Il 10 ottobre 1881 moriva a Khartoum Daniele Comboni, uno dei più grandi missionari dell’800. Con lui sembrava dovesse scendere nella tomba anche la sua opera, nonostante la genialità della sua proposta missionaria e l’eroismo con cui si era speso per la “rigenerazione” di quello che era considerato il cuore dell’Africa nera: il Vicariato Apostolico dell’Africa Centrale, comprendente allora anche l’attuale Sudan e Uganda. (Articolo pubblicato su "Testimoni" il 30.09.2003)

Il 10 ottobre 1881 moriva a Khartoum Daniele Comboni, uno dei più grandi missionari dell’800. Con lui sembrava dovesse scendere nella tomba anche la sua opera, nonostante la genialità della sua proposta missionaria e l’eroismo con cui si era speso per la “rigenerazione” di quello che era considerato il cuore dell’Africa nera: il Vicariato Apostolico dell’Africa Centrale, comprendente allora anche l’attuale Sudan e Uganda.

Al momento del suo trapasso, su un campo sterminato, rimanevano solo 17 elementi maschili, tra preti e laici, e 16 suore. Inoltre una strana sensazione di insicurezza sembrava presagire la bufera mahdista che 2 anni più tardi, dal 1883 al 1885, avrebbe spazzato via ogni presenza straniera e si sarebbe mantenuta fino al 1898. Se dunque erano logiche e quasi premonitrici le urla di disperazione degli schiavi liberati nella missione di Khartoum e quel sorprendente pianto ininterrotto di tre giorni anche dei musulmani, altrettanto improbabili sembravano le parole pronunciate dal morente con un soffio di voce: “Nel delirio parlava delle antiche missioni di Santa Croce e di Gondokoro e diceva: biosogna ritornarci”.

Sembravano solo il patetico desiderio di uno che dovesse portare con sé nella tomba tutti i suoi piani. Invece era la realtà e non un sogno delirante. Aveva lasciato un capitale di speranza la cui linfa, dalla radice, si era già propagata al corpo di un albero che si sarebbe mirabilmente sviluppato. Don Giovanni Losi, il missionario piacentino superiore a El-Obeid e a Gebel Nuba, nominato da Propaganda Superiore Generale ad interim del Vicariato Apostolico dell’Africa Centrale, aveva dovuto ammettere: “Il personale della missione, benché dolente per la morte del capo e di altri compagni, non è però sconfortato: è troppo recente il luminoso esempio di fiducia che come in eredità Egli ci ha lasciato, avendo sotto i nostri occhi rialzata dal nulla questa missione e provvedutala di risorse ordinarie e sufficienti. Ora ognuno è persuaso che assai meno difficilmente si potrà conservare e far progredire un’opera già tanto avviata”. Aveva ragione!

Comboni sarebbe sopravissuto nella sua opera. Continua oggi nelle Chiese locali sorte dal suo immenso Vicariato e nelle famiglie che da lui hanno tratto origine. I Comboniani e le Comboniane sono oggi più di 4000. Presenti in quattro continenti: Europa, Africa, America e Asia e provenienti da 39 nazioni: America 11, Africa 18, Europa 7, Asia 3, svolgono il servizio missionario in 47 paesi. Inoltre il carisma del Comboni ha dato origine a ben 23 Istituti Religiosi locali (Sisters of Sacred Heart, Brothers of St. Martin de Porres, Apostles of Jesus, The Little Sisters of Mary Immacolate, Evangelizing Sister of Our Lady ecc.). La Chiesa Sudanese poi conta oggi 9 diocesi: Khartoum, El-Obeid, Malakal, Wau, Juba, Rumbek, Torit, Yei, Tombura-Yambio e la Chiesa del Nord Uganda, dove i suoi missionari giunsero nel 1910, ne annovera 6: Gulu, Arua, Lira, Moroto, Nebbi e Kotido. Le parole che il Comboni aveva pronunciato nel delirio: “Bisogna arrivare a Santa Croce e Gondokoro!” non erano dunque l’utopia di un morente, ma la premonizione che l’Africa Centrale avrebbe avuto un cuore cristiano. Anticipazione profetica del resto, già scaturita dalla sua penna dieci mesi prima della morte: “…e noi riusciremo - aveva scritto al direttore dei suoi Istituti di Verona - a divenire non dispregevoli pietre del fondamento del grande edificio della Chiesa africana (S. 6172).

