Il vangelo di oggi è la continuazione di quello di domenica scorsa e completa l’unità letteraria di Marco 1,21-39, conosciuta come la “Giornata di Cafàrnao”, la “prima” giornata di attività di Gesù, di piena immersione nella realtà dell’umanità sofferente. (...)
Luoghi, tempi, attività e vicinanza: quattro sfide per il cristiano!
Tutti ti cercano!
Marco 1,29-39
Il vangelo di oggi è la continuazione di quello di domenica scorsa e completa l’unità letteraria di Marco 1,21-39, conosciuta come la “Giornata di Cafàrnao”, la “prima” giornata di attività di Gesù, di piena immersione nella realtà dell’umanità sofferente.
1. Notiamo l’attenzione che l’evangelista dà ai LUOGHI: uscito dalla sinagoga Gesù entra nella casa di Simone e Andrea, situata a pochi passi; poi esce verso la “piazza” della città; all’alba esce verso un luogo deserto e, in seguito, percorre i villaggi di tutta la Galilea. Gesù è un rabbì insolito, che attraversa soglie e sconfina continuamente; è sempre in cammino e sceglie la strada come luogo del suo insegnamento; non accarezza successi, è sempre “in uscita”; “si fa tutto a tutti” (vedi Paolo nella seconda lettura), animato dal desiderio di rendersi presente dappertutto! Gesù non è un “Messia domestico”, facilmente domabile e che avrebbe evitato l’opposizione delle autorità! (F. Armellini).
Questa presenza di Gesù in “tutti i luoghi” è una sfida per me! Io cerco di privilegiare certi luoghi, dove mi sento “a casa mia”, dove mi sento amato e stimato. Mi risulta difficile connettere i luoghi dove vivo e cercare o portare lì la presenza di Dio: nella sinagoga (chiesa) e nella casa (vita domestica); nella città e nella solitudine; nel centro e nelle periferie della mia Galilea. Forse mi manca frequentare dei “luoghi deserti” per discernere dove Dio vuole che io vada. Troppo facilmente spaccio per “volontà di Dio” il rimanere dove mi trovo comodo o dove riscontro successo!
2. Consideriamo anche l’attenzione che l’evangelista dà ai TEMPI: il sabato, la sera, al tramonto del sole, la notte, al mattino… Notiamo ancora l’avverbio temporale “subito”. Gesù sembra animato da una “urgenza” apostolica. Non ha tempo da perdere. Lui sa di avere solo “tre giorni”: “Andate a dire a quella volpe [di Erode]: “Ecco, io scaccio demòni e compio guarigioni oggi e domani; e il terzo giorno la mia opera è compiuta. Però è necessario che oggi, domani e il giorno seguente io prosegua nel cammino, perché non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme” (Luca 13,22-23).
Questo atteggiamento di Gesù riguardo ai “tempi” mi sfida. Io cerco e mi trattengo nei tempi piacevoli, incurante delle priorità, ed evito o mi “affretto” nei tempi difficili che richiedono impegno e sacrificio! Io spesso non unisco armoniosamente i tempi. Quante volte io dico: “non vedo l’ora che…” finisca questo periodo difficile o arrivi un momento bello. Così i miei tempi sono interrotti da periodi non vissuti in pienezza, subiti o rifiutati!
3. Soffermiamoci sulle ATTIVITÀ svolte da Gesù in questo vangelo. Sono essenzialmente tre: Gesù guarisce, Gesù prega, Gesù evangelizza! Per caso non sono queste le “attività” che il cristiano è chiamato a svolgere?
a) Gesù guarisce i malati e scaccia i demoni: “Gli portavano tutti i malati e gli indemoniati… Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demòni”. Notiamo il legame stabilito dall’evangelista tra le “varie malattie” e i “molti demoni”. Gesù “uscì” per vincere il male in tutte le sue forme. E i demòni che affliggono ancora oggi la nostra umanità sono molti! Gesù ha già vinto il male, ma questa vittoria di Cristo non è ancora visibile in tutte le sue dimensioni. Dio non trasformerà il mondo senza di noi. Siamo chiamati a lottare con Cristo per partecipare alla sua vittoria!
