Hausgebet am Sonntag, 17. Mai 2020. Die folgenden Texte sollen eine Handreichung sein. Sie können sie in der vorliegenden Form verwenden. Gerne können Sie sie auch nach Ihren Vorstellungen ändern, andere Lieder aus-wählen, Texte im Wechsel lesen und Gebete oder Fürbitten frei formulieren.
GIRA LA TUA FRITTATA NELLA PADELLA PER AMORE DI DIO!
Giovanni 14,15-21
Ci rimangono due settimane del tempo di Pasqua. Domenica prossima celebriamo l'Ascensione del Signore e nella seguente la Pentecoste. La Parola di Dio ci invita a rivolgere il nostro sguardo verso questi appuntamenti.
Oggi Gesù ci promette il dono dello Spirito: "Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito della verità". Gesù parla cinque volte dell'invio dello Spirito in questi suoi discorsi di addio. Quattro volte ce lo presenta come il "Paràclito", un termine greco molto ricco che indica qualcuno chiamato accanto a sé per aiutare, un consolatore, un avvocato difensore... Tre volte lo caratterizza come "Spirito della verità": "Lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità" (Giovanni 16,13).
Qui il dono dello Spirito Santo è collegato all'amore ("Se mi amate..."). L'amore è il nido dello Spirito. L'apostolo Paolo afferma che: "Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé" (Galati 5,22). Tutte qualità connesse con l'amore.
L'AMORE, LA VIA DEL FARE
Il vangelo odierno mette in luce proprio l'amore (5 volte), ma, - sorprendentemente! - qui Gesù parla dell'amore verso la sua persona. L'amore che nell'Antico testamento era riservato a Dio (Deuteronomio 6,4-9), Gesù adesso lo richiama per sé. Se la vita cristiana nasce dalla fede, essa si manifesta e fiorisce nell'amore. Il vangelo di Giovanni si concluderà con una triplice richiesta di professione di amore, dove Pietro rappresenta ciascuna e ciascuno di noi e la Chiesa tutta intera: "Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?" (Giovanni 21,17). Quale onore ci fa Dio chiedendo la nostra amicizia! Dio ha un cuore da innamorato!
Gesù afferma che l'amore verso di lui si manifesta nell'osservanza dei suoi comandamenti: "Se mi amate, osserverete i miei comandamenti". Lo troviamo ripetuto pressappoco due volte, come introduzione e conclusione del brano del vangelo di oggi. Ma non si tratta certamente di nuove regole, norme o leggi (ne abbiamo già fin troppe!). Poco prima Gesù parla di un "nuovo comandamento", quello dell'amore vicendevole, distintivo dei suoi discepoli (13,34-35). Ne parlerà ancora altre due volte. Gesù è preoccupato per i suoi, che rimangano uniti dopo la sua partenza, e per questo dice loro: "Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri" (15,17). Ma come mai parla di comandamenti, al plurale? Possiamo pensare che si riferisca in generale ai suoi insegnamenti da custodire, ma soprattutto alle due dimensioni inscindibili dell'amore: amare Dio e i fratelli.
Non è, però, il fare che arriva all'amore, ma è l'amore la via del fare. L'amore è il motore della vita. Lo sanno bene gli innamorati. Diceva Sant'Agostino, un innamorato anche lui: "Sia in te la radice dell’amore, poiché da questa radice non può procedere se non il bene. Ama e fa ciò che vuoi!" E l'apostolo Paolo dirà: “L'amore di Cristo ci spinge” (2Corinzi 5,14). Oserei pensare, dunque, che l'affermazione di Gesù non metta l'osservanza come condizione dell'amore, ma l'amore come premessa per l'osservanza. E quando Gesù dice: "Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama" ... non potrebbe essere applicato anche al non credente?
"IN", LA PREPOSIZIONE DELL'AMORE
Richiama la mia attenzione l'insistenza di Gesù sulla comunione profonda creata da questo amore: una in-abitazione reciproca. "In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi". Anche se troviamo altre preposizioni come con voi, presso di voi, da voi, quella privilegiata è in voi, in me, nel Padre... Questa proposizione in (έν, in greco) appare circa 25 volte in questi due capitoli 14 e 15 con questa connotazione di intimità profonda, di immanenza, di abitazione reciproca. Ecco perché Paolo dice che siamo "tempio di Dio" (1Corinzi 3,16). Il nostro cuore è fatto per essere abitato. Ma chi lo abita?
