Parla spesso per immagini Gesù, perché invece di chiudere e definire discorsi, desidera aprire sentieri di vita, che ciascuno può percorrere con libertà e con tutto se stesso. Quella della vite e dei tralci, che ci viene offerta in questa domenica, è ben conosciuta in Israele e in tutto l’Antico Testamento: Israele è la vite che il Signore ha piantato, come sposa feconda essa produce frutti di amore e, legata al suo Dio che ne è l’agricoltore, genera il vino della gioia.
A chi sono unito:
alla Vite pregiata o a una vite bastarda?
“Io sono la vite, voi i tralci!”
Giovanni 15,1-8
Con le ultime due domeniche del tempo pasquale entriamo nella preparazione immediata alle feste dell’Ascensione e della Pentecoste. Sono le domeniche del commiato. Il vangelo di questa domenica e della prossima ci offre dei brani del discorso di addio di Gesù ai suoi discepoli durante l’ultima cena. Si tratta del suo testamento, prima della passione e morte. Perché riprendere questi testi proprio nel periodo pasquale? La Chiesa segue l’antica tradizione di leggere durante questo tempo i cinque capitoli di Giovanni relativi all’ultima cena, dal 13 al 17, nei quali Gesù presenta il senso della sua morte e della sua “pasqua”. Inoltre, potremmo dire che, trattandosi del suo lascito, il testamento va aperto dopo la sua morte. Gesù lascia la sua eredità, i suoi beni, a noi suoi eredi.
Vigna pregiata o vigna bastarda?
Dai pascoli ai vigneti. Nel vangelo di Giovanni non troviamo delle parabole come negli altri tre vangeli, ma delle similitudini. Domenica scorsa l’evangelista ha impiegato una allegoria tratta dalla pastorizia: “Io sono il buon pastore”. Oggi ne adotta una agricola: “Io sono la vite e voi i tralci”. La vigna, l’olivo e il fico sono simboli dell’abbondanza e fertilità della “terra promessa” e sono impiegati come simboli della fecondità del popolo di Dio.
Nella tradizione profetica, il popolo di Dio viene spesso presentato come vite scelta e vigna pregiata: “Il mio diletto possedeva una vigna sopra un fertile colle… Perché, mentre attendevo che producesse uva, essa ha prodotto acini acerbi?” (Isaia 5,1-7); “Io ti avevo piantato come vigna pregiata, tutta di vitigni genuini; come mai ti sei mutata in tralci degeneri di vigna bastarda?” (Geremia 2,21); “Vite rigogliosa era Israele, che dava sempre il suo frutto; ma più abbondante era il suo frutto, più moltiplicava gli altari.” (Osea 10,1); “Figlio dell’uomo, che pregi ha il legno della vite di fronte a tutti gli altri legni della foresta? Si adopera forse quel legno per farne un oggetto?… Ecco, lo si getta nel fuoco a bruciare.” (Ezechiele 15,1-8); “Tua madre era come una vite piantata vicino alle acque… Ma essa fu sradicata con furore e gettata a terra.” (Ezechiele 19,10-14).
Notiamo che Dio si mostra deluso nelle sue aspettative. Dopo tutta la cura e l’amore per la sua vigna si attendeva dei frutti e, invece, la vigna degenerata produce acini acerbi. Come non vedere qui il lamento del Signore sulle nostre situazioni di infedeltà, a livello personale o comunitario?!
Il Signore però non abbandona la sua vigna e risponde alla preghiera del salmista: “Dio degli eserciti, ritorna! Guarda dal cielo e vedi e visita questa vigna.” (Salmo 80,9-17). Ed ecco la promessa messianica: “In quel giorno la vigna sarà deliziosa: cantàtela!Io, il Signore, ne sono il guardiano, a ogni istante la irrigo; per timore che la si danneggi, ne ho cura notte e giorno… Nei giorni che verranno Giacobbe metterà radici, Israele fiorirà e germoglierà, riempirà il mondo di frutti.” (Isaia 27,2-5). La visita di Dio e l’adempimento della sua promessa avviene con Gesù. È lui la vite, il vero Israele fedele che offrirà al Padre “il vino nuovo” (Giovanni 2,10).
