi in potere delle perline, si dileguarono ad un tratto da noi, e si ritirarono a riva, ove avidamente si uniron fra loro per dividersi l'acquistata mercede, lasciando noi più imbarazzati di prima. I barcaiuoli tentano e ritentano di smuovere la barca: tutto è nulla: così passò tutto quel giorno.


[362]
Alla sera si tiene da noi una specie di seduta sul modo di estrarne la barca; ma non si viene a capo d'una soddisfacente conclusione. A dire il vero la nostra posizione è sommamente critica: ci troviamo in mezzo a due bellicose tribù, l'una più rapace e temuta dall'altra. Parte della tribù degli Scelluk vive di rapina coll'obbligo di dare il terzo delle loro ruberie al re come dissi di sopra. Questa è sempre in guerra: difficilmente si lasceranno scappare quest'occasione gli Scelluki di arricchire la propria condizione. Il passaggio della Stella Mattutina attrae a sé gran numero di osservatori come la più bella che abbia mai veduto il Sudan: a tutto questo aggiungete le tragiche scene dipinteci a Khartum degli Scelluk; e poi ditemi cosa noi pensavamo in quel frangente.


[363]
L'idea d'esser fatti prigioni, d'esser derubati, e condotti dinanzi a quel superbo re che si crede il più gran monarca del mondo, dopo quel d'Abissinia, lungi dallo sgomentarci, ci facea vagheggiare una Missione fra gli Scelluk. Ma non si può mai temere quando veglia con pietosa cura colei che s'intitola Regina degli Apostoli. E come mai avrebbe potuto star neghittosa questa nostra Madre, e non soccorrere quattro suoi figli che tentano di farla conoscere ed amare da quelle barbare genti, appo le quali non brillò mai la luce della verità, ed ove non venne mai piantata la Croce del suo divin Figliolo?


[364]
Alla mattina seguente noi ci rivolgiamo confidenti a questa gran Madre; si celebra la messa nella bellissima cappella che sta a prora della Stella Mattutina, sacra appunto a Maria: poi si pensa, si decide; ed ecco il modo con cui si tenta l'estrazion della barca da quel melmoso basso fondo.

Coi remi della barca assai grossi e in numero di 16, con tavole ed altri legni si costrusse una zattera, e postala a galla dell'acqua, vi si sovrapposero casse di quegli oggetti che non si guastano all'acqua infino a tanto che la barca fu alleggerita per modo, che le forze riunite dei marinai la sollevarono, la smossero, e la trassero interamente da quel pantano: poi giratala, e messala in parte, ove il letto era abbastanza profondo, ricaricarono con indicibile fatica le cose deposte, e alle cinque dopo il mezzogiorno, 43 ore dopo il periglioso arenamento colla gioia di chi ha riportato un trionfo, scioglievamo la vela dinanzi ad una turba di Dinca, che armati e schierati sulla riva si mostravano lieti della nostra ventura.


[365]
Allora gli Scelluki fuggirono, e noi non ne sapemmo precisamente il perché. Un'ora circa dopo la nostra partenza dal guado Mocada el Kelb, un'altra volta arenammo; ma subito n'uscimmo favoreggiati da gagliardissimo vento. Più volte la Stella Mattutina irrompe in qualche scoglio, e retrocede; più volte seduti nella sponda, o sopra una tavola, retrocediamo improvvisamente; cadiamo, e per più giorni ci resta o in un ginocchio, o nel braccio, o in un piede il segnale di quel momento.


[366]
Noi continuammo il nostro viaggio lungo le sponde degli Scelluk, e passati oltre un'isola, ecco una lunga catena di villaggi, l'uno appresso dell'altro per la lunghezza di oltre 4 miglia, e non più di mezzo miglio distanti dal fiume. Eran tutti ben costruiti a mo' di cilindro di terra, o di canne; e il tetto in forma di cono accuminato, e coperti di paglia: la loro unione formava una vaghissima vista; e quella cotale semplicità, unita a qualche scintilla di commercio che hanno col Kordofan e col Sennar, facea credere dovessero essere felici gli abitatori di quelle capanne: eppure nol sono; perché privi quei miseri della cognizione di Colui, che è fonte della vera felicità.

Questo numero enorme di villaggi forma la gran città di Kako, dinanzi alla quale noi ci fermiamo. La gente accortasi del nostro arrivo, ecco in meno di 10 minuti comparirci dinanzi uomini in gran numero; ma sopratutto donne e fanciulle recando seco gran vasi di terra cotta, ed altri più piccoli recipienti di terra o di zucca, tappeti di paglia, o di giunchi, e ceste, e panieri, e grano di durah, lenticchie, sesame, legumi, uova, galline ed altri oggetti di vendita, talché in poco tempo tutta la spiaggia era gremita di gente, e piantatovi un considerevole mercato.


[367]
Ciò poi che rendeva più attraente quella vista, era la varietà che si scorgeva in quella turba, dacché v'eran persone di parecchie razze diverse, che si ravvisavano al differente colore, e alle fattezze del volto; v'era infatti il negro Denka e Scilluko, il bruno del Kordofan, il bruno Baghara, il rosso rame degli Abu-Gerid, il giallastro degli Hassanieh; a tutto questo aggiungete le fogge diverse di adornarsi e del tingersi la pelle, e specialmente la faccia e la testa; poi le grida, lo schiamazzar fragoroso, il reciproco urtarsi, l'andare e il venire continuo, e potete immaginarvi di che pasta fosse il mercato di Kako.


[368]
Fatto dai barcaiuoli e dal nostro servo alcune provvigioni più necessarie, abbandoniamo coll'animo conturbato quella gente infelice, pensando al deplorabile stato in cui si trovano per esser privi della luce di verità. Già da qualche giorno era cessato quell'incanto di natura citatovi di sopra; la riva destra del fiume cominciava a mostrarsi quasi deserta; e sol di lontano scorgeasi sulla sinistra più rare le acacie, le mimose, i tamarindi, a cui si aggiungeva qualche pianta maestosa di palma di doleb, che s'innalzava lungo i villaggi, e qualche gigantesco baobas, che ergeva superbo i suoi rami in mezzo ad una pianura senza confini.


[369]
Già continuano a mostrarsi sulla riva gli armati Scelluki, i quali s'incenerano; o si tingono bizzarramente d'un rossastro più o meno carico la faccia e tutto il corpo, e i capelli s'impiastricciano di cenere e pantano, sicché sembrano spaventosi fantasmi. Ai primi di febbraio procedendo lentamente, perché il fortissimo vento non permetteva di tener sciolta la vela, vedemmo schierarsici innanzi un'altra catena di forse 30 villaggi conosciuta sotto il nome di Denab. Dicesi che uno di questi, lontano tre miglia dalle sponde del fiume, sia la residenza del gran re degli Scelluk, il quale vive invisibile, e mai passa due notti consecutive in una medesima stanza o capanna, perché teme d'essere ucciso dai dissidenti suoi sudditi.


[370]
Egli crede d'essere, dopo quel d'Abissinia, il più gran re della terra, e quindi a nessuno dà udienza fuorché al re d'Abissinia, il quale però non sa nemmeno che esista la tribù, e meno il re de' Scelluk: le sue donne, e qualche suo ministro destinati a raccogliere i tributi, soli sono ammessi alla sua presenza, né possono mai presentarsi a lui senza strisciarsi colle ginocchia, colla pancia e colla bocca per terra. Gli Scelluki sono alti di statura; (1) ben tarchiati della persona, robusti, e bellicosi: essi vanno continuamente armati di lancia e scudo, e sono sempre pronti ad [da 'Gli Scelluki sono alti.....' fino a 'ad', le parole sono un po' cancellate da Comboni stesso] ingaggiar battaglia e rubare.