METTERSI ALLA SCUOLA DEI MISTICI INNAMORATI
Forse non abbiamo interiorizzato abbastanza questa realtà sorprendente e meravigliosa: siamo dimora di Dio, abitati da Dio, immersi in Dio. L'hanno ben capita, invece, i mistici. Porto l'esempio di un mistico francese del '600 che mi appassiona da diversi anni: Lorenzo della Risurrezione (Laurent de la Résurrection), fratello laico in un monastero carmelitano a Parigi. La spiritualità da lui vissuta e insegnata era molto semplice: coltivare il senso della presenza di Dio, attraverso "l'esercizio continuo di questa divina presenza", ad ogni istante ed in ogni circostanza, facendo il cuoco, prima, e poi il calzolaio in un grande convento:
«Nel trambusto della mia cucina, dove a volte più persone mi parlano assieme di cose diverse, possiedo Dio, così tranquillamente come se fossi in ginocchio davanti al SS. Sacramento. Non è necessario avere grandi cose da fare. Io rigiro la mia frittata nella padella per amore di Dio e quando l’ho fatta, se non mi rimane nient’altro, mi chino per terra e adoro il mio Dio che mi ha concesso la grazia di farla, dopo di che mi rialzo più felice di un re".
Malgrado fosse zoppicante, dovuto ad una ferita in guerra, e maldestro ("grossolano per natura e delicato per grazia", secondo il filosofo e teologo Fénelon, suo ammiratore), Fra Lorenzo, senza dare mai segni di impazienza o di fretta, era puntuale e preciso nei suoi compiti. Ma...
"Se a volte sono un po' troppo assente da questa presenza divina, Dio si fa subito sentire nella mia anima... con movimenti interiori così affascinanti e così deliziosi che mi vergogno a parlarne".
Giro anch'io la frittata della mia riflessione domenicale, sperando che sia appetibile o per lo meno non indigesta, ma in ogni caso fatta per amore!
P. Manuel João, comboniano
Castel d'Azzano (Verona), maggio 2023
Gesù promette lo Spirito Santo
At 8,5-8.14-17; Salmo 65; 1Pt 3,15-18; Gv 14,15-21
Siamo ancora nel tempo pasquale, ma la Parola di Dio di questa domenica ci prepara alla Pentecoste, ormai vicina. La prima lettura ci racconta come la Chiesa delle origini iniziò la sua diffusione fuori di Gerusalemme, precisamente nella Samaria, questa regione che era già stata visitata da Gesù stesso e che era considerata eretica agli occhi degli Ebrei fedeli. Molti accolgono con gioia la predicazione del diacono Filippo, e vengono battezzati. Pietro e Giovanni effondono con l’imposizione delle mani la pienezza dello Spirito Santo su di loro.
Questa piccola pentecoste conferma la nascita ufficiale della Chiesa in Samaria e conferma anche la presenza di Gesù Cristo, il Signore risorto, nella sua Chiesa. A nome della Chiesa di Gerusalemme, Pietro e Giovanni autentificano l’azione missionaria di Filippo, che rovescia le barriere di disprezzo che separavano Ebrei e Samaritani.
L’opera missionaria richiede allora, al di là delle nostre paure o timidità, di saper osare annunciare il vangelo, con la fiducia che Dio chiama a Lui e alla sua salvezza tutti gli esseri umani. Il brano della seconda lettura sembra un po’ estraneo a questa tematica. Questo testo di Pietro è piuttosto destinato a confortare i cristiani nella prova della persecuzione. Il loro atteggiamento riguarda la testimonianza che sono chiamati a dare, con dolcezza, rispetto e retta coscienza, a chiunque domandi la ragione della speranza che è in loro. È la rettitudine di vita dei cristiani che rende veramente conto della loro speranza. Possono contare sulla presenza di Cristo Signore nei loro cuori. Questa è la ragione profonda della loro fede e speranza.