1. La vite, i sarmenti e l’agricoltore: il nostro rapporto col PADRE
“Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore”. Troviamo qui due affermazioni molto forti. Prima di tutto, l’espressione di Gesù suona come una auto-rivelazione: “Io Sono” è una allusione al Nome di Dio. Inoltre, attribuisce a sé l’immagine della vite che era impiegata in riferimento a Israele.
Il Padre è l’agricoltore. Cosa fa? “Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto”. La potatura è qualcosa di essenziale per la fecondità della vite ed è un’arte, perché bisogna sapere cosa, dove e come tagliare. Da una parte, è necessario tagliare i sarmenti che non produrranno frutto e indebolirebbero la pianta. Dall’altra, potare i tralci che daranno frutto per favorirne la la quantità e la qualità. Questo si fa verso l’inizio dell’inverno e si dice che la vite “piange”, per la linfa che scorre dai tralci potati. Quando poi spuntano i germogli si rimuovono quelli più deboli e, più tardi, anche le foglie che non favoriscono la crescita del grappolo.
Dall’immagine alla realtà: Dio opera nella nostra vita una potatura o purificazione continua. La forbice che egli utilizza è, in primo luogo, la sua Parola, ma pure gli eventi della vita, la correzione fraterna e, addirittura, la critica dei non-credenti, talvolta sfregiante e spietata. Da parte nostra, ci vuole una attenzione permanente per recidere quanto sta indebolendo la nostra vita cristiana. Spesso lasciamo crescere tanti germogli che producono solo fogliame. Coltiviamo troppi interessi che ci assorbono energie e compromettono la qualità dei frutti. Un esempio di potatura lo troviamo nella vita di San Paolo (vedi prima lettura). Grazie ad essa diventa il grande apostolo delle genti.
2. Rimanere in Cristo per portare frutto: il nostro rapporto col FIGLIO
“Rimanete in me e io in voi”. Per esprimere l’unione dei tralci alla vite, Gesù impiega il verbo “rimanere”, un verbo molto caro a Giovanni. Qui, nel brano di oggi, compare sette volte e una quarantina di volte in tutto il vangelo. Letteralmente il verbo significa “dimorare”. Il nostro rapporto con Cristo è quello di una dimora vicendevole: io in Lui e Lui in me. San Paolo esprime questa stessa realtà con l’espressione “essere in Cristo”, che troviamo innumerevoli volte (164) nelle sue lettere. “Non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me!” (Galati 2,20). Rimanere, dimorare, essere in Cristo significa essere inseriti in Gesù, lasciarsi guidare dalla sua Parola, avere il suo modo di pensare, di sentire e di agire. Questo è frutto di un lungo processo di frequentazione col Signore: “Maestro, dove dimori? – Venite e vedrete!” (Giovanni 1,38).
Scendendo al concreto della vita, dobbiamo ammettere che, purtroppo, smarrire questa sintonizzazione del cuore e della vita con Cristo non è poi tanto difficile. Ciò può avvenire in un modo quasi impercettibile e surrettizio, e subentra allora l’adeguamento ad una “mentalità mondana”. C’è tanta futilità, banalità, interessi effimeri e doppiezza che ci distolgono dalle cose importanti! Ci vuole una attenzione continua sui nostri pensieri, desideri e interessi. Bisogna effettuare periodicamente un esame di coscienza per vedere dove dimora il nostro cuore, perché “dov’è il tuo tesoro là sarà il tuo cuore” (Matteo 6,21).
“Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto”. “ In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto”. L’espressione “portare frutto”appare sei volte nel brano del vangelo. Qual è questo frutto? L’amore! “Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato.” (seconda lettura). Solo l’amore resterà, quando la nostra vita sarà sottoposta al fuoco della verità: “L’opera di ciascuno sarà ben visibile: infatti quel giorno la farà conoscere, perché con il fuoco si manifesterà, e il fuoco proverà la qualità dell’opera di ciascuno.” (1 Corinzi 3,13).