b) Gesù prega: “Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava”. Anche l’uomo che era Gesù aveva bisogno di pregare. Non solo per coltivare l’intimità col Padre, ma per discernere la sua volontà ed attingere alla Sorgente della Vita. “Senza di me non potete fare nulla” (Giovanni 15,5) è una esperienza fatta da Gesù, prima di dirlo a noi!
c) Gesù evangelizza: “Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là”. Gesù vuole arrivare dappertutto perché dove arriva lui il fermento del Regno comincia a lievitare la massa del mondo. Ma quali sono le mani che portano il fermento o il sale del vangelo nella realtà del mondo? Le nostre! “Guai a me se non annuncio il Vangelo!”, dice San Paolo oggi nella seconda lettura. E questo “guai a me!” non è soltanto dell’apostolo, ma di ogni cristiano!
4. Infine, notiamo come l’evangelista sottolinea l’atteggiamento di VICINANZA: “Egli si avvicinò [alla suocera di Simone] e la fece alzare prendendola per mano”; egli esce all’incontro della folla dei malati e degli indemoniati riunita davanti alla porta; egli percorre la Galilea per incontrare i bisognosi di una parola di speranza e di un gesto di conforto.
Non è questo una chiamata urgente rivolta alla Chiesa – ossia ad ognuno di noi – a “convertirsi”… al mondo?! cioè ad andare verso la gente?! a rendersi presente dove l’umanità soffre e lotta?! Ci lamentiamo che la gente ha disertato le nostre chiese e forse speriamo ancora un miracolo: che ci ripensino e tornino indietro, ma è ormai ovvio che non sarà così. Siamo noi a dover uscire e metterci fianco a loro in un atteggiamento di umile servizio. Ma per questo abbiamo bisogno che il Signore si avvicini a noi e ci faccia alzare prendendoci per mano, liberandoci della febbre del trionfalismo. Quando noi ci aspetteremmo come primo miracolo qualcosa di sensazionale, Marco presenta, invece, la guarigione della suocera di Simone, il più umile dei miracoli, ma forse il più significativo!
Esercizio per la settimana
1) Cercare di concretizzare nella mia vita (almeno un po’!) una delle quattro sfide a cui abbiamo accennato.
2) Interrogarmi sulla mia reazione di fronte alla affermazione di Paolo: “Guai a me se non annuncio il Vangelo!”. Comboni diceva: “Il missionario e la missionaria non possono andar soli in paradiso. Soli andranno all’inferno!”. E cosa pensare del cristiano che spera solo di “salvare la propria anima”?
P. Manuel João Pereira Correia, MCCJ
Verona, febbraio 2024
Dio opera nel mondo con mano misericordiosa
Gb 7,1-4.6-7; Sl 146/147; 1Cor 9,16-19.22-23; Mc 1,29-39
La pagina del vangelo di Marco di questa domenica fa parte di una unità più ampia, conosciuta come “giornata di Cafarnao”. Gesù, in compagnia dei primi quattro discepoli, in un giorno di sabato, insegna al mattino nella sinagoga e libera un ossesso (il brano che abbiamo commentato domenica scorsa). Al termine di questa riunione liturgica egli si reca nella casa di Simon Pietro e guarisce sua suocera. Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, egli guarisce molte persone davanti alla porta della casa di Pietro. Poi, si rifugia a pregare in un luogo solitario.
Abbiamo la sinagoga come luogo della preghiera pubblica; la casa come luogo della vita privata, e la piazza (lo spazio esterno della casa di Pietro) come luogo della vita pubblica. Quindi l’azione di Gesù non si limita allo spazio religioso, ma investe la sfera dell’amicizia e si spinge ad incontrare la folla. Abbiamo insieme tutto lo spazio immaginabile, religioso e profano, privato e pubblico: un modo di mostrare che l’’azione di Gesù, come pure tutta la nostra vita cristiana, interessi l’essere umano nella sua totalità, in tutte le sue dimensioni.
In questo cosiddetto “diario della giornata di Cafarnao”, l’accento sembra più posto sull’attenzione di Gesù al Padre e alla miseria umana. Le guarigioni sono segni e prodigi che dimostrano Gesù Figlio di Dio e annunciano la venuta del suo regno, ma prima ancora sono gesti di amore. Ha ragione Paolo quando afferma che: “E’ apparsa in mezzo a noi la bontà di Dio e il suo amore verso gli uomini”. Infatti, il comportamento di Gesù è un segno visibile dell’amore misericordioso di Gesù e della sua azione efficace e sovrana in mezzo a noi. È una conferma della vicinanza e della solidarietà di Dio nei confronti dell’umanità sofferente.