Nel brano evangelico domina il discorso di addio, che è anche il suo testamento, che Gesù rivolse agli apostoli la sera del Giovedì Santo, nel cenacolo. Gesù promette loro “un altro Consolatore, lo Spirito di verità”, che sarà sempre con loro. Questo fa parte dello schema letterario dei discorsi di addio nella tradizione biblica e giudaica, dove il padre designa l’erede o il suo sostituto. Gesù annuncia dunque la venuta del suo “successore”. L’appellativo “Consolatore” è una traduzione del vocabolo greco Parakletos, che può anche essere reso con “intercessore”, “avvocato” e “difensore”, colui che assiste nel processo. Il ruolo del nuovo Paraclito promesso da Gesù è indicato dall’espressione “Spirito di verità”. Egli deve prolungare l’opera e la missione di Gesù che consiste nel comunicare la verità ai discepoli. Nell’ introduzione della promessa del dono dello Spirito, Gesù dice ai suoi discepoli: “Se mi amate, osservate i miei comandamenti…”.
Per comprendere questa espressione di Gesù, bisogna evitare un’interpretazione spesso riduttiva del termine “comandamenti”. Non si tratta anzitutto di una visione meramente legalistica e giuridica, con norme, leggi, divieti o prescrizioni a osservare, ma bisogna attribuire al termine “comandamenti” il senso più ampio e positivo di “insegnamenti”. Infatti, è precisamente questione qui dell’insegnamento di Gesù nel suo complesso. Il suo messaggio non è una lista di rigide disposizioni legislative, ma un Vangelo, una “buona notizia”. Ed è proprio questo Vangelo che va accolto come Verità, Via e Vita, cioè che deve diventare principio ispiratore della nostra condotta, non in una ottica di paura, ma in una prospettiva di libertà e di amore. Nel vangelo di Giovanni “osservare” o “accogliere i comandamenti” equivale al comandamento unico di “amare”. Si tratta di entrare in un dinamismo di amore, e non in quello di sentirsi a posto, perché i propri comportamenti risultano “regolamentari”: “Chi mi ama sarà amato dal Padre mio”.
Il discepolo di Cristo non è quindi uno obbligato a portare pesi o gioghi opprimenti, è uno che accetta l’invito a inserirsi in una comunione di vita e in una logica di amore. Il cristiano vero sa di essere amato dal Padre, e il suo modo di amare è spontaneo e gratuito, a imitazione dello stile di amore di Dio nei nostri confronti. Lui ama perché la sua natura è amore. Non si lascia, per esempio, imporre dei limiti dal comportamento dell’uomo: “Egli fa sorgere il suo sole sui malvagi e sui buoni, e manda la sua pioggia sui giusti e sugli ingiusti” (Mt5,45) Gesù dice inoltre: “Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi mi ama”. Questi è il credente al quale viene fatta la promessa: “Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui”. Ecco la singolare situazione del cristiano, che ama il Signore e osserva i suoi comandamenti: egli è come avvolto dalla presenza permanente ed efficace di Dio.
Don Joseph Ndoum
La fede inizia dal lasciarsi amare
«Se mi amate...». Sono le ultime parole di Gesù, prima del suo addio. E qui siamo invitati alla svolta, a passare da una mentalità semplicemente religiosa alla relazione che nasce dalla fede: la religione dice “osserva i comandamenti e allora sarai capace di amarmi e anche io ti amerò”; la fede, invece, dice: “Se mi ami, allora sarai capace di osservare i comandamenti e li scoprirai come fonte di vita, di gioia e di pace”. La rivoluzione non è da poco, ma è il segno di quel capovolgimento operato da Gesù che ha liberato per sempre il cuore dell’uomo da ogni prigione, da ogni gabbia e da ogni rigidità: il punto di partenza, nella vita come nella relazione con Dio, è l’amore e non la regola. È la Sua grazia e non lo sforzo. È lo Spirito di verità che Egli ha mandato nei nostri cuori, e non i nostri meriti.