Pensiamo bene: il Signore ha investito tutto sulla nostra vita, correndo grandi rischi. C’è come una simbiosi tra la vite e i tralci. Senza la vite i tralci seccano e sono bruciati, ma senza i tralci la vite rimane sterile. “In ogni istante della vita, noi costituiamo un argomento pro o contro Gesù Cristo” (romanziere francese René Bazin, 1853-1932). “La più grande obiezione contro il cristianesimo sono i cristiani”, commenta il filosofo russo Nikolaj Berdjaev (1874-1948) a proposito dei tralci secchi.
3. La linfa della vite: il nostro rapporto con lo SPIRITO SANTO
È lo Spirito la linfa vitale che scorre nella vite e nei tralci. “Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui. In questo conosciamo che egli rimane in noi: dallo Spirito che ci ha dato.” (seconda lettura). Coltivare, curare il nostro rapporto con lo Spirito è la condizione indispensabile per condurre una vita cristiana feconda e rigogliosa. Per di più, vivendo noi in una condizione di “diaspora”, in un contesto di crescente secolarismo e marginalizzazione della fede, non possiamo sopravvivere senza “il conforto dello Spirito Santo” (prima lettura).
Per la riflessione settimanale
Troviamo nel vangelo di Giovanni tutta una serie di dichiarazioni in cui Gesù si auto-rivela (“Io Sono”, “egô eimì” in greco), due delle quali nel vangelo di oggi. Sono delle “epifanie” di Gesù. Alcune sono in forma assoluta: “Io sono”, ed evocano il nome divino (Esodo 3,14). Altre volte “Io sono” viene accompagnato da una specificazione, come nel vangelo di oggi: “Io sono la vite”. Vi propongo dieci. Accogliamole nel cuore e diamo la nostra adesione a queste sue rivelazioni in forma di preghiera, con un atto di fede, di speranza o di amore.
P. Manuel João Pereira Correia mccj
Verona, aprile 2024
Parla spesso per immagini Gesù, perché invece di chiudere e definire discorsi, desidera aprire sentieri di vita, che ciascuno può percorrere con libertà e con tutto se stesso. Quella della vite e dei tralci, che ci viene offerta in questa domenica, è ben conosciuta in Israele e in tutto l’Antico Testamento: Israele è la vite che il Signore ha piantato, come sposa feconda essa produce frutti di amore e, legata al suo Dio che ne è l’agricoltore, genera il vino della gioia.
Si tratta di un legame, che adesso in Gesù viene non solo rafforzato ma stabilito per sempre: Egli è la vera vite da cui si può trarre la linfa dell’amore di Dio che ci fa produrre frutti. Le false viti, quelle di una religiosità esteriore, che offre sacrifici ma non vive il legame d’amicizia con Dio, che moltiplica preghiere senza cambiare il cuore, che fa atti di culto senza vivere l’amore, sono viti che non producono frutto. Senza il legame autentico con il Signore, la vite della nostra vita religiosa e quella della nostra esistenza rischiano di inaridirsi e di essere devastate dagli animali selvatici.
Con l’immagine della vite e dei tralci, allora, Gesù vuole anzitutto presentarci il Dio-Amico che vuole fare “legame” con noi. Infatti, in ogni casa di Israele c’era anche una vite, che offriva a tempo debito le delizie e la gioia del vino alla famiglia che vi abitava, e offriva anche il riparo dal caldo e un senso di ristoro, stendendosi con i suoi rami e le sue foglie attorno alla casa. La vite, allora, era più che una semplice pianta: era parte della famiglia e con essa si stabiliva un legame quasi affettivo, mentre essa offriva linfa, ristoro, gioia e vita.
Gesù ci dice che vuole diventare “uno di famiglia”, vuole stabilire un legame, un’amicizia, una relazione d’amore con noi. E se gli permettiamo questo, di essere la vite della casa della nostra vita a cui siamo “legati”, allora Egli farà scorrere in noi la linfa del suo amore. E riceveremo forza nelle difficoltà, luce nelle oscurità, ristoro nella fatica. Porteremo frutti di amore, di gioia e di vita in tutte le nostre situazioni quotidiane. Se, invece, pur moltiplicando atti religiosi esterni, preghiere, devozioni e sacrifici, il Signore resterà ancora all’esterno della casa, un Dio sconosciuto e lontano, frequentato di tanto in tanto e senza legame con la nostra vita quotidiana, allora ci inaridiamo e non portiamo più frutto.