Ma basta di questa potente tribù. A destra del fiume, rimpetto all'immensa sponda Scelluka, abitano i Denka, i quali benché più intelligenti, son tuttavia più deboli degli Scelluk; e quindi si tengono lontano più che possono dai rapaci ed assassini Scelluk, i quali si danno ad ogni sorta di ruberie, facendo commercio specialmente di donne e fanciulli, che poi vendono ai Giallaba, che ne fanno oggetto di mercato nelle città della Nubia.


[371]
I Dinka sono una grande tribù dell'Africa, i quali* facilmente si distinguono da quelli delle altre tribù per la fronte spaziosa e sporgente, pel cranio piatto, e cascante verso le tempia, pel corpo lungo e macilento; la loro lingua è la più estesa delle tribù dell'Africa Centrale sul Bahar-el-Abiad, e questa è appunto quella tribù che noi prendiamo di mira in Europa.


[372]
Ma ora vogliamo dapprima fare delle diligenti esplorazioni, e poi a suo tempo, anche sulle aride glebe della tribù affatto incognita dei Denka brillerà l'astro del Vangelo. Vicino al Sobat, fermatici a Huae per la compera di un toro, il capo di quel paese invitato da noi a scendere nella barca, vi venne pauroso ed incerto; e noi lo introducemmo con tutti i segni d'amicizia, dai quali parve rassicurato; entrato nel nostro appartamento girava attorno lo sguardo come attonito, camminava sospeso e colle braccia levate; gli mostrammo la cappella elegantemente adorna, e parve come magnetizzato, e come chi è abbagliato si ritrasse colle mani alla faccia: lo affacciammo ad uno specchio; e non è a dire le smorfie, i contorcimenti, le grida, l'accennare e il ridere sgangherato, che egli ne fece, vedendovi dentro la sua figura.


[373]
Partì certo tanto meravigliato delle cose vedute, che si dovette credere venuto dal cielo! Movemmo di là sciogliendo le vele, ed ancor quella notte passammo innanzi alle bocche del Sobat, considerabile influente del Fiume Bianco, e certo maggiore del nostro italo Po; la cui origine è sconosciuta, sapendosi soltanto che egli discende dal 5º. grado in direzione parallela orientale a quella del Bianco, a cui porge il suo tributo. Ed è appunto a queste foci, in cui il maestoso Bahar-el-Abiad volge bruscamente a perfetto occidente per lo spazio di oltre 150 miglia al 9º. e 15 minuti di Lat.e: e questa porzione è fiancheggiata a sinistra dalla tribù dei Gianghèh ed a destra dalla gran palude dei Nuer, intorno alla quale noi facciamo oltre 350 miglia. Fu in questo rapido tragitto che alla mattina scorgemmo una mandra di grossi elefanti che venuti ad abbeverarsi al fiume ritornavano ad inselvarsi.


[374]
Dei bufali selvatici della grandezza di un bue, ne veggiamo delle migliaia, fuggire al nostro passaggio, sì che par di vedere un esercito smisurato darsi a precipitosa fuga. Dopo un'ora un colpo di vento ci squarcia la vela maggiore, sicché siamo costretti a fermarci vicino ad un'isola di oltre 300 ippopotami, che ci assordano e minacciano coi loro frementi e spaventosi muggiti.


[375]
Partiti alla sera, dopo che i barcaiuoli aveano aggiustato la vela, ecco alla mattina seguente in faccia alle bocche del maestoso Fiume Ghazàl, là ove si congiunge al Fiume Bianco. All'angolo del loro congiungimento si forma un delizioso laghetto, le cui rive tutte verdeggianti di giunchi, e boschetti di papiro accrescono bellezza alla placida tranquillità delle sue onde. Vi nominai il papiro, che voi conoscete assai bene per l'uso che ne facevano gli antichi di scrivere colla sua scorza: il fusto di questa pianta ha l'altezza di 5 a 7 piedi, triangolare meglio che cilindrica n'è la forma; grosso alla radice come tre dita unite insieme, e più di un dito la cima, coronata di un verde pennacchio, come è verde la canna, simile alla cima dei nostri finocchi. Noi vedemmo anche in appresso delle isolette intere, dei boschi di questi papiri, che par che amino la vicinanza dell'acqua, e il terren paludoso.


[376]

Il rimanente del nostro viaggio riuscì alquanto noioso, massime pel poco avanzar che si faceva in causa delle frequenti e grandissime svolte del fiume, che mettendoci contro vento costringevano i barcaiuoli a tirar la corda e rimorchiare: l'aspetto delle rive si faceva ognor più mesto e desolato; cessavano i deliziosi boschetti di ambai e di papiri, e succedevano smisurate lande coperte di canne secche ed incenerite: spesso in sulla sera eravamo spettatori dei famosi fuochi notturni; poiché i negri Nuer appiccano il fuoco a pianure vastissime coperte di giunchi altissimi e folti affine di preparare la terra a nuovi germogli innanzi le piogge.

Il fumo denso e copioso trasportato dal vento, copriva le piante dell'interna foresta, e dava loro l'aspetto d'una lontana catena di montagne che facesser corona al fosco orizzonte; le fiamme dell'appiccato incendio or si levavano maestose, ora strisciavano e si spingevano come rapide onde in traccia di nuova esca, ed attaccatesi ad altri boschetti di giunchi, si rialzavano più vaste e dilatate, fischiando crepitando, avvampando orrendamente.
 


[377]
Noi passammo parecchie notti in questo meraviglioso spettacolo, del quale forse appena gli eroi del più grande dei moderni guerrieri poterono avere una languida idea sotto le mura dell'incendiata Mosca, e pareami di vedere il Dio degli eserciti che inclinasse i cieli, discendesse appoggiato a nebbia caliginosa avventando sui nemici dal cielo i folgori della sua ira divina. La monotonia di questo viaggio oltre il Ghazal, veniva ancora interrotta di quando in quando da nuvole immense di milioni di volatili che offuscavano al loro passaggio per non breve tempo la luce del sole, come quando improvvisamente sul bel meriggio s'approssima fiera tempesta; ora da immense torme di gru reali pellicani ed ibis, che a migliaia e migliaia si affacciavano sulla sponda assordandoci coi beffardi e poco piacevoli lor gracchi: e non voglio tacere che una sera passammo per tre miglia una immensa distesa di boschetti d'ambai, piena e zeppa di ibis.


[378]
Quello che ancora fu oggetto di meraviglia fu il vedere una grossa mandra di migliaia di bufali selvatici che sgomentati al nostro passaggio, correndo pel vastissimo piano sollevavano al cielo la cenere bruna delle canne abbruciate e ne oscuravano l'orizzonte. Di più fu qui all'8º. gr., ove fummo spettatori del maggior numero d'ippopotami: era uno spettacolo al vedere, centinaia migliaia d'ippopotami smisurati, che sbuffando mandavano fragorosi e rochi muggiti, e levando fuori e ricacciando l'immane lor testa entro l'acqua, la faceano gorgogliare e rimescolarsi, come quando nel mare è prossima burrascosa procella; talvolta s'appressavano alla barca, come in atto di minacciarla, e tal altra se la lasciavano passare di sopra urtandola e facendola traballare coi ferrei lor dorsi.

L'ippopotamo è un animale deforme e smisurato; ei giunge alla grossezza di 4 volte il nostro bue: ha il capo, in proporzione, simile a quello del toro, i denti durissimi ed enormi, massime gli incisivi, alquanto però sproporzionati, e candidissimi; la forma del rimanente del corpo ritrae del maiale, quantunque non settoloso fuorché la coda, ma è liscio, ed ha la pelle grossa due o tre dita, onde è impenetrabile, meno qualche piccola parte della gola, ai colpi di lancia, degli arpioni e dei fucili; il suo sbuffo rassomiglia ad uno scarico di parecchi archibugi sentiti da lontano; il muggito poi è tanto sonoro che fa rimbombare le sponde e s'ode d'assai lontano; e il suo movimento del collo e del capo al suo comparire fuori dell'acqua, simile al dispiegarsi di un veloce destriero alla corsa, forse ha dato motivo di chiamarlo ippopotamo, cioè, cavallo di fiume.