Questo dovrebbe assicurarci. Basta pensare alla reale povertà della condizione umana (nonostante le illusioni del benessere e delle pubblicità), al dramma reale della sofferenza, che spesso mette a dura prova la fede di chi ne è vittima, e che per quanto ci sforziamo, come Giobbe, non riusciamo a capire nulla. La sofferenza è un mistero incomprensibile che bussa a tutte le porte, presto o tardi; le malattie vengono anche se non si cercano e raggiungono tutti. In altre parole, “ogni cuore ha il suo dolore”, come dice un proverbio, ma soprattutto, solo chi soffre sa il dolore che ha nel cuore. Per fortuna Gesù è venuto, non per sopprimere neppure spiegare la sofferenza, ma per colmare con la sua presenza tutte le sofferenze. Egli inaugura in mezzo all’umanità il regno di Dio. Il suo non è regno di orgoglio, di dominazione e di guerre, ma un regno di giustizia, di pace e di amore. “Egli risana i cuori affranti e fascia le loro ferite”.
Quindi la sua azione terapeutica, esorcista e di liberazione è ancora efficace ed in opera oggi, lui, l’ “uomo dei dolori”, che ha preso con sé il dolore del mondo e lo ha inchiodato con sé sulla croce. Per questo tutti i dolori si aprono alla luce pasquale del Figlio di Dio crocifisso e risorto. Col suo esempio, Gesù vuole dirci che, come membra del suo regno e del suo corpo, dobbiamo anche noi fare la nostra parte presso i sofferenti, stando loro vicini e confortandoli con le parole di fede e con la preghiera; invitandoli inoltre a distinguere nella vita le penultime cose dalle ultime. E il dolore fa veramente parte delle penultime.
L’ultima cosa è la vittoria di Cristo su tutto, l’ultima cosa è la vita eterna per, con e in Cristo. Nella giornata-tipo di Gesù a Cafarnao, la solitudine e la preghiera rientrano anche nell’agenda dei suoi impegni. La sua giornata si apre e si chiude con la preghiera solitaria. Quest’attitudine del Figlio stesso di Dio ci vuole insegnare come, in realtà, la giornata diventi completa soltanto quando si apre e si chiude con la preghiera. Infatti, la relazione col Padre, a cui rendiamo conti e grazie, dovrebbe essere la sorgente e il culmine delle nostre attività. Come Gesù, uno che prega scopre sempre nuovi itinerari nella vita, perché c’è un Altro che gli indica dove andare e che l’accompagna.
Inoltre, la preghiera di Gesù non è soltanto il momento culminante del suo essere-con-il-Padre, ma anche e soprattutto del suo essere-per-gli-uomini, poiché nella preghiera Gesù continua il servizio, iniziato nella sinagoga e dalla suocera di Pietro, a favore degli uomini, che Egli porta al Padre. Egli prolunga il proprio servizio per tutti. In questo atteggiamento di Gesù scopriamo il modo adeguato per lodare e pregare Dio.
Don Joseph Ndoum
Siamo sotto pandemia, e aspettiamo di guarire, ma: perché guarire? A che scopo stare bene? La salute per la salute è solo sopravvivenza. Gesù esce dalla Sinagoga e va a casa di Simone, passaggio simbolico dell’inizio della Chiesa: dal sacro al domestico, ovunque siano adoratori in spirito e verità, poiché non ci sono più luoghi specifici per la salvezza.
In quella casa Gesù trova l’umanità sofferente: la suocera di Simone viene guarita dalla sua febbre, e il segno della salute è che inizia a servire. Cosa era dunque quella febbre? Era ciò che teneva questa donna lontana dal servizio. Ossia dall’amore. Il racconto procede, finisce il coprifuoco dello Shabbat, e una folla si riversa in quella casa. È sempre così: quando la Chiesa da segni di vita nuova, arriva tanta gente. La salvezza che questa gente viene a cercare inizia oltre il sabato, che nel computo ebraico finisce col tramonto, oltre le regole religiose, oltre l’impotenza della legge che non sa guarire. È il tempo nuovo di Gesù, il giorno dopo il sabato, quello in cui si risorge. E avvengono tante liberazioni e guarigioni.