Il segreto di tutto è nel verbo “rimanere”. Non è nel fare, ma nel coltivare un legame di amicizia, una relazione personale, un’accoglienza continuativa della Sua Parola che ci trasforma. In un tempo così complesso e sospeso, in cui la tentazione è quella di lasciarsi andare nello smarrimento o ripetere le cose di sempre senza entusiasmo, ciò a cui siamo chiamati è restare con Lui. È accogliere sempre e di nuovo il Suo Vangelo. È imparare a riconoscere le false viti da cui pensiamo di trarre linfa, per scegliere sempre e di nuovo Lui. Solo così portiamo frutto: la vita si moltiplica e fiorisce di nuovi grappoli.
[Francesco Cosentino – L’Osservatore Romano]
La vite, i tralci e la potatura
Commentario a Gv 15, 1-8
Se nella domenica scorsa Gesù usava un’immagine sorta del mondo culturale dei allevatori di bestiame (per costruire l’allegoria del Buon Pastore), quest’oggi l’immagine scelta è quella della vite, legata alla vita degli agricoltori della riva orientale del Mediterraneo, dove è cresciuto Gesù stesso. Oggi il vino è molto conosciuto e consumato ovunque e penso che, anche se molti no conoscono direttamente la pianta che produce questa deliziosa bevanda, l’immagine usata da Gesù diventa significativa per tutti noi, di qualunque cultura. Vediamo di usarla per approfondire il nostro discepolato:
1. La vite, la pianta capace di trasformare gli elementi chimici in nuova vita
Gesù compara se stesso con la vite, che viene piantata e coltivata dal Padre perché dia buoni grappoli ‘uva. Gesù Cristo, con la sua personalità radicata nel Amore del Padre, passa ai suoi amici, comparati con i “rami” di un albero, la sua stessa vita ricevuta dal Padre, in modo che anche noi possano dare frutti abbondanti. Ci sono alcuni oggi che sembrano pensare che la vita può crescere e svilupparsi “autonomamente”, come se la vite potesse crescere e dare frutto senza una terra o senza un “coltivatore”. I discepoli di Gesù, invece, sappiamo molto bene che, senza l’amore fondante del Padre e senza la “vite” Gesù Cristo, noi non diamo frutto o i nostri frutti diventano acervi.
Altri, alcuni cristiani inclusi, sembrano confondere la Chiesa con una associazione politica, un’organizzazione umanitaria o un club di filosofi. Ma la Chiesa è, in primo luogo e soprattutto, la comunità di coloro, la cui vita è legata a Dio per mezzo di Gesù Cristo. Certamente, la Chiesa è e fa molte cose: La Chiesa possiede, per esempio, molte scuole e ospedali, e porta avanti molte altre attività con effetti sociali, economici, culturale or anche politici… Ma non confondiamo le cose: La Chiesa è, in primo luogo, un spazio di fede e di relazione con il Padre per mezzo di Gesù Cristo. Se venisse a mancare questa fede, subito mancherebbe anche la Chiesa e i suoi frutti sociali.
2. I tralci, che sorgendo dalla pianta e danno frutto
Gesù ci dice, che se Lui è la vite, noi siamo i tralci. San Paolo, usando un’altra immagine, dice che noi siamo i membri del suo corpo. Le due immagini sono molto efficaci per farci capire che senza Gesù noi non abbiamo vita né siamo capaci di dare frutto. Per questo dobbiamo evitare due pericoli:
* Rompersi, separarsi dalla pianta: Mi ricordo di quando ero giovane e accompagnavo mio padre a lavorare nella vigna. Quanta attenzione facevamo a non rompere y tralci, specialmente quelli molto carichi! Era tanto facile strapparli e perdere il promissorio frutto che portavano nella loro fragilità. La stesa cosa succede con noi, quando per incoscienza or orgoglio, arriviamo a pensare che possiamo arrangiarci fare da soli e ci separiamo da Gesù. Se cadiamo in questa tentazione, molto presto diventiamo secchi e sterili, incapaci di dare frutto o di maturare quelli che abbiamo già prodotto. E’ fondamentale rimanere uniti a Gesù nell’amore personale, nell’obbedienza ai suoi comandamenti, nella comunione ecclesiale, nella apertura allo Spirito Santo.