Una vita spesa totalmente per la missione

Più che l’anagrafe, puntuale nel segnalare in quel di Limone sul Garda, il 15 marzo 1831 l’inizio della sua breve ma intensa vicenda terrena, sono le tappe del suo percorso interiore a interessare perché segnano la sua ascesa non nell’Olimpo degli dei, ma la sua discesa nei sotterranei della storia africana del tempo. Un cammino che allora era ancora tutto da tracciare e un interesse ancora tutto da ricostruire per un luogo (l’Africa Centrale) e per delle persone (gli africani) considerati a tutti gli effetti, religiosamente e socialmente, insignificanti se non addirittura inesistenti.

Questi i momenti che nella vita del Comboni assumono carattere di irrevocabilità. Si tratta di inizi che sono autentiche ripartenze e ripartenze che alzano sempre più il livello dell’impegno e della sfida. La sua vita missionaria in effetti inizia il 9 gennaio 1849, a Verona, ai piedi del Mazza. Comboni giura di consacrare la vita alla missione dell’Africa Centrale. Nove anni dopo, l’8 gennaio 1858 vive un altro momento fondamentale. Arriva con altri cinque compagni a Khartoum, risale il corso del Nilo e il 25 marzo a Santa Croce raccoglie le parole di Oliboni morente: “Se anche uno solo di voi rimanesse, non vengagli meno la fiducia, né si ritiri”. Da membro più giovane della spedizione missionaria diviene garante di un’impresa che deve continuare. Tuttavia per Dio e per l’Africa non basta una fedeltà qualunque: dalla fedeltà a una parola è condotto alla fedeltà creativa a un’opera. Il 15 settembre 1864 sulla tomba di S. Pietro ha l’intuizione-illuminazione della scrittura del Piano per la Rigenerazione dell’Africa. Propone un metodo: salvare l’Africa con l’Africa. Concepisce una strategia: avanzare dalla periferia al centro “piantando la base di azione là dove l’africano vive non si muta, e l’Europeo opera e non soccombe”. La sfida si alza: la sua parola profetica deve mostrare la capacità di trasformarsi in azione per un progetto ecclesiale. Comboni è chiamato a un passaggio fondamentale: da geniale ideatore a fondatore di un suo corpo d’azione. Nel 1867 fonda il suo Istituto missionario a cui seguirà poi nel 1872 la fondazione del ramo femminile. Da geniale organizzatore a ardente animatore. E’ suonata l’ora dell’Africa Centrale. Lo scenario delle capitali europee non gli basta più, neppure le 1347 lettere che afferma di aver scritto nei primi cinque mesi del 1871, perciò si fa invitare al Concilio Vaticano I a cui dirige il Postulatum pro Nigris africae centralis. Il 26 maggio 1872 è nominato pro-vicario del Vicariato dell’Africa Centrale. Non titolo onorifico, ma autentico kairòs su una storia considerata definitivamente chiusa. Con lui si riapre il Vicariato dell’Africa Centrale, di fatto estinto e accorpato dal 1862 al Vicariato Apostolico dell’Egitto. Ora ha un luogo, un drappello suo (8 missionari, 9 coadiutori laici, 4 suore e 20 istitutrici nere) e la prospettiva di arrivare, attraverso progressive fondazioni di nuove missioni, a piantare saldamente la missione nella regione dei Grandi Laghi, il cuore antico dell’Africa nera,. Il 31 luglio 1877 è nominato vescovo e vicario apostolico del Vicariato dell’Africa Centrale. La sua opera ed anche la sua persona ricevono il sigillo dell’autenticità eccelsiale, ma è anche il momento in cui il buon seme affonda nel terreno.