[379]
Io poi ne vidi alcuni presi dai negri. Oltre dell'uso degli arpioni per dare la caccia a questi immani abitatori del Fiume Bianco, i negri fanno delle profonde buche, e ne coprono di erbame la bocca, poi aspettano che l'ippopotamo alla notte sorta dal fiume per pascersi d'erba; e mentre crede aver trovato sufficiente cibo all'orlo di quella buca, cade, miseramente, e poscia un buon numero di negri con lance ed arpioni trafiggono l'infelice vittima.


[380]
L'immensa tribù dei Nuer, che si estende dalle bocche del Bahar-el-Ghazal fino al 7º. grado, oltre della isola sovraccennata, che sta a nostra sinistra, comprende ancora un gran tratto di paese ad occidente del fiume; e fu appunto a questa sponda, a Fandah-Eliab, che noi godemmo uno spettacolo più strano di quello di Kaco. I Nuer coltivano durah ed altri legumi tanto da farne commercio coi loro vicini; onde che quantunque più bassi dei Denka e degli Scelluki, son meglio però nutriti e tarchiati della persona, ed il vivere meno ozioso ed infingardo li rende più svegliati e vivaci.

Il commercio facendo più doviziosi offre loro agio di sfoggiare il loro genio bizzarro di ornarsi in mille strane guise la persona; onde sebbene, sieno tutti ignudi, portano tuttavia diversi fregi di collane e braccialetti ed anellacei ai piedi, ed anellini alle orecchie, ed oltre all'incenerarsi tutto il corpo, si tingono in istrana foggia il volto e le tempia; e chi ha rasi i capelli, e una fascia o benda di chiocciolette di mare intorno al capo, e chi s'alleva i capelli a sommo la testa e li dipinge in rosso, e li ordina a mo' di corona rilevata, taluno si copre la testa con una parrucca di creta biancastra, o di cenere impastata coi capelli; e da questa parrucca fanno sporgere di dietro come un corno ripiegato all'ingiù che muovono veramente le più grasse risa.


[381]
Tra le donne poi riboccano ancor più gli ornamenti curiosi, ed oltre ai comuni cogli uomini, meno le parrucche, altre hanno bordate le loro pelli di capra o di tigre, onde si cingono i fianchi, di catenelle di ferro, o di rame che scuotono camminando, come i nostri carnevaleschi arlecchini. Altri si orlano le orecchie con dozzine di anelli piantati nella viva carne; altre portano cerchi larghissimi di fil di ferro, che dall'orecchio pendono sulle spalle; ed alcune forandosi il labbro superiore, v'introducono un fil di ferro, e il fanno sporgere mezza spanna e più all'infuori, ornandolo di grani azzurri di vetro, per modo che quando parlano, questo lungo filo turchino sale e discende, secondo che muovesi il labbro. Immaginatevi altre più strane bizzarrie che m'è troppo noioso il descrivervi; paiono le donne, anime del purgatorio, e peggio ancora.


[382]
Ma basta perché sarete stanco di sentire, come io lo sono di scrivere. Superata la tribù dei Nuer, ed entrati in quella dei Kich, ci fermammo al 7º. grado di L. N. da dove io scrivo. Dalle osservazioni che abbiam fatto, ricavammo, che la lingua più estesa che si conosca è la quella dei Dinka, la quale è parlata non solamente dai Dinka, ma da molte altre tribù, del Centro dell'Africa, come Nuer, Kich, Tutuit, Eliab, Arol, Giok etc. onde noi ora ci fermiamo qui a S. Croce ov'è un Missionario di Khartum, e qui ci sforziamo di apprendere con questo dal labbro dell'indigeno la lingua dei Dinka, mentre contemporaneamente si faranno delle esplorazioni; e poi andremo in quelle tribù che più ci parranno opportune, per piantarvi la Croce di Cristo.


[383]
Spero che voi starete di ottima salute, come lo siamo noi tutti. Io vi saluto a nome di tutti i miei compagni, e specialmente di D. Oliboni. Con lui alla sera qualche volta io vado nella foresta in cerca di licheni pel degnissimo Prof.re Massalongo, la quale occupazione ci serve d'un po' di sollievo alle giornaliere fatiche. Debbo ancora dirvi, che mi torna non poco utile il prezioso ricordo che m'avete lasciato della medicina del Bucsan, a cui spesso ricorro; né posso ricorrervi senza che mi corra alla mente la cara memoria del mio amico Benedettino, e dell'amabile sua famiglia.


[384]
Addio, caro mio; avea mille cose a dirvi; ma la stanchezza me le tolse dalla mente; e poi costano un po' di disagio a scrivere, perché qui non vi sono né i tavolini né le sedie, né gli scrittoi che avete voi; ma d'uopo è adagiarsi in terra, appiè d'un albero, o quando si può, e v'è luce, una cassa è il nostro più comodo scrittoio. Perdonate dunque a tutte quelle molte improprietà, che vi renderanno difficile la lettura di questo scritto.


[385]
Mettetevi gli occhiali, e guardate di non mettervi a leggere questo foglio, senza avere al fianco, come stomatico per corroborarvi, una di quelle margheritine, che sfoggiaste l'anno scorso dopo la processione del Carmine, per onorare la presenza dell'ottimo Prof.r Massalongo e dell'amabile D. Bortolo. Basta. I miei saluti a tutti voi; e sappiate che non cesserò mai di essere il



Vostro aff.mo

D. Daniele Comboni




[386]
NB. Con questa lettera io non intesi di darvi una estesa relazione del mio viaggio sul Fiume Bianco, e d'accennarvi tutto quello, che fu oggetto delle nostre osservazioni: sarebbe cosa affatto lunga: solo intesi di darvene un'idea. Della tribù, ove siamo, nulla vi dico, riserbandomi a fare esperienza sulla faccia del luogo; e poi vi darò più pesate informazioni di questi costumi bestiali.

Inoltre finora voi non m'avete seguito col pensiero nell'Africa Centrale se non come semplice viaggiatore. Da questo punto mi vedrete come Missionario, ed udirete notizie, spero, da Missionario. Addio, mio carissimo. Come medico, voi avrete piacere di sapere quali sieno le dominanti malattie in questa terra maledetta dal padre di Cam. Io per ora non espongo il mio giudizio, perché finora contrario ai viaggiatori.


[387]
Dicono questi che nell'Africa non vi sono che febbri, dissenterie, e scorbuti. Poveretti! Anche in Europa non vi sono che febbri: difatti l'etico muore di febbre, chi ebbe una pericardite muore di febbre, chi un'epatite, muore di febbre, perché la febbre è concomitante a queste malattie. Ma quali sono le cause che produssero questa febbre? Certo è la tisi, l'epatite etc. Dunque voi capite quale sia il mio sentimento, ma come dissi, mi riservo a più lunga esperienza per giudicare e il mio giudizio lo darò, se Dio mi concederà vita.

Riveritemi tanto D. Battistino, D. Bortolo, il Prof.r Massalongo, e tutti, e credetemi



V. aff. D. Daniele

Mis. Ap.co




[388]
Riveritemi distintamente la Sig.ra Marietta, Sig.ra Angelina, Sig.r Giovanni Horetzki



(1) Ho ripetuto sbadatamente, perché questa parte la scrissi oggi 16/3...






36
Dott. Benedetto Patuzzi
0
dai Kich
27. 3.1858
AL DOTT. BENEDETTO PATUZZI

ACR, A, c.15/89



Amico mio cariss.mo!