L’avvio di questo Vangelo ha, dunque, qualcosa di straordinario: “se mi ami”. Solo se ami, se apri il cuore all’incontro con Dio, se ti lasci amare da Lui, se come si fa con un amante passi le ore a lasciarti guardare e accarezzare, allora sarai capace di abbracciare il Vangelo e vivere i comandamenti. Papa Francesco lo ricorda spesso: il cristianesimo non è un insieme di regole, una lista di precetti da osservare, un prontuario di atteggiamenti morali da rispettare, ma è la gioia di un incontro. L’amore che sgorga da questo incontro con un Dio che non ci lascia orfani ma vuole abitare in noi, rompe il guscio dei nostri egoismi e si spinge oltre il recinto delle nostre paure e insicurezze, rendendoci capaci di vivere come il Cristo, osservando i suoi comandamenti, vivendo la Sua Parola, compiendo i suoi gesti. Non saremo mai capaci di vivere il comandamento dell’amore, di adorare Dio sopra ogni cosa, di trovare Dio nelle attività quotidiane, di servire Dio nei fratelli, se prima non ci saremo lanciati nell’avventura di una relazione d’amore con Lui. La fede inizia dal lasciarsi amare, non dallo sforzo di raggiungere la vetta con le mie forze.
In questa domenica contempliamo allora un Dio mendicante d’amore: non detta regole da osservare, non pone condizioni, non ci costringe con la forza, ma semplicemente invoca un’amicizia e ci chiede accoglienza e ospitalità. Un Dio umile e fiducioso che non ci obbliga con un dovere, ma chiede di poter abitare in noi, per trasformare la nostra vita e rendere capaci anche noi di far circolare l’amore: se mi ami, resteremo uniti come gli amanti; se mi ami sarai trasformato dal di dentro; se mi ami, imparerai ad amare anche tu.
Ecco un Dio che cerca spazi nel cuore per allargarlo, trasformarlo e renderlo strumento di amore nel mondo. Ecco un Dio che, alla perfezione esterna dell’osservanza delle regole, preferisce un cuore fragile che però batte d’amore per Lui.
[Francesco Cosentino L’Osservatore Romano]
Tra la dimora e la strada
Don Antonio Savone
Tra la dimora e la strada: sono i due ambiti nei quali ci trattiene quest’oggi una liturgia della Parola che ci invita a vivere non a scompartimenti. Tra la dimora e la strada… un’esperienza di sconfinamento tra ciò che sperimenti nel profondo del tuo cuore e ciò che sei chiamato a tradurre mentre sei per via. Pensati così i credenti, come persone che si lasciano abitare dal Signore e dal suo Spirito e nello stesso tempo come persone che non temono di stare in cammino.
Tanto, troppo nostro stare lungo la strada, nella vita, non ha un luogo di interiorità, non attinge a ragioni profonde che facciano sì che i passi siano un pellegrinaggio e non un vagabondare. Penso anzitutto al nostro mondo relazionale. Quanti i gesti senza contenuti e senza verità: parole di cortesia senza cortesia, parole di saluto senza accoglienza, gesti di amore senza amore, gesti di vita senza fecondità! Quanto vivere fisicamente insieme e col cuore altrove, senza più i riti del cuore ma solo adempimenti formali!
Penso poi all’esperienza ecclesiale: spesso pronti a organizzare eventi esterni senza essere capaci di gustare e vivere la presenza del Signore. Come se bastasse proporre iniziative e nello stesso tempo lasciare la propria casa, quella del cuore, vuota. Quanta mentalità aziendale, quante parole usate e urlate, quanti gesti che non nascono da un cuore che si lascia plasmare da quel Dio che ha scelto di porre la sua dimora in chi, ascoltando la sua voce, gli apre appena arriva e bussa.
Chi ha fatto almeno una volta l’esperienza dell’amore sa che può vivere della presenza dell’altro anche quando l’altro non c’è. Riesce a stare nella vita con uno sguardo riconciliato solo chi ha qualcuno di cui può dire: tu sei davvero tutto per me. Tu sai che non vivi più per te stesso bensì per qualcun altro. Ma non è possibile – ci ripete la liturgia di questa domenica – annunciare con la bocca, nella vita, qualcuno che hai smesso di adorare dentro di te: adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori. Non è possibile vivere alla luce della memoria dell’altro nella tua vita, se hai smesso di custodirlo nel tuo cuore. Quanta illusione da parte nostra di