Eppure, ancora una volta: guarire perché?
Il Signore Gesù si alza prima dell’alba, si nasconde e prega. Sta con il Padre, vive in Lui il segreto di quel che succede. Tutti lo cercano, ed è ovvio: con tanto esito, ci si dovrebbe godere il successo. La sua risposta è: «Andiamo altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!». Nell’intimità col Padre, dove risiede la nostra vera identità, si ritrova quel che conta veramente e ci si smarca dalla trappola delle aspettative altrui. A pensarci: se Gesù fosse rimasto li, a raccogliere il successo, non sarebbe arrivato fino a noi. Di villaggio in villaggio è giunto al fondo della sua missione: salvare ogni uomo. Non solo Cafarnao. Installarsi e sopravvivere o andare oltre? La guarigione è acquisizione o chiamata alla grandezza?
A partire dal Padre, tutto può diventare missione, tutto può diventare un “oltre” benedetto.
[Fabio Rosini – L’Osservatore Romano]
Annuncio del Vangelo: risposta al dolore umano
Giobbe 7,1-4.6-7; Salmo 146; 1Corinzi 9,16-19.22-23; Marco 1,29-39
Riflessioni
La vita è “un duro servizio” sulla terra, afferma Giobbe (I lettura). Il personaggio e il libro appartengono, da sempre, alla letteratura mondiale. La storia di Giobbe, infatti, è una sfida permanente per tutti, perché induce necessariamente a riflettere sul problema del dolore e del male nel mondo; sul rapporto fra male fisico e male morale; sulla fede in Dio e la sua apparente distanza o addirittura impotenza di fronte al male, soprattutto davanti alla sofferenza delle persone innocenti. La vita umana sulla terra è, per Giobbe, un duro lavoro da schiavi (v. 1-2), tra “illusione e notti di affanno” (v. 3), senza speranza, perché “un soffio è la mia vita” (v. 7).
Le tre letture di questa domenica sono una risposta di Dio al dolore umano. L’innegabile durezza della vita umana - descritta nella vicenda di Giobbe - trova spiragli di sollievo e speranza solo nella fede in Dio, il quale è sempre Dio della vita (Salmo responsoriale). Nel Vangelo odierno, Gesù mostra con gesti concreti qual è la risposta di Dio di fronte al dolore umano: risposta di vicinanza, solidarietà, condivisione, missione. Lo vediamo nei quattro momenti di quella giornata di Gesù.
1. Gesù guarisce la suocera di Pietro. Osserviamo i dettagli della scena: i discepoli ne parlano a Gesù, lo pregano; Egli si avvicina, si fa prossimo, la prende per mano, la solleva (Marco usa il verbo greco ‘egeiro’, proprio della risurrezione), la cura nel corpo e nello spirito, “ed ella li serviva” (v. 31). La salute recuperata è in vista del servizio da rendere. Tutta la scena sfocia nel servizio agli altri. Perché il servizio da senso ed è l’espressione più alta della vita!
2. Gesù guarisce “molti che erano affetti da varie malattie”, scaccia demoni, ecc., ma non vuole pubblicità (v. 34). Queste scene, che si ripetono spesso nei Vangeli, invitano a riflettere su come Dio reagisce davanti al dolore: ascolta i lamenti, si fa vicino, soffre, si commuove, piange, interviene, risolve alcuni casi... Ma non elimina tutto il male dal mondo, anzi Gesù stesso ne sarà vittima innocente. Perché? Perché c’è il male nel mondo? Finché siamo sulla terra, le risposte, anche quelle della fede, saranno solo parziali. Non ci resta che guardare il Crocifisso, fidarsi di Dio Padre. Lui sa perché! È stata questa anche la forte testimonianza di Papa Francesco accanto ai sofferenti per il tifone che nel 2013 causò migliaia di vittime e distrusse intere regioni nelle Filippine. (*)
3. Dopo una giornata faticosa, Gesù si concede solo poche ore di riposo, si alza presto e si ritira in un luogo deserto a pregare (v. 35). Al mattino del sabato Gesù aveva già pregato nella sinagoga (v. 29) con la comunità; ora prega da solo. Sente il bisogno intimo di parlare con suo Padre, capirne la volontà, per essergli fedele. Per amore! Nella preghiera Gesù, il missionario del Padre, capisce sempre meglio qual è la sua missione e come portarla a compimento.