Dalla tribù dei Kich, 27 marzo 1858
[389]
Quando io scriveva la qui unita lettera, noi tutti godevamo della più prospera salute. Chi si sarebbe mai immaginato che il più robusto forse di noi in pochi giorni dovesse mancare ai vivi, lasciando noi nel dolore? D. Fran.co Oliboni, che pochi giorni prima imponevami di salutarvi, venia colpito da una fortissima e vecchia gastrica complicata con una discreta infiammazione di petto, le quali due malattie tramutatesi in una migliara maligna, spirava nel bacio di Dio pienamente rassegnato ed allegrissimo, ier sera alle 5 pom.e. Noi sentiamo il maggior peso di questa perdita, perché era di grande aiuto alla nostra missione.


[390]
Ma sia benedetto mille volte il Signore. Noi per questo lungi dal perdere il coraggio, non risparmieremo fatiche e sudori per cooperare alla conversione dell'Africa, e per realizzare il gran piano del nostro Superiore, il quale è il mezzo più acconcio per trarre dalle tenebre e dalle ombre di morte questa gente*, sul cui capo pesa ancora la maledizione fulminata dal più antico dei Patriarchi ai figliuoli di Cam, anche se questo mezzo si esamini qui sulla faccia del luogo.


[391]
Sennonché io m'immagino che in Verona sorgeranno delle dicerie per la morte del nostro confratello D. Fran.co. Era ben meglio, diranno, che rimanesse professore e prendesse 700 fiorini all'anno, di quello che se n'andasse nell'Africa Centrale a lasciarvi la vita. E chi sa quante ne aggiungeranno. Ma bisogna che il mondo cianci a sua posta. Dopo che le cose sono succedute si parla di quel che si dovea far prima. Sì, allora è un bel parlare. Ma noi ragioniamo in modo affatto diverso.


[392]
Dio, che regge le sorti dell'uomo, lo chiamava nell'Africa, e voleva che qui nulla facesse per la Missione. Egli ci ha pensato più di 10 anni, ha preso consiglio etc. etc. ed egli se ne partì da questo mondo col sorriso sulle labbra e colla gioia nel cuore, ringraziando il cielo che l'avea fatto degno di morire per Cristo. Sia in eterno benedetto il Signore.


[393]
Io avrei molte cose a narrarvi; ma la morte del nostro D. Checco portò sulle mie spalle un peso maggiore, ch'io porto però volentieri, e voi me ne avrete per iscusato, pensando che anche l'animo un po' al momento conturbato me ne toglie la memoria. Il primo che fu colto da malattia, fui io nella tribù degli Scelluk in barca, e fu una ardentissima febbre: ma Dio volle liberarmi. Il secondo fu D. Francesco e morì; il terzo fu D. Beltrame, ed ora sta bene; il 4º. Isidoro nostro artefice, ed ora è convalescente. Tutti insomma siamo stati segnati dal clima africano: ma sia benedetto Iddio. Voi starete bene; così pure la vostra famiglia, e l'amabile Sig.ra Annetta.


[394]
Aveva intenzione di scrivere al pregiat.mo D. Bortolo; ma per ora non posso: intanto riveritemelo distintamente. Quando mi scrivete non impostate le lettere, perché deve pagare lo stesso a Khartum il nostro Procuratore. Io pure non le faccio impostare; perché a tutte le maniere a voi toccherà certo a pagare. Così ben intesi, scrivetemi, spesso, magari se il Sig.re vi spira ogni vapore, che parte da Trieste ai 10, e 27 di ciascun mese.

Addio, mio carissimo; persuadetevi che io sarò sempre



Il V. affez.mo amico

D. Daniele Comboni






37
Don Pietro Grana
0
dai Kich
27. 3.1858
A DON PIETRO GRANA

ACR, A, c.15/40



Cariss.mo mio D. Pietro!

Dalla tribù dei Kich, 27/3 = 58
[395]
Quando io scriveva la qui unita lettera, noi eravamo tutti sani e robusti. Chi avrebbe mai pensato che ieri venisse a mancare il più robusto fra noi? D. Fr. Oliboni, dopo aver sospirato dieci anni questa benedetta Africa, alla prima febbre che l'incolse, ne rimase vittima. Sia benedetto per sempre il Signore: egli moriva rassegnatissimo, e con quella gioia, che sorride sul volto di chi sta per essere ammesso alle nozze eterne del Paradiso. Il primo che fu colto dalla febbre fui io; ma coll'aiuto del cielo, e col metodo preventivo l'ho superata per ben tre volte.


[396]
Il 2º. fu D. Oliboni; il terzo D. Beltrame, e temo che debba godersi la febbre per più mesi: egli si era già avvezzato. Il 4º. è il nostro artefice, ed ora è convalescente. Sia benedetto il Signore. Desidero notizie dell'attual sua posizione. Il Signore la prosperi, la benedica, e benedica il suo amato gregge. Tali sono i voti del



Suo affez.mo amico

D. Daniele






38
Suo padre
0
dai Kich
29. 3.1858
A SUO PADRE

AFC



Carissimo Padre!

Dalla tribù dei Kich nell'Africa Centrale

29 marzo 1858
[397]
Fino al giorno 26 corr.te a tutti quelli a cui scrissi in Europa, io attestai sempre con verità, che noi tutti godiamo della più perfetta salute; e già ne ringraziavamo il cielo. Ora bisogna che io muti scena, e che adoperi diverso linguaggio, perché il Signore, Dio delle misericordie, veramente cominciò a trattarci da veri suoi servi ed apostoli. Oh! sia benedetto in eterno il Signore.


[398]
Taccio che il primo colpito dalla febbre terribile africana fui io nella tribù degli Scelluk, mentr'era in barca; e dopo sei giorni rimasi guarito: taccio che ne furono colpiti D. Giovanni, ed il fabbro ferraio Isidoro, i quali pure felicemente la superarono: e noi fummo fortunati, mentre molti Missionari dell'Africa Centrale della Società di Maria perirono al primo assalto di febbre, che generalmente è il più fatale. Ma a Dio piacque di visitarci più davvicino.


[399]
Non vi spaventate, caro Padre; la bell'anima di D. Fran.co Oliboni volò a congiungersi al suo Dio, pel quale avea abbandonato e padre, ed una delle più cospicue cattedre del Liceo di Verona, e la patria. Sia benedetto in eterno il Signore. La sera del giorno 19 dedicato a S. Giuseppe, egli si sentì aggravata la testa ed un insolito disturbo allo stomaco; parea cosa piccola; e non si risolse che a prendere un po' di magnesia e tamarindo. Il 20 non sentendosi punto sollevato, fu ridotto a prendere un po' di olio di ricino, dopo il quale si sentì guarito. Il suo polso però nulla mi piaceva, così pure il suo respiro.

Egli fin dal 19 sentì che doveva assolutamente morire; e dispose tutte le sue cose, e tutte le sue faccende come se avesse il giorno dopo a morire. Il giorno 22 fu colpito da terribilissima febbre, che lo portò sulle ultime; per cui veggendo il suo male aggravato domandò i SS.mi Sacramenti.


[400]
Fin dal mattino si era confessato e comunicato: prima però di prendere l'estrema unzione, chiamati tutti noi al suo piccolo angareb (che ci serve di letto) con quell'eloquenza che è sua propria, e con quella forza e veemenza che gli dettava lo spirito di Dio sul punto di morte, ci fece una parlata; una raccomandazione di star saldi e forti nella grande impresa, di realizzare il gran piano del Superiore, di amare il Superiore col non venir meno a suoi disegni per la gloria di Dio, di non risparmiare fatica per redimere anime al cielo etc. etc.


[401]
Addio! diceva; sulla terra non ci vedremo più, ma io sarò sempre con voi unito collo spirito, pregherò Iddio per voi, per la nostra Missione, e saremo sempre fratelli indivisibili collo spirito; Addio! Poi intrepido, egli stesso rispose alle preci della chiesa, e ricevette l'olio santo, dopo il quale poco a poco in men di due ore passò la febbre e stette assai bene. Egli non aveva avuto mai salasso in sua vita e quindi non cedette mai alle nostre preghiere di farsi trar sangue, credendo di restare sotto il salasso. Appena venne a star male il giorno 22, egli stesso lo domandò; ma prima volle l'olio santo.