* Dimenticarsi la potatura: Gli agricoltori sanno molto bene che una vigna non potata diventa subito una vigna invecchiata e incapace di fare uve. Io stesso ricordo una vite che avevamo in una delle nostre comunità. Per qualche anno, nessuno si è preoccupato di potarla, con il risultato che, non solo non dava più uve, ma la vite stessa stava morendo. Quando abbiamo deciso di potarla, in molto poco tempo la vite si riprese vigorosamente e diede già al primo anno frutto abbondante. Il significato di questa allegoria per la nostra vita è molto chiaro, se vogliamo ascoltarlo: una vita che si “abbandona”, che non viene “potata” mediante la preghiera, l’ascolto della parola, il discepolato continuo… è una vita che diventa sterile e muore.
La vita e la missione del discepolo trovano la sua forza nella unione con Gesù; questa vita non darà frutto e muore, se non viene continuamente coltivata con l’ascolto della Parola, l’apertura allo Spirito, l’obbedienza ai comandamenti, la fedeltà alla comunità…
3. Il frutto: l’uva che produce il vino, capace di trasformare la vita in un banchetto di festa
Tutti noi vogliamo dare frutto, essere portatori di vita per noi e per gli altri. Ma bisogna ricordare che il frutto non è qualcosa di artificiale che si può “appicciare” dall’esterno sui rami degli alberi. Il frutto non viene dall’esterno ma dall’interno. Soltanto la vita interiore della pianta può portare la pianta a dare frutto. Lo stesso succede con il discepolo/discepola: darà frutto soltanto se ha una vita interiore, una relazione profonda con Gesù Cristo, e se si fa potare dal Padre continuamente. Se così fa, la sua vita darà molti frutti, come dice S. Paolo, frutti di bontà e generosità, di gioia e di pace, di umiltà e di servizio… frutti di vita nuova, la cui radice sta in Gesù Cristo, e i cui rami sono continuamente potati e coltivati dal Padre mediante il suo Spirito.
P. Antonio Villarino, MCCJ
Cristo, la vera vite che dà frutto
Atti 9,26-31; Sl 21/22; 1Gv 3,18-24; Gv 15,1-8
Il brano evangelico di questa domenica si trova al centro di quel lungo colloquio di Gesù coi suoi discepoli, intessuto di raccomandazioni e confidenze, che viene chiamato «discorso d'addio» o «testamento spirituale» (cf. Gv13, 31;17, 26). Ci domina l'allegoria della vigna, che è un'immagine classica dell'Antico Testamento per indicare i rapporti che intercorrono tra yahweh e il popolo dell'Alleanza: rapporti di cura, attenzioni, sollecitudini. Però, nonostante quest' amore, la vigna (Israele) risulta ingrata, delude le speranze di Dio, non produce i frutti attesi. Uno dei testi biblici che illustra questa delusione divino è quello di Isaia 5, 1-7. sullo lo stesso tema si può anche leggere Ct1, 2-8; 17, 1-10; sal 80; Mc12 (Vignaioli omicidi).
Nella pagina odierna di Giovanni occorre notare una novità significativa: la vigna non è più un popolo, ma la persona stessa di Gesù (" Io sono la vera vite"); occorre registrare anche l'aggettivo "vera" che ricorre con insistenza nel quarto vangelo per indicare la pienezza della realtà attuale rappresentata da Cristo (il vero o buon pastore, il vero pane del cielo). Gesù, vera vigna, è quindi l'Israele perfetto che corrisponde alle attese del vignaiolo celeste. Ma questa vite non è destinata a rimanere sola. Cioè Cristo, "vera vite", forma il popolo della nuova Alleanza, innestato sulla sua persona. Si tratta della Chiesa, che diventa in tal modo la nuova vigna di Yahwe, quella destinata ad essere all’altezza dell'amore, della cura e della sollecitudine di Dio. Pero, vengono definite due esigenze irrinunciabili, espresse con due verbi tipici di Giovanni: rimanere e portare frutti.