4. Tutti cercano Gesù, se lo vogliono accaparrare. Egli non cede a queste richieste interessate e risponde mostrando l’ampiezza universale della sua missione: “Andiamocene altrove... perché io predichi anche là” (v. 38). La missione di Gesù - e quindi quella della Chiesa - è sempre un uscire, andare oltre, andare avanti, superare frontiere, senza limitarsi alle richieste di alcuni pochi, senza installarsi nelle posizioni acquisite, né accontentarsi dei risultati. Perché la missione ha come campo specifico il mondo intero. Nel Vangelo di oggi appaiono almeno sei volte gli aggettivi: tutti, molti... È vero che il dolore è retaggio per tutta la famiglia umana, ma ancor più certa e universale è la salvezza di Dio per tutti!
L’apostolo Paolo (II lettura) l’aveva capito bene e fece dell’annuncio del Vangelo ai pagani la ragione della sua vita. Ne sentiva l’urgenza e il dovere: “Guai a me se non annuncio il Vangelo!” (v. 16). Egli predica nella più piena gratuità, si fa “servo di tutti… tutto per tutti” (v. 19.22), ha come unica passione il Vangelo da annunciare (v. 23). Ricordando il fatto della conversione di Paolo (celebrata recentemente), si constata che sulla strada di Damasco non è nato soltanto il cristiano Paolo, ma anche il Paolo missionario, anzi il più grande apostolo dei popoli non cristiani.
Dopo secoli, la testimonianza di Paolo ci raggiunge e ci stimola: il Battesimo fa di ogni cristiano un missionario. Per tutta la vita! Ognuno, secondo la sua condizione, diviene uomo/donna della carità, della missione. L’annuncio del Vangelo ai popoli è un servizio squisito di carità; è la risposta più completa al dolore e ai bisogni dell’uomo. Anzi è il miglior servizio integrale che, come cristiani, possiamo offrire al mondo.
Parola del Papa
(*) «Sono qui per dirvi che Gesù è il Signore, che Gesù non delude… Lo vedo lì inchiodato, e da lì non ci delude!... Lì è passato per tutte le calamità che noi abbiamo… Per questo Egli è capace di comprenderci... è capace di piangere con noi, è capace di accompagnarci nei momenti più difficili della vita. Molti di voi hanno perso tutto, anche parte della famiglia. Io non so che cosa dirvi. Lui sì, sa che cosa dirvi!... Solamente rimango in silenzio, vi accompagno con il mio cuore in silenzio… Io non ho altre parole da dirvi. Guardiamo Cristo: Lui è il Signore, e Lui ci comprende… E insieme a Lui crocifisso stava la madre… Guardiamo al Signore… e guardiamo a nostra Madre».
Papa Francesco
Omelia a Tacloban, Filippine, 17.1.2015
P. Romeo Ballan, MCCJ
La casa-comunità, “ospedale di campagna”
Commentario a Mc 1, 29-39
Continua, in questa V Domenica ordinaria, la lettura del primo capitolo di Marco, che ci racconta una giornata tipica di Gesù a Cafarnao. La domenica scorsa avevamo letto la prima parte, contemplando Gesù nella sinagoga, che confrontava lo spirito “impuro”. Oggi lo vediamo fuori dalla sinagoga.
Nel mio commentario, seguirò quattro termini di riferimento:
La casa
Gesù lascia la sinagoga per entrare nella casa di Simone Pietro, in compagnia di Andrea, Giacomo e Giovanni, oltre a Simone stesso, la cui casa diventa per un può di tempo il centro di operazioni di quella prima comunità di discepoli missionari. Nei vangeli, si ripete con una certa frequenza questa esperienza di Gesù che entra nelle case, particolarmente di persone riconosciute come “peccatori pubblici”: Levi, Zaccheo, Simone il fariseo… I suoi pranzi nelle case sono segni di fraternità, di festa, di perdono e di vita nuova. Anche la prime comunità cristiane si radunavano nelle case di qualche discepolo o discepola. In questo modo, la Chiesa aveva un aria di famiglia e fraternità, di vita vicina alle gioie e alle sofferenze delle persone.