Io, avendo conosciuto che avea da tempo una piccola infiammazione di petto, acquistata specialmente dai disagi del viaggio, unitamente ad un gastricismo che avea da molt'anni, acconsentii benché fosse un po' tardi, e gli diedi, subito dopo l'olio santo, il primo salasso, dopo il quale cessò la febbre, ed alla mattina seguente, il secondo.


[402]
Il giorno 23 lo passò assai bene; e noi non eravamo capaci di persuaderci che dovesse morire: ma egli, sarà, dicea, ma debbo morire. Il giorno 24 venne colpito di nuovo dalla febbre con maggior veemenza che nel 22, e sulla sera gli demmo la benedizione Papale, dopo la quale si trovò meglio, ma la febbre non cessò più, anzi cominciò un'irruzione di migliara, la quale io favorii con tutti i mezzi che suggerisce l'arte medica; ma l'infermo continuava sempre in un'alternativa di bene e male, finché la mattina del 26 si sentì addosso tutti i mali possibili. Ma come fare qui a portargli sollievo, a ristorare il suo ardore, che manca il ghiaccio, che solo mi sarebbe bastato per governare la migliara?


[403]
Ma Dio lo chiamava a sé. Noi dolenti cominciammo a rassegnarlo a Dio, quantunque la sua perdita ci recasse il più gran danno; dovendo ora la grande impresa affidataci da Dio, riposare sopra le inferme spalle di soli tre: ma Dio può tutto: sia benedetto. Crescendo il male a mezzogiorno, mentre tutti tre lo assistevamo, egli fu trasportato al delirio, nel quale perdurò circa due ore: poi cadde in mortale agonia, e alla vista di tutti e tre, dopo mille conforti datogli, mille lagrime sparse, spirò nel bacio di Dio alle 5 pomeridiane del giorno 26 marzo nell'età di 33 anni, meno tre giorni.


[404]
Perfetta rassegnazione, viva fede, ferma fiducia, pietà ammirabile, ardente brama di congiungersi indivisibilmente al suo Dio, furono i sentimenti e gli affetti, con cui si dispose all'estremo passaggio. Chi lo conobbe vivente, chi sa quali doti e virtù adornavano lo spirito di Lui, può immaginare quanto dolore e quanto danno ci abbia recato la sua perdita. Pure sia fatta in eterno la divina volontà!


[405]
Egli non dormì quasi mai, che tre ore alla notte, il resto della quale impiegava nell'orazione e nella meditazione; digiunava aspramente: passò tutto il deserto della Nubia col bere un semplice caffè senza zucchero alla mattina; e colla sola cena alla sera, senza altro gustare né acqua né cibo di sorta. Oltre il proprio Ufficio Divino, recitava ogni giorno i Salmi Penitenziali, i Salmi graduali, l'ufficio della feria, senza mettere il resto dell'orazione che faceva in comune con noi; era il più pacifico fra noi, sempre mite, sempre dolce, insomma era un santo. Anzi ebbe la sorte di morire, come G. C. nacque, nella stalla, perché giunti alla tribù dei Kich altro non ci fu dato, che una stalla destinata per le vacche, ove stemmo tutti cinque dal 18 Febbraio fino al 26 marzo.


[406]
Alla mattina del 27 D. Angelo ed io lo lavammo e lo vestimmo, lo ponemmo in cassa, e l'inchiodammo; fatti i funerali lo accompagnammo al sepolcro, che facemmo scavare nella vicina foresta, e fatta una breve biografia la ponemmo in una bottiglia ben sigillata, e questa in altra più grande e ben sigillata, lo seppellimmo, apponendo sul sepolcro una Croce. Dopo qualche notte la iena scavò fino alla cassa due volte per divorarlo; ma la cassa essendo durissima non potè far nulla. E' morto adunque un nostro fratello, padre carissimo, e la sua morte lungi dall'intimorirci, ci porge anzi maggior coraggio per istar saldi nella grande impresa.


[407]
Non dubitate; caro Padre, io sono venuto Missionario per faticare alla gloria di Dio e consumare la vita pel bene delle anime: se anche mirassi caduti tutti i miei compagni, quando la prudenza od altre cause non mi consigliassero il contrario, io starò saldo e metterò ogni sforzo per realizzare il gran piano del Superiore. Vi prometto peraltro, ed è regola che abbiam noi Missionari, che qualora scorgiamo apertamente che è impossibile alle nostre forze fisiche resistere sotto questi climi, con qualche spedizione ritorneremo a faticare nelle patrie contrade. Ma faccia il Signore. Voi frattanto state allegro, non temete; una vittima fra noi quattro la si prevedeva: sia fatta la volontà di Dio.


[408]
Abbiamo mandato a chiamare il capo della tribù dei Tuit, affine di risciacquarlo e tastarlo per istabilirci nella sua tribù; gli abbiamo fatto dei doni, ed egli rispose che andiamo nella sua tribù quando vogliamo, e per tutte le capanne, fuorché nelle sue. E perché rispondemmo non vuoi che entriam nelle tue? perché, rispose, nelle mie vi è uno spirito che divora gli uomini. Noi tel cacceremo, soggiungemmo; è impossibile, disse, ei divora tutto. Vedremo. Ho cominciato fin da quando giunsi ai Kich l'esercizio della medicina; e sapete il complimento che mi tocca ogni momento con questa gente*? Appena bevuta la medicina questi neri mi prendono le mani e vi sputano dentro, poi gentilmente e graziosamente mi sputacchiano le spalle e le braccia; ed una volta che rifiutai, una donna mi piantò gli occhi nel viso che parea volesse mangiarmi.

Questi sputacchiamenti è il segno più vivo di gratitudine fra questo popolo*. Qui v'è un'immensa quantità di zanzare che tormentano assai, ma peggio sarà al tempo delle piogge. E' una cosa meravigliosa il guasto che qui recano le formiche; una capanna non può durar più di un anno, perché distrutta dalle formiche. Il primo giorno che ponemmo le nostre casse nella capanna, vennero subito investite dalle formiche e se non fosse una continua diligenza in noi che distruggiamo le loro case fabbricate entro il legno, esse a quest'ora ci avrebbero divorato le casse. Basta che vi dica che in tutte le pianure dei Kich, per lo spazio di più di 400 miglia vi sono monticelli di terra, della grandezza della camera ove voi dormite, formati da formiche, e ve ne sono centinaia di migliaia e più, perché uno ogni 10 passi.


[409]
Quanto a questa tribù, vi dirò che è sommamente paurosa, indolente, bizzarra; le sue pianure hanno un terreno feracissimo, e potrebbero in mano d'una colonia europea essere un paradiso terrestre, ma invece non produce che spine, perché gli abitanti non le coltivano: i Kich si contentano invece di patire una fame indicibile piuttosto che lavorare. Le mandre di vacche non sono che di pochi proprietari: essi, cioè i Kich vivono solo di frutti di alberi, assai più rozzi delle nostre more. Stanno sotto questi calori i tre i quattro giorni senza mangiare, e poi si saziano di questi frutti, e di qualche ladroneggio praticato. Vedete a' quali miserie van soggetti coloro, che non vennero illuminati dalla fede. Quindi vedete sempre questa gente* senza far nulla colla sua lancia in mano.

Qui v'è poi una quantità di ragni e scorpioni. Anzi il giorno che morì D. Francesco, mi cadde dal tetto uno scorpione, e mi diè una solenne beccata nel dito. Io presi la lancetta, feci un taglio nel luogo ove fui beccato dallo scorpione, vi apposi l'ammoniaca, ed in dieci minuti guarii. Vi devo ancora dire, che a me che piace tanto il latte, non son capace di mangiarne che qualche rara volta, perché tante migliaia di vacche, che son qui, appena appena possono dare il latte alle loro vitelle, che stanno alla poppa un anno e mezzo. La causa io dico esser questa: la scarsezza dell'erba: sono tutte spine; e di queste si nutrono le vacche.