Rimanere (o dimorare), nel quarto vangelo, indica qualcosa di più di un legame superficiale, occasionale, provvisorio, ed esprime una realtà profonda, un’unione vitale, una "connivenza" duratura. Si tratta di dimorare nella Parola di Gesù (GV8,31), cioè bisogna che questa penetri nelle nostre arterie e venga assimilata fino a diventare la regola ispiratrice della condotta dei cristiani. Si tratta inoltre di dimorare in Gesù stesso (Gv6,56), cioè essere strappati a se stessi o decentrati ed avere la sua dimora e il suo centro, d'ora in poi, nel Cristo.
Lo scopo di tutto quanto è di favorire la fecondità del tralcio inserito nella vite (vera). Questo aspetto è posto in risalto dall' insistente ripresa (sei volte) dell'espressione "portare frutto". La condizione essenziale per arrivarvi è la comunione vitale con Gesù espressa dall' invito: «Rimanete in me e io in voi». Infatti, i rami inseriti nella vite sono e debbono essere fecondi.
Questa mutua appartenenza ("rimanete in me e io in voi") è anche la condizione per fare una preghiera efficace e per essere suoi discepoli: «Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato. In questo è glorificato il Padre mio, che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli». La rivelazione effettiva della gloria di Dio coincide con il "portare molto frutto" e "diventare discepoli di Gesù". “Rimanere in Gesù”, “il portare frutto” e “diventare discepoli di Gesù” sono quindi, dimensioni che si sovrappongono.
Il Cristo, la sua vita e il suo messaggio costituiscono dunque il terreno vitale in cui devono radicarsi i cristiani e la Chiesa. Se si radicano altrove (nella forza, nel potere, nella ricchezza, nel prestigio, nel successo, nei calcoli umani, ecc) possono essere tutto meno che la vigna del Signore.
Don Joseph Ndoum
“Voi siete i tralci”:
potati e fecondi per la Missione
Atti 9,26-31; Salmo 21; 1Giovanni 3,18-24; Giovanni 15,1-8
Riflessioni
Gesù nel Vangelo si identifica con la vite: “Io sono la vite vera” (v. 1). L’affermazione odierna va collegata alla serie di definizioni che Gesù dà di se stesso, raccolte dall’evangelista Giovanni: Io sono il Pane vivo” (Gv 6); “Io sono l’acqua fresca (Gv 4); “Io sono “Io sono la luce del mondo” (Gv 9); “Io sono la porta, il Buon Pastore” (Gv 10); “Io sono la risurrezione e la vita” (Gv 11), “Io sono la via, la verità, la vita” (Gv 14)… E oggi: “Io sono la vite, voi i tralci” (v. 5). Sono affermazioni che ci riportano all’auto-definizione del Dio dell’Esodo: “Io-Sono mi ha mandato a voi” (Es 3,14). Emerge in modo chiaro che le rivelazioni dell’identità di Dio, e di Gesù, sono per sé stesse un Vangelo, una buona notizia, e contengono una missione, un mandato da portare ad altri. Dopo l’ultima cena di Gesù con i discepoli, nel contesto di addio, già di per sé carico di significato ed emozioni, si inserisce il passo odierno del Vangelo sulla ‘vite e i tralci’, nel quale Gesù fa propria la ricca tematica biblica della vite, cantata dai profeti (Isaia, Geremia, Ezechiele…) e nei salmi (80). Egli è la vite vera del nuovo Israele, che non deluderà l’attesa divina, perché darà molto frutto.
Nel brano della vite e dei tralci c’è una rivelazione trinitaria: il Padre è l’agricoltore (v. 1), il Figlio è la vite, lo Spirito Santo è la linfa vitale e amorosa nel seno della Trinità e nel cuore dei discepoli, che sono i tralci. Gesù spiega: “Io sono la vite, voi i tralci” (v. 5). In ciascuno di noi c’è la stessa linfa di Cristo, la stessa vita! Cristo in me! Io in Cristo! Insieme per portare molto frutto e diventare suo discepolo! (v. 8). La condizione indispensabile per portare frutto sta nell’unione del tralcio con il ceppo. Gesù ci invita ad una vera simbiosi, cioè vita insieme: “perché senza di me non potete far nulla” (v. 5). Su questo punto l’esperienza della vita agricola non ammette alternative né eccezioni. Da qui l’insistenza di Gesù: “Rimanete in me e io in voi” (v. 4).
