Martedì 16 novembre 2021
Il grande tema emerso dalla COP26 a Glasgow è quello della giustizia climatica. Non era esplicitamente sul tavolo all’inizio dei lavori, ma covava sotto la brace delle richieste degli Stati del Sud geopolitico per un riequilibrio dei fondi destinati alla mitigazione delle emissioni di gas serra – priorità per il Nord globale – e quelli per l’adattamento agli impatti della crisi climatica, il problema più urgente per i paesi del Sud. Per esempio, l’Africa rischia di perdere il 15% del suo PIL di qui al 2030 facendo cadere 100 milioni di africani al di sotto della soglia di povertà.

A Glasgow è servita una fine mediazione diplomatica tra posizioni polarizzate tra Nord e Sud per arrivare ad un consenso su un documento ben lontano dal risolvere la crisi climatica, ma che mantiene viva la speranza di raggiungere l’obiettivo di limitare l’incremento di temperatura a 1,5°C sopra la media dell’epoca pre-industriale.

Gli stati del Nord spingono per investimenti nelle energie rinnovabili, per eliminare il carbone e i sussidi ai combustibili fossili, per la protezione delle foreste e la riforestazione, per la transizione ai veicoli elettrici ed al trasporto di merci a zero emissioni; come anche per creare le condizioni per gli investimenti privati per mobilitare i finanziamenti della transizione verde. Sono consapevoli che è necessario intervenire e vedono negli investimenti per la transizione ecologica un’opportunità di crescita.

Gli Stati del Sud geopolitico, invece, si aspettano molto di più dai paesi del Nord, che sono storicamente i maggiori responsabili delle emissioni di gas serra. La riduzione delle emissioni dovrebbe avvenire soprattutto in quei paesi: anzitutto perché hanno la maggiore responsabilità per le emissioni; poi anche per garantire il diritto allo “sviluppo” nei paesi del Sud, che hanno bisogno dell’energia di cui dispongono per crescere. Questa è una posizione che l’India non ha mancato di rimarcare continuamente, fino quasi a far naufragare l’accordo finale che proponeva l’eliminazione del carbone, rivendicando la sua quota di “carbon budget”. È vero, infatti, che l’India è oggi tra i più grandi emettitori in termini assoluti; ma è anche vero che se guardiamo alla quota pro-capite o anche a quella storica, si trova ancora a livelli molto al di sotto dei paesi industrializzati. Fin dall’inizio Narendra Modi a Glasgow ha presentato l’intenzione dell’India di arrivare al saldo zero di emissioni entro il 2070 ed è stata una prima doccia fredda per tutti.

Inoltre, il Sud chiedeva di fissare un obiettivo globale per i fondi di adattamento, davvero irrisori fino ad oggi. Si tratta di definire l’architettura e gli interventi dei questi finanziamenti per l’adattamento alla crisi climatica. Ritengono che sia una responsabilità del Nord provvedere a tali fondi, come riparazione storica. Il problema non è però solo della quantità dei fondi, ma anche della loro qualità.

Alla COP di Copenaghen nel 2009 si era arrivati all’accordo che i paesi ricchi avrebbero messo a disposizione 100 miliardi di dollari all’anno a partire dal 2020. Si tratta di una cifra ancora simbolica: i bisogni dei paesi poveri sono nell’ordine delle migliaia di miliardi l’anno, come risulta dai piani nazionali per la mitigazione e l’adattamento. 100 miliardi non sono in realtà una cifra proibitiva. Basti pensare che corrispondono a solo 1/7 del bilancio militare annuale degli USA. Si tratta cioè di fare delle scelte, non della mancanza di fondi. La presidenza della COP26 ha redatto un piano quadro per la raccolta di queste finanze, ma non si arriverà alla cifra di 100 miliardi prima del 2023. Si vede però con ottimismo che entro il 2025 saranno stati messi a disposizione complessivamente 500 miliardi. Senza finanziamenti, gli stati del Sud non saranno in grado di abbassare le proprie emissioni e di approdare alla transizione verde.

C’è poi la questione della qualità dei finanziamenti, con riferimento alla facilità di accesso, alla flessibilità, alla quota di donazioni e di prestiti agevolati. C’è il timore che il finanziamento della transizione verde comporti un ulteriore ed insostenibile indebitamento dei paesi poveri. Inoltre, per programmare ed implementare dei piani nazionali è necessaria la prevedibilità e continuità dei finanziamenti, che è ancora elusiva oltre il 2025. Per questo a Glasgow si è tanto insistito sulla definizione di un obiettivo (finanziario) globale per l’adattamento ai cambiamenti climatici. È venuto l’impegno raddoppiare questi finanziamenti, ma siamo ancora lontani dalla scala di interventi di cui c’è bisogno.

Alla fine, il tema della giustizia climatica si è fatto strada irresistibilmente anche grazie alla voce dei popoli indigeni, dei piccoli Stati insulari, dei giovani e delle organizzazioni della società civile. Tanto da venire enunciato, per la prima volta, nel documento programmatico della COP.

La questione ruota attorno al fatto che i paesi che meno hanno contribuito alla crisi climatica sono poi quelli che ne vengono più colpiti. Collegato a questo tema c’è anche quello della transizione equa, cioè l’equità nella riduzione delle emissioni, che si può misurare a partire da 4 principi: uguaglianza (emissioni pro-capite), responsabilità (emissioni totali nel tempo), capacità (chiedere di più a chi può fare di più) e il diritto allo sviluppo sostenibile. L’idea è che non bisogna lasciare nessuno indietro e che c’è una responsabilità comune ma differenziata. Per rendere operativi questi principi è necessario avere dei meccanismi di trasparenza che alimentino la fiducia reciproca.

Ma la giustizia climatica ha fatto sì che a Glasgow si sia andati oltre la dimensione dell’adattamento, introducendo ufficialmente – per la prima volta nel documento finale – la nozione di compensazione per le devastazioni dovute ai cambiamenti climatici. Su questo punto gli Stati del Nord geopolitico hanno sempre fatto muro, ma alla fine la pressione è stata tale che è avvenuta la svolta. È una decisione ancora senza finanziamenti, ma almeno è previsto un meccanismo per dare seguito pratico a questa innovazione.

In conclusione, serve molto di più. Come ha enfaticamente detto Antonio Guterres, Segretario Generale delle Nazioni Unite, nel suo discorso di apertura della COP26, è ora di dire basta: “basta violentare la biodiversità, suicidarci con le emissioni, trattare la natura come un gabinetto, bruciare combustibili fossili ed estrarre minerali sempre più. Ci stiamo scavando la fossa. (…) Stiamo ancora andando nella direzione del disastro climatico. I giovani lo sanno. Ogni Paese lo vede. I piccoli Stati insulari, quelli in via di sviluppo e altri Stati vulnerabili lo vivono”. Il grido dei popoli e il grido della Terra interpellano la nostra coscienza.
Fr. Alberto Parise, MCCJ