[410]
E' una cosa stupenda qui nel Centro dell'Africa i temporali e le bufere. Sono tanto terribili i temporali che si formano tutto in un colpo, che atterrano alle volte capanne, alberi etc. Così pure compariscono nell'aria dei vortici di polvere fatti a cilindro, che girano rapidamente. Ma basta. Caro Padre; pregate il Signore per me, e per noi; Dio vi benedirà certo. Sapete che il Signore non premia se non coloro che sono suoi servi. Voi lo siete, perché avete abbracciata la sua Croce. Abbracciatela, stringetevela al seno, baciatela, che è il più prezioso tesoro. Del resto state allegro, tranquillo, divertitevi. Anzi voglio assolutamente che continuiate a suonare, perché quando io ritorno a Verona, se non muoio, voglio sentirvi a suonare.


[411]
Furono cinque le febbri da me superate, le quali, a dire il vero, mi furono poco care: ma sia fatta la volontà di Dio. Vi avverto poi a star allegro, quantunque forse dovrò star molto tempo senza poter mandarvi lettere per mancanza di occasione. Forse la troverò, se qualche barca nubiana verrà da queste parti: ma potrebbe darsi di no. Dunque faccia il Signore; io leggo sempre le vostre lettere scritte fin dal principio per sollevare lo spirito; voi leggete le passate mie, e così sarà come se presentemente le riceveste.


[412]
Godo moltissimo che abbiate provato gran gioia per essere io stato a visitare la terra Santa. Oh! anch'io, caro Padre, l'ho sempre in mente quella terra di misteri, e col mio pensiero passeggio sempre in quei luoghi; e specialmente ora, che è la settimana Santa, io ha dinanzi allo spirito il luogo di tutti i misteri della Passione di Gesù Cristo.


[413]
Basta che vi dica che non si possono esprimere a parole i sentimenti che si provano nel calcare quella terra santificata dalla presenza adorabile del Redentore! Ma basta caro Padre. Addio! State sempre allegro, pensate a me, che io penso sempre a voi, ed al vostro bel sacrifizio. Leggete le lettere che vi spedisco, e poi sigillatele e speditele al loro destino. Per non [.......] gravarvi la spesa della posta, molte lettere le ho spedite a Verona, da dove vi capiteranno.


[414]
Le spedii alla Sig.ra Rosina Faccioli in Sartori in Cittadella in Verona, che può pagare, e paga volentieri. Il resto a voi, e mi dispiace che sorte un plico troppo grosso. Ma sia fatta la volontà di Dio. Addio, carissimo Padre; salutatemi tutti i Parenti, gli amici; riveritemi il Consigliere, l'Economo Spirituale etc. etc. e mentre a tutti e due io do la santa benedizione, vi do anche mille baci di amore



Vostro affez.mo figlio

D. Daniele Comboni

Miss.o Apost.co nell'Africa Centrale



NB. Vi partecipo che noi tre stiamo egregiamente bene di salute, e speriamo d'esserlo in avvenire perché già cominciarono le piogge. Finora non avete veduto vostro figlio che come semplice viaggiatore; in avvenire lo vedrete missionario, e vi darà continue notizie della nostra missione. Addio.






39
Suo padre
0
dai Kich
20.11.1858
A SUO PADRE

AFC



Mio dolce ed amatissimo Padre!

Dalla tribù dei Kich, 20 novembre 1858
[415]
Correvano già sette mesi dacché non potea scrivervi e spedirvi una riga, stanteché i venti del Sud impedivano alle navi dei negozianti di Khartum d'avanzarsi oltre l'impenetrabile barriera delle folte boscaglie che dividono i paesi del dominio egiziano nella Nubia dalle tribù dei negri, in mezzo alle quali noi dimoriamo. Quand'ecco un battello a vapore, già fin dal 1857 partito da Cairo, quando noi eravamo ancora in Alessandria d'Egitto, sotto la condotta di Monsieur Lafarque negoziante francese in avorio; solcando per la prima volta la famose acque del Fiume Bianco, ci recava un gran fascio di lettere d'Europa, tra le quali le carissime vostre che mi annunziavano la morte della mia cara genitrice....


[416]
Ah! dunque la mia madre non è più?... Dunque l'inesorabil morte troncò il filo ai giorni della mia buona madre?... Dunque voi siete ridotto solo soletto, dopo avervi veduto attorno una volta la felice schiera di sette figli, accarezzati ed amati da colei, cui Dio trascelse ad esser la compagna indivisibile dei vostri giorni?.. Sì; la cosa per divina misericordia è pur così. Sia benedetto in eterno quel Dio che volle così: sia benedetta quella provvida mano che si è degnata visitarci in questa terra di esilio e di pianto.


[417]
Oh! dolcissimo Padre mio! con quale lingua dovremo noi ringraziare la divina misericordia, che, malgrado i nostri demeriti, si degna di riposare con noi, di visitarci, di ricolmarci di benefizi?... La mia anima rimase oltremodo consolata allorquando lessi la vostra cristiana rassegnazione al beneplacito divino, che volle separarvi da quanto al mondo formava la vostra felicità. So che a certi momenti la debolezza dell'umana natura vi fa soccombere sotto il peso d'una grave malinconia: ma so ancora che la grazia del Signore, la preziosa assistenza della Vergine Immacolata, e l'efficace parola di quelle pietose anime che vi portano vero affetto, vi sollevano a più nobili pensieri, e fan sì che abbiate a lodare e benedire quella mano, che benefica si degnò visitarvi.


[418]
Sieno grazie adunque all'Altissimo che i pensieri di me e di voi felicemente s'accordano! Dio ce la diede quella buona madre e consorte; Dio ce la tolse. Noi dunque facciamo di lei un generoso sacrifizio al Signore, e godiamo sommamente perché Dio volle chiamarla a sé, per darle un premio ben meritato di quei patimenti e sacrifizi che ella sostenne durante la sua vita, e perché volle pietosamente porgere a noi una felice occasione di patire qualche cosa per amor suo. Sì, padre mio carissimo; ella ha finito di piangere su questa terra; ed ora finalmente si trova al possesso della gloria del cielo, a dividere co' suoi sei figli la gioia di un Paradiso che mai finirà, aspettando che noi, vinta la lotta di questo temporal pellegrinaggio, andiamo a congiungerci insieme con essi.


[419]
Io esulto di gioia, perché ora ella m'è più vicina che prima; e voi pure rallegratevi, che il Signore vuole esaudire i fervidi voti dei nostri cari, che ora pregano per noi e per la nostra salvezza al trono di Dio. Esultiamo ambedue, e direi quasi gloriamoci a vicenda, perché Iddio per sua infinita misericordia pare che si degni di farci sentire e mostrarci i contrassegni infallibili, ond'egli quai suoi teneri figli ci ama, e ci ha predestinati alla gloria. Noi siamo sommamente avventurati, mentre Dio ci largisce, e benignamente ci porge mezzi ed occasioni di patire per amor suo.


[420]
Che sia così, volgete uno sguardo all'ordine della Provvidenza, al modo che tiene Iddio verso dei fedeli suoi servi, cui predestina all'eterna beatitudine. La Chiesa di Cristo cominciò sulla terra, crebbe e si propagò tra le stragi e i sacrifizi dei suoi figli, tra le persecuzioni e tra il sangue de' suoi Martiri e Pontefici. Lo stesso suo Capo e Fondatore G. C. spirò sopra di un infame patibolo, vittima del furore d'una crudele ed empia nazione: i suoi Apostoli subirono la medesima sorte del Divino Maestro.


