Nato a Sernio (Sondrio) nel 1901, compì il corso ginnasiale nel seminario di Como. In quegli anni sentì la voce dell’Africa e, primo tra i seminaristi comaschi del dopo prima guerra mondiale, entrò nell’Istituto comboniano. Era il 1919. Il rettore lo presentò ai Comboniani come un seminarista di “distinta pietà”.
Il suo impegno nella preghiera e nella mortificazione era così sentito che il padre maestro ha dovuto frenarlo. Frequentò il noviziato nella Villa Loreto di Savona dove i novizi comboniani erano profughi a causa della guerra, e lo concluse a Venegono Superiore, Varese. Qui, il 1° novembre 1921. emise i Voti di povertà, castità e obbedienza.
Poi passò a Brescia come assistente dei giovani seminaristi. “Era l’uomo della preghiera e della disciplina. Non era tenero neppure con gli alunni i quali, però, gli volevano bene perché vedevano quanto li amasse e volesse che diventassero santi missionari”. Il 29 maggio 1926 venne ordinato sacerdote nel Duomo di Brescia. Fu padre spirituale a Trento per quattro anni, e confessore dei primi ragazzi raccolti da p. Venturini per la sua Congregazione dei Figli del Cuore di Gesù.
Missionario in Sudan
Imbarcatosi a Napoli il 7 aprile 1930 per il Bahr el Gebel (Sudan meridionale) fu destinato alla missione di Rejaf. Si dedicò anima e corpo all’apostolato guadagnandosi l’amore dei neri. Quando incontrava un cristiano che non voleva osservare la legge del Signore, il Padre digiunava e si flagellava per ottenere da Dio la sua conversione, la quale non si faceva attendere, ma quanto gli costava!
Dopo 8 anni rimpatriò per salute. I Superiori lo rimandarono a Trento. Intanto fu aperto il secondo noviziato comboniano a Firenze (1940) e p. Patroni vi fu destinato come primo p. maestro. Inculcò nei novizi l’amore alla Regola e la devozione a San Giuseppe che protesse la casa durante la guerra.
Il Padre fece mettere la statua del Santo sul tetto. La casa si trasformò in ospedale e in casa di accoglienza per tanta gente che fuggiva dai bombardamenti, sicura che dove c’era p. Patroni non sarebbero cadute le bombe. E fu così: nessun ferito tra i missionari, nonostante le 140 granate cadute nel recinto del noviziato.
P. Stefano fu messo al muro dai tedeschi perché era corsa voce che i missionari avessero armi. Non trovarono armi e il Padre fu risparmiato. Un proiettile di mortaio entrò nell’atrio del secondo piano e rimase inesploso. È stata di p. Patroni l’idea dello splendido monumento a San Giuseppe che ora si trova presso la casa natale di Comboni a Limone sul Garda.
Questuante
Per mantenere i novizi p. Stefano si fece questuante. Con un carrettino trainato a mano cominciò a girare per i casolari chiedendo la carità: olio e grano, pane e formaggio, aiutato in questo dai novizi. Dopo il Capitolo del 1947 p. Patroni poté riprendere la via della missione. Partì dopo un breve soggiorno a Londra per imparare l’inglese e, senza andare a casa a salutare i suoi per spirito di mortificazione, lasciò l’Italia. Fu a Juba per due anni e poi a Rejaf. Nel 1950 fu nominato Superiore dei missionari del Sudan meridionale. Nel 1953 era in Italia per il Capitolo.
I nuovo superiore generale, p. Antonio Todesco, lo mandò in Messico, come Superiore regionale. Questa obbedienza gli costò molto perché lo allontanava dall’Africa. In Messico fu amato dai confratelli e dalla gente per la sua bontà. Anche qui, per costruire le opere della Congregazione, in particolare il seminario di Sahuayo, andò negli Stati Uniti a chieder l’elemosina. Quando era libero, aiutava gli operai come manovale. La gente lo riteneva un santo e il suo confessionale era sempre frequentatissimo. Dicevano: “Non si capisce bene quello che dice, ma in lui si percepisce la presenza di Dio”.
Nel 1957 era di nuovo in Africa, a Juba ma, venendo meno la salute, fu rimandato a Rejaf. Nel 1960, il 10 febbraio al mattino presto, la polizia lo prelevò espellendolo su due piedi come un criminale (l’accusa – falsa – era quella che il Padre avrebbe favorito gli scioperi degli studenti quando il governo musulmano abolì la domenica). Viaggiava con lui p. Luigi Benedetti accusato dello stesso “crimine”.
E finì una seconda volta come p. maestro a Firenze. Austero e duro con se stesso, era di una carità squisita con gli altri. Per essi metteva a disposizione auto e autista, mentre per lui bastava il cavallo di San Francesco o i mezzi pubblici. Curava i malati con tenerezza materna e passava la notte con gli infermi. Formò alla vita religiosa e missionaria 250 novizi.
Una emorragia interna provocata da un tumore epatico lo costrinse ad andare a Verona dove, edificando tutti, affrontò la dolorosa malattia e la morte che avvenne il 29 gennaio 1966. Ad un confratello disse: “Avevo chiesto al Signore che mi portasse via senza disturbare, di notte, e di morire in Noviziato”. P. Patroni ha lasciato nell’Istituto un ricordo indelebile. Tutti lo hanno riconosciuto come una maestro di virtù umane e soprannaturali, un missionario autentico.
(P. Lorenzo Gaiga)