Molte prove lo attendono ancora, situazione drammatica del suo Vicariato nella morsa di una terribile carestia, la lotta impari alla infame tratta degli schiavi che non accennava a diminuire, le incomprensioni, le accuse infamanti, le umiliazioni, l’indifferenza ai suoi pareri, gli strapazzi che riducono drasticamente le sue forze fisiche senza intaccarne tuttavia la generosità di intenti e la lucida visione. La sua morte a 50 anni sopraggiunge inaspettata, ma la linfa aveva già contagiato altre esistenze. Del resto non poteva non essere così per chi aveva lasciato una memoria indelebile. “…quando si diceva Comboni si intendeva un uomo perfetto, pieno di tutte le virtù ” ripeteranno plebiscitariamente cattolici, copti e musulmani al processo informativo di Khartoum, aperto nel 1927. Più commovente e sorprendente di tutte la deposizione del musulmano Muhammed Juseph el Ezzi : “Io il Comboni lo conobbi in Khartoum: era un uomo grande di statura, ben formato e con la barba nera . Era molto buono e amato da tutti: anche noi musulmani lo amavamo assai: era gioviale , di belle maniere, attirava tutti col suo modo di fare. […] Il Comboni era il papà dei poveri: egli aiutava tutti , senza guardare se erano musulmani o cristiani, egli era buono con tutti. […] Egli era buono come il profeta Gesù”.

Missione e senso della Chiesa

Una domanda emerge dall’intenso percorso missionario del Componi. Perché riuscì a impiantare l’Opera dove anche celebri ordini religiosi, con esperienza consolidata di missione e dovizia di mezzi e di personale, avevano fallito? Perché ciò che aveva ideato e proposto è valido ancora oggi per i suoi Istituti, per la Chiesa missionaria e quindi anche per la società?

La risposta, anche se richiederebbe di essere molto articolata, non può essere che una: il Piano e la vita di Comboni hanno una forte connotazione ecclesiale. In altre parole essi ci dicono che alla base di ogni vera azione evangelizzatrice ci deve essere la coscienza di appartenere alla comunità della Chiesa, quindi opera non semplicemente di individui isolati, anche se di tempra e doti straordinarie, ma di una comunità aperta al futuro perché appunto ha una sua storia alle spalle. “Il solo pensiero che ci impedisce di non disperare, - scriveva Comboni in aprile del 1881 al rettore dei suoi Istituti di Verona - è la storia della Chiesa, che ci addita più di un popolo, barbaro quanto i nostri africani, essersi sottomesso al giogo di Cristo” (S. 6661). La sua forza era il sentirsi dentro questa linfa che aveva sorretto le generazioni credenti.

Ragionava quindi in termini di storia della Chiesa e di visione teologica della struttura della Chiesa. Avvertì con chiaro intuito la responsabilità del corpo episcopale nei confronti di tutta la chiesa. Nel Postulatum, che intendeva presentare al Concilio Vat. I, attirò l’attenzione dei Padri sul problema Africa non in virtù di una generica solidarietà, ma in conseguenza della loro corresponsabilità nell’azione evangelizzatrice di tutta la Chiesa. “Ecco dunque eccellentissimi Padri, dinnanzi a voi questa infelicissima Nigrizia…prendete su di voi quest’opera ….Questo lo richiede pure l’ufficio del ministero affidato a voi che lo Spirito Santo ha posto come vescovi a reggere la Chiesa di Dio“ (S.2308). Una sensibilità dunque che anticipava di quasi cent’anni uno degli aspetti fondamentali della Collegialità che il Vat. II° avrebbe sancito nel cap. III° della Lumen Gentium, al n° 23 “…in quanto membri del collegio episcopale e legittimi successori degli apostoli, i vescovi sono tenuti, per istituzione e per comando di Cristo, ad avere sollecitudine per tutta la chiesa”. Un richiamo che ancora oggi colloca la missione e l’evangelizzazione al centro della sollecitudine della Chiesa e riconosce nei pastori che la reggono l’istanza più sicura per la salvaguardia della loro coerente attuazione.

Avvertendosi all’interno di una chiesa, tutta essa missionaria, che genera Chiesa, Comboni non poteva non avere un acuto senso della necessità di formare una chiesa locale in Africa Centrale. “Salvare l’Africa con l’Africa” è la dinamica che muove tutti il Piano dall’interno (cf. Scritti, 800-846), proprio in un tempo in cui completa era la sfiducia nei confronti dell’elemento locale. Ha saputo perciò anticipare i tempi atteggiandosi a difensore di un piano di Dio che, contrariamente alle miopi logiche umane, sa vedere possibilità nuove, lì dove c’è sfiducia o semplice strumentalizzazione dell’elemento locale. Comboni, diviene in tal modo, anche per l’oggi, fautore di una chiesa universale comunione viva di chiese locali in cui deve prevalere l’assunzione delle responsabilità, la mutua stima e l’accettazione e la valorizzazione delle differenti sensibilità culturali

Questa larga visione eccelsiale non è poca cosa per chi oggi vuol fare passare l’individualismo, il protagonismo, lo scarso senso ecclesiale, la critica corrosiva e il mero impegno sociale sociale per profetismo o per chi vuole ammantare l’assenso servile, l’immobilismo, l’obbedienza formale e muta e lo spiritualismo disincarnato col titolo di fedeltà e di dedizione alla chiesa. Comboni scuote una Chiesa, che per lui sarà sempre “mia signora e madre” (S. 7001), perché diventi sempre più Chiesa di tutti.

Missione con un’anima e uno sguardo profetico sulla storia

Comboni viene dal cuore della Trinità, ma una Trinità che cammina sulle strade dell’uomo. La sua vita di evangelizzatore e il suo Piano d’azione hanno in se stessi una vitamina trinitaria. Sono espressione dell’amore del Padre che si china sull’umanità attraverso il Cuore del Figlio e da questo comune amore è mosso il missionario a dare l’abbraccio di pace ai più sventurati dei figli e fratelli (S. 2742). Il Comboni non poteva indicare in maniera più precisa e stringente che la missione ha un’origine divina e continua nell’attualità attraverso lo Spirito. “Allora [il cattolico] trasportato egli dall’impeto di quella carità accesa con divina vampa sulla pendice del Golgota, ed uscita dal costato del Crocifisso per abbracciare tutta l’umana famiglia, senti battere più frequenti i palpiti del suo cuore; e una virtù divina parve che lo spingesse a quelle barbare terre, per istringere tra le braccia e dare il bacio di pace e di amore a quegl’infelici suoi fratelli” (S. 2742). Senza quest’anima antica, così sveglia sulle tragedie umane, la sua navicella si sarebbe schiantata sugli scogli dell’inefficacia e dell’insignificanza. Le sofferenze dei poveri mettono continuamente di fronte all’impossibile e come qualcuno ha giustamente scritto: “più che la cultura, in questo continente remoto dell’Africa occorrevano la convinzione e la forza interiore”.

Comboni vive nel tempo del disprezzo e dell’emarginazione e non passa indenne. Diventa un esempio di una evangelizzazione che mette assieme la causa di Dio e la causa dell’uomo, connettendole intimamente. Si pensi all’evangelizzazione che lui concepisce come rigenerazione e trasformazione della persona e della società. Il suo Piano per la rigenerazione della Nigrizia prospettava un impianto educativo tale da abbracciare la conversione alla fede cristiana e lo sviluppo dell’intelligenza fino alle più alte vette del sapere. Dalle chiese ai seminari, dalle scuole tecniche alle università, tale era l’orizzonte offerto in nome delle fede in Cristo in un tempo in cui si dubitava dell’educabilità dell’africano. Per questo in Sudan, il nome Comboni è ancora oggi sinonimo di educazione qualificata e il nome cristiano, pur discriminato, è sinonimo di dignità e di sviluppo per tutti. La gente del Sudan, specialmente la gente nera, sente ora come proprie la fede e l’appartenenza al grande albero della Chiesa da lui trasmesse.

Questo cuore antico della missione, questo sguardo lucido sulle situazioni più pesanti di povertà e di sofferenza, questo coraggio nella denuncia delle vittime del sistema e questa tenace fiducia nel riconoscere ai poveri e oppressi capacità di trasformarsi e trasformare i criteri di valutazione della società sono di incalcolabile valore, proprio in un tempo in cui la Chiesa sembra perdere il mordente della missione e anche la nostra Chiesa italiana sembra silente nei confronti di una società in fase involutiva. Ci è dunque sommamente utile questa canonizzazione che una delle sue prime suore aveva quasi anticipato nella deposizione al Processo canonico del 1927. Elisabetta Venturini, che fu con lui in Africa a El-Obeid ed era poi rimasta prigioniera del Mahdi dal 1882 al 1891, così si esprimeva: “Io sono convinta – aveva dichiarato - che questa Causa riuscirà perché il Comboni ha sofferto e operato molto per la gloria di Dio”.
P. Arnaldo Baritussio mccj