[421]
Tutte le Missioni, ove si diffuse la Fede, furono piantate, s'accrebbero, e giganteggiarono nel mondo tra il furore dei principi, tra i patiboli, e le persecuzioni che distruggevano i credenti. Non si legge di verun santo, che non abbia menato una vita tra le spine, i travagli, e le avversità: delle stesse anime giuste che noi pur conosciamo, una non v'ha che non sia tribolata, afflitta, e disprezzata. Oh la palma del cielo non si può acquistare senza pene, afflizioni e sacrifizi; e quelli che si trovano visitati con questa sorta di favori celesti, possono a buon diritto chiamarsi beati su questa terra, mentre godono della beatitudine de santi, pei quali fu somma delizia il patire gran cose per la gloria di Cristo.


[422]
E questi speciali favori, queste sublimi prerogative colle quali a Dio piacque di contraddistinguere i suoi servi, per discernerli dalla turba innumerabile dei figliuoli del secolo, che si studiano di erigere su questa terra la piena loro felicità, questi favori e prerogative per sua misericordia Iddio si compiacque di mostrare anche a noi. Ma noi non siamo degni, o padre carissimo, di tanti doni; non siamo degni di patire qualche cosa per amore di Cristo.


[423]
Ma Dio, che è Signore di tutte le cose, vuol beneficarci oltre ogni nostro merito. Coraggio adunque, amatissimo padre mio, oggimai siamo nel campo di battaglia in mezzo alla milizia di questa misera terra; oggimai ci troviamo assaliti dai più tremendi e furibondi nostri nemici: l'umana miseria vuole indurci a cercare quaggiù una peritura felicità; e noi combattendo da eroi, abbracciamo con generoso animo le avversità, i patimenti, l'abbandono.


[424]
L'umana miseria s'adopera a toglierci la pace del cuore, e la speranza d'una vita migliore; e noi al fianco di G. crocifisso che patisce per noi, tripudiamo in mezzo all'avversa fortuna, mantenendo intatta quella pace preziosa, che solo appiè della croce e nel pianto può trovare il vero servo di Dio. Siamo nel campo di battaglia, vi ripeto, e bisogna combattere da forti. A grandi premi e trionfi giungere non si può se non per mezzo di grandi fatiche, travagli e patimenti. Ci sia adunque di sprone e ci consoli la grandezza del premio che ci aspetta nel cielo; ma non ci sgomenti e non ci atterrisca la grandezza e la difficoltà della pugna.


[425]
Abbiamo al nostro fianco il medesimo Cristo che combatte e patisce per noi e con noi; e noi fiancheggiati ed assistiti da sì generoso e potente Capitano e Signore, non solamente potremo sostenere con gaudio e costanza quei travagli e patimenti che il Signore ci manda, ma sarà nostro perenne esercizio il chiederne di maggiori, perché solo con questi, e col disprezzo di tutto il mondo, si può fare acquisto dei preziosi allori del Cielo.


[426]
Coraggio, sempre vi ripeterò, che ancor poco ci resta ancora di vita, che la scena lusinghiera e vana di questo mondo presto dai nostri occhi si dilegua, e siamo per entrare nella interminabil scena dell'eternità che ci aspetta. A corroborare poi quanto ora vi dico, eccovi tre detti dei santi, coi quali io voglio convincervi che noi siamo avventurati su questa terra, allora specialmente che Dio vuole che appressiamo le labbra al calice delle avversità e delle tribolazioni.


[427]
S. Agostino afferma, che è indizio d'essere predestinati alla gloria dei Beati, il soffrire uno gran cose per G. C., e l'essere tribolato in questa vita: Coniectura est, cum te Deus immensis persecutionibus corripit, te in electorum suorum numerum destinasse.


[428]
Il Crisostomo asserisce essere una grazia veramente somma l'essere riputati degni di patire qualche cosa per Cristo; è corona veramente perfetta; è una mercede non inferiore alla mercede del Paradiso: est gratia vere maxima dignum censeri propter Christum aliquid pati: est corona vere perfecta, et merces futura retributione non minor.


[429]
S. Pietro d'Alcantara poi, dopo aver passato il corso della sua vita fra i triboli e le spine, pochi giorni dacché era spirato nel bacio del Signore apparve a S. Teresa nella Spagna, e così le parlò: Oh felice penitenza, o soavi patimenti e travagli, che tanta gloria mi hanno meritato: O felix poenitentia, quae tantam mihi promeruit gloriam! Così la discorrono i figliuoli di Dio: così la intendono i veri seguaci di Cristo.


[430]
Intendiamola così anche noi; gettiamoci totalmente fra le braccia amorose della Provvidenza divina, e combattiamo valorosamente fino alla morte all'ombra del glorioso vessillo della Croce; e la preziosa corona dell'eterna retribuzione è per noi.


[431]
Ora che vi scrivo io godo una perfetta salute. Dal 6 di aprile fino alla metà di agosto il Signore si degnò di visitarmi con fortissime e lunghe febbri che m'aveano estenuate le forze all'estremo, ma dopo la metà di agosto mi ristabilii in modo, che nel settembre potei intraprendere un viaggio ai Gogh nell'interno all'occidente del Fiume Bianco. Il giorno dopo ricevute le lettere d'Europa, cioè ai 14 corr.te fui assalito da fortissima febbre che durò 5 giorni continui, e pensai bene di mettere al sicuro l'anima mia.


[432]
Sennonché anche questa volta Dio non mi volle con lui. La stessa sorte di me ebbe il carissimo D. Angelo. D. Beltrame poi, nostro Superiore, ad eccezione di poche e leggere febbri sofferte al principio delle piogge, godette e gode d'una prospera salute. Sia benedetto il Signore. Ora ci troviamo tutti e tre veramente sani, e preparati a faticare colla divina grazia per la gloria di Cristo.


[433]
Io avrei molte cose da dirvi su questi paesi, su quello che abbiamo fatto ed intendiamo di fare in avvenire: ma di questo vi scriverò con più quiete, quando le nostre occupazioni ci permetteranno di farlo. Per ora sappiate che, essendo morti in soli quattro mesi cinque Missionari, tra i quali il Provicario Apostolico D. Ignazio Knoblecher, e D. Joseph Gostner Presidente della Stazione di Khartum, le quali morti hanno molto scemato gli Operai evangelici di queste missioni, le circostanze chiamano alcuni e forse tutti noi a Khartum, la cui Missione ora poggia sulle spalle del nostro Procuratore D. Alessandro.


[434]
E' morto altresì il fabbro ferraio, che noi abbiamo condotto da Verona. Sia benedetto il Signore. Non vi spaventate. La vita nostra è nelle mani di Dio. Ei faccia quel che vuole: noi l'abbiamo con irrevocabile dono sacrificata a Lui. Sia benedetto. Dalla sera alla mattina qui si muore. Non si ha tempo qui da apparecchiarsi per morire; bisogna essere sempre apparecchiati. Una febbre in poche ore vi riduce all'ultimo della debolezza sull'orlo del sepolcro. Dunque pregate per noi che possiamo trovarci sempre in grazia di Dio, e pronti a morire da un momento all'altro.


[435]
Ho ricevuto ai 13 corr.te tutte le vostre lettere e quelle della mamma dal dicembre dello scorso anno fino ai 7 di agosto del corr.te. Ho ricevuto ancora due lettere del Parroco di Voltino, una di Ant.o Risatti, una del Caporale etc. ed un gentile biglietto del Signor Pietro Ragusini, le quali mi furono carissime. Salutatemeli tutti di cuore; e quando avrò tempo scriverò a tutti. D. Giovanni, e D. Angelo m'impongono di salutarvi di tutto cuore; spesso discorriamo di voi.


[436]
Oh! la vostra sorte di poter soffrire per Xsto è veramente invidiabile! Salutatemi e riveritemi la famiglia Patuzzi, D. Bem, e specialmente il Sig.r Luigi, il Sig.r Beppo, l'amico Ant.o Risatti, il Sig.r Dottore il Sig.r Candido, il gentilissimo Sig.r Pietro, e suo zio Sig.r Bortolo Carboni, il Checcho e Barbara Rambottini che ricordo sempre con compiacenza, il Pittore, il Sig.r Consigliere e sua famiglia di cui ricevetti lettera, l'Arciprete di Tremosine, D. Luigi, il Parroco di Voltino, a cui certo scriverò, la Sig.ra Mariana Perini, Bettanini di Bassanega, i giardinieri del Tesolo e di Supino, la Sig.ra Minica e figlie, le buone famiglie di Pietro Roensa, Carlo, Sig.r Vincenzo Carettoni, D. Pietro Grana, i nostri parenti di Limone per parte della mamma, di Bogliaco, e di Maderno, il famoso Caporale, cui saluta anche D. Angelo, etc. etc. il Salsani etc. etc.


[437]

Addio, carissimo Padre. Il Signore sia con voi in eterno. Tali sono i voti di colui che v'ama: tali i sospiri di colui, che abbracciandovi affettuosamente, e dandovi mille baci di amore si dichiara



Vostro affez.mo e grat.mo figlio tutto povero

D. Daniele Comboni Servo dei negri

nella povera Africa Centrale


 


[438]
N.B. Non vi dispiaccia di ricevere questi due santini qui chiusi per memoria di me. Con questi io vi ho consacrato alla Patrona e Regina della Nigrizia Maria Vergine Immacolata. Nelle mani di questa voi state meglio che se foste assiso sul trono di un grande impero. Ella vi conforti per sempre.

L'altro santino nero qui incluso datelo allo zio Giuseppe. Vi partecipo pure che ho celebrate per voi e per la povera mamma Nº 56 Messe che servono per le vostre anime e siccome aveva un presentimento che la mamma fosse morta, cominciando dal 17 di luglio io applicai per lei in particolare Nº 17 Messe, del che ora mi godo. Il giorno dopo arrivate le lettere d'Europa, D. Giovanni volle che tutti noi celebrassimo la S. Messa per l'anima della Mamma. Lasciate poi fare a me a caricarla di messe in avvenire, quando potremo celebrare. Io però le applico sotto condizione, qualora ne abbia bisogno, perché altrimenti intendo che le mie Messe vadano a benefizio di voi e delle anime dei nostri consanguinei defunti. Ella è in Paradiso che prega per noi. Addio, mille volte addio nel nome di G. C.


[439]
Quanto a quelli che bramassero stampare le nostre relazioni come udii da alcune lettere che mi giunsero è cosa inutile, mentre il nostro Istituto fa stampar tutto, come fece finora che stampò ogni cosa che scrivemmo e che aveva qualche importanza.


[440]
Quando si presenterà l'occasione propizia spediamo all'Istituto un dente di elefante. Sono animali smisurati che giammai si videro: l'elefante che avea questo dente fu ucciso ai Gogh, ove D. Giovanni ed io peregrinammo nello scorso settembre: questo dente è Nº 121 rotoli, che corrisponde a più di 6 pesi bresciani. Oh! le fiere e il selvaggiume, che qui si vede! certo che il Sig.r Ventura Girardi diverrebbe imparadisato in mezzo a queste solitudini, egli che sogna perfino di notte gli uccelli, ed i volatili. Ma basta.


[441]
N.B. Un ricordo ancora vi lascio; ed è la famosa e verace sentenza di Cristo: meditatela bene, ed abbiatela sempre a memoria, ché è ben degna che noi la veneriamo. Ella è questa:

BEATI QUI LUGENT: e vuol dire: Beati quelli che piangono.






40
Eustachio Comboni
0
dai Kich
24.11.1858
A EUSTACHIO COMBONI

AFC



Amatissimo mio cugino!

Dalla tribù dei Kich, 24 novembre 1858
[442]
Eustachio mio! sono senza madre!... Una volta l'aveva; ma ora non l'ho più... Benedetto sia il Dio delle misericordie, a cui piacque di ricordarsi di me!... Quantunque con piè risoluto io abbia volte le spalle al mondo affine di assicurare la salvezza dell'anima mia consacrandomi ad uno stato di vita, affatto simile a quella di Cristo e degli Apostoli, quantunque colla grazia divina abbia vinto la natura, separandomi da quanto avea di più caro al mondo per servire più liberamente al Signore, nulladimeno sentii vivamente i latrati della fragile natura, e piansi amaramente la gran perdita.


[443]
Ma sia benedetto in eterno il Signore! Egli ha voluto così: io adoro umilmente i suoi divini decreti. A Lui piacque di chiamare a sé la povera mia genitrice, della quale ricordo l'affetto che mi portò, e la pena ed i sacrifizi che poveretta ha fatto per me: a Lui piacque di lasciare in un doloroso isolamento il mio caro Padre, il quale benché rassegnato al divin beneplacito, pure la sua grande sensibilità lo porta e trascina in profonda malinconia.


[444]
Ma Dio vuole così: sia benedetto; questo mi conturba assai: la perdita della madre; l'isolamento del padre. Ma scuotiti, o anima mia, dal tuo letargo: solleva in alto lo sguardo, ché l'uomo non è fatto per questa terra. Oh! questo dolce pensiero, Eustachio mio carissimo, è quello che non solamente dilegua dal mio spirito ogni nebbia di turbamento; ma ricolma l'anima mia d'ineffabile letizia.


[445]

Sì, ringrazio il Signore che ha visitato me, e mio Padre. Non ho forse io abbandonato il mondo per servire al Signore? Mio Padre non m'ha forse dato un generoso assenso, all'unico scopo di obbedire alla volontà di Dio, e così avere novella occasione di sacrificare il suo spirito a Dio per salvarsi l'anima? La via più retta e sicura per conseguire la salvezza dell'anima, non è forse quella della tribolazione, del patire, del negar se medesimi, sacrificando a Dio ogni idolo del proprio cuore?
 


[446]
Sì, mio caro cugino; quella maschia sentenza del Salvatore: Quid prodest homini etc. "Che cosa giova all'uomo guadagnare tutto il mondo, se poi perde l'anima sua? e se la perde, che cosa potrá dare l'uomo in cambio per riacquistarla?..." questa maschia sentenza, io dico, la quale trionfò di tante anime, che prima erano invischiate nelle cose del mondo, che salvò dalla morte eterna tanti idolatri dei beni e delle ricchezze di questo secolo; questa sentenza, ripeto, che tramutò il cuore a tante anime, che voleano fabbricarsi una felicità su questa terra, che guadagnò tante anime alla Croce, questa sentenza pronunciata dall'infallibile verità eterna, vestita delle misere spoglie dell'umana natura per additarci la via del cielo, è quella che incoraggia il mio spirito, che lo solleva al di sopra della cose di questa terra, che mette nella mia anima desideri di novelle avversità, perché sono troppo convinto, che queste sono il più bel mezzo per trionfare del mondo, e guadagnar Dio.


[447]
Sia dunque benedetta quella mano che ci purga al crogiuolo della mortificazione, delle calamità e tribolazioni di questa misera vita, la quale finalmente non è che un soffio che presto si dilegua. Resta ancor poco a vivere per me, e pel padre mio; e se volete che ve lo dica, ancor per voi: siamo oggimai vecchi e presto bisognerà render conto dei talenti che il Signore ci ha dato. Tutta la mia fiducia adunque è in Dio, che vede tutto, che può tutto, e che ci ama.


[448]
Sennonché, non crediate che tutto riferendo a Dio, non abbia io ad apprezzare le sollecite cure che gli uomini hanno e si prendono per amore di Dio. Il Signore si serve degli uomini come di cause seconde per venire a capo de' suoi divini disegni. Sì, di voi, o carissimo cugino, e della vostra famiglia si serve il Signore per consolare la desolata anima di mio Padre.


[449]
Oh! quanto rimase tocca l'anima mia da sentimenti di affetto e gratitudine verso di voi e della famiglia, quando intesi dalle lettere di mio Padre, i tratti di amore che avete usato verso di lui nei momenti più critici della perdita che io ed egli fa....



(lettera incompleta)