Anche oggi, conosciamo tante famiglie che accolgono il Signore nelle loro case in mille modi, famiglie che fanno della loro casa un luogo d’incontro per coloro che seguono Gesù o per persone bisognose. Queste famiglie sono vere chiese domestiche, discepole di Gesù. Assieme a queste famiglie, io sogno una Chiesa laicale, “casalinga”, molto vicina alla vita concreta delle persone; una Chiesa fatta di piccole comunità di discepoli e discepole, amici e amiche, che si visitano, si aiutano a vicenda, si proteggono nei momenti di debolezza, si alzano per servirsi a vicenda, come ha fatto la suocera di Simone.
La casa che diventa “ospedale di campagna”
Con la presenza di Gesù, la casa di Simone e della sua suocera, diventa un luogo sorgente di salute, dignità (la suocera malata “si alza in piedi”) e servizio. Nella casa di Simone, come nella sinagoga, Gesù appare come la rivelazione della bontà del Padre, del suo amore gratuito, che guarisce, dignifica, perdona, riconcilia, anima e invita a servire.
Questo è quello che Papa Francesco, con il suo linguaggio concreto ed efficace, ha definito come “ospedale di campagna”, una Chiesa serva in mezzo a un mondo ferito per le molte violenze fisiche, economiche, morali… Infatti, quanti centri di salute nei luoghi più emarginati del mondo ha promosso la Chiesa! Quante scuole per bambini poveri! Quanti anziani accompagnati nei momenti più duri della loro esistenza! Quante persone illuminate con la parola, consolate, ascoltate con pazienza, perdonate! In un certo modo, possiamo essere orgogliosi di una Chiesa che nel mondo è veramente una comunità al servizio della vita e dei figli più bisognosi del Padre.
Ma, allo stesso tempo, sento che questo vangeli ci chiama anche a una conversione costante, personale e comunitaria: La chiesa di cui io sono parte (nella famiglia, nella comunità, nella parrocchia) non può diventare un castello chiuso, ma deve essere una casa aperta, una casa diventata “ospedale di campagna”.
Alba e tramonto, lavoro e preghiera, parola e silenzio
All’alba, Gesù sparisce per andare in un luogo solitario, evidentemente, per trovare nell’intimità la Sorgente della sua vita interiore, per ristabilire (dopo la lotta di ogni giornata) i lacci affettivi con il Padre, per discernere e aggiornare il senso di tutto quello che dice e fa, evitando di perdersi in un attivismo senza direzione.
Qualcuno ha detto che il futuro sarà dei contemplativi, non di quelli che corrono da una parte all’altra, moltiplicando le parole vuote e i cuori risecchiti. Mi pare che investire in preghiera, con una fedele disciplina, è uno dei migliori investimenti per noi stessi, per la comunità e per la missione. Senza la preghiera diventiamo come delle foglie secche che il vento trascina senza nessun senso di direzione.
Varcare nuove frontiere
Nella lettura di oggi, i discepoli, assieme alle masse di beneficiati, vogliono ritenere Gesù, acchiapparlo nelle reti del loro interessato affetto. “Come si sta bene qui, facciamo tre tende!”, sembrano dire. Ma Gesù non si lascia “imprigionare”, si mantiene libero per annunciare il Regno altrove, senza confondere missione con soddisfazione personale o con l’applauso dei supposti tifosi…
Il successo può diventare una trappola, che ci fa accomodarci in quello già acquisito e dimenticare di continuare a camminare, a cercare nuovi orizzonti. Questo accade alle persone e alle comunità. Penso a tante parrocchie che si mostrano contente e orgogliose perché la loro chiesa si riempie durante le cinque messe della domenica. Ma attorno a quella parrocchia vivono più di 30.000 persone, delle quali forse mille o due mila vanno a Messa… Dove sono gli altri?
La passione missionaria di Gesù ci spinge a andare sempre oltre, a rompere le frontiere di ogni tipo, a aprirci a persone, gruppi a popoli nuovi, a non accontentarci di quello già acquisito per cercare nuovi orizzonti, sia nella vita personale sia nella comunità cristiana.
P. Antonio Villarino, MCCJ