Nel corto brano odierno, appare per ben 7 volte il verbo “rimanere”. Non basta quindi una presenza qualunque, di passaggio, come un volo d’uccello di pianta in pianta, o di farfalla da un fiore all’altro; ‘rimanere’ indica stabilità, dimora fissa, residenza. Cioè amicizia, comunione, empatia, preghiera. Papa Francesco ci invita a invocare lo Spirito Santo e a essere «ben fondati sulla preghiera, senza la quale… l’annuncio alla fine è privo di anima». (*) Un’amicizia che si rafforza nella “potatura”, vissuta come necessario passaggio di purificazione e di fecondità, “perché porti più frutto” (v. 2). Ce lo assicura anche Giobbe, che di potature se ne intendeva: felice l’uomo che è corretto da Dio, le cui mani feriscono solo per risanare (cfr. Gb 5,17-18).
L’invito a fidarsi sempre di Dio - anche nei meandri del dolore - ci viene pure da san Giovanni (II lettura), perché “Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa” (v. 20). Egli ci dà lo Spirito Santo (v. 24), per aiutarci a non amare solo a parole, “ma con i fatti e nella verità” (v. 18). Una testimonianza di così grande amore la offre la storia di Saulo-Paolo (I lettura): dopo aver perseguitato i cristiani, scopre in essi la presenza di quel Signore che gli ha cambiato la vita. Sulla strada di Damasco non nacque solo un cristiano, ma l’apostolo, il grande missionario, che - grazie alla mediazione di Barnaba che lo presentò agli apostoli - predicava a Damasco e a Gerusalemme con coraggio, apertamente, nel nome del Signore Gesù (v. 27-28).
Va fortemente sottolineato il ruolo di Barnaba come amico, accompagnatore, consigliere e socio di Paolo nella missione. Le paure e i sospetti verso Paolo erano grandi, non solo perché era stato un persecutore, ma soprattutto perché «Paolo manifestava una forza ed una ampiezza di visione che sorprendeva e intimoriva i cristiani che già si erano assuefatti a una vita senza il soffio missionario che dimostrava il neoconvertito. Egli predicava con coraggio e non aveva paura di intavolare discussioni con Ebrei di lingua greca. Il suo messaggio e la sua veemenza gli creavano problemi, ma Paolo prendeva sul serio quello che tanto ci costa: amare il prossimo nella sua situazione concreta» (Gustavo Gutiérrez).
Invece di evadere in progetti personali, Paolo, potato e fecondato nella sofferenza, affronta incomprensioni e divergenze, accetta il confronto con gli altri apostoli, non si isola, ma cerca e mantiene la comunione con il gruppo. Un esempio per coloro che, anche oggi, si dedicano con passione alla causa missionaria del Vangelo e incontrano spesso difficoltà e contrasti anche all’interno della comunità ecclesiale. La tentazione di abbandonare sembrerebbe la scappatoia più facile. Paolo invece è rimasto, ha resistito, ha rinnovato la Chiesa dal di dentro. Cercando sempre la comunione. Con amore!
Parola del Papa
(*) «Lo Spirito Santo infonde la forza per annunciare la novità del Vangelo con audacia (parresia), a voce alta e in ogni tempo e luogo, anche controcorrente. Invochiamolo oggi, ben fondati sulla preghiera, senza la quale ogni azione corre il rischio di rimanere vuota e l’annuncio alla fine è privo di anima. Gesù vuole evangelizzatori che annuncino la Buona Notizia non solo con le parole, ma soprattutto con una vita trasfigurata dalla presenza di Dio».
Papa Francesco
Esortazione apostolica Evangelii Gaudium (2013) n. 259
P. Romeo Ballan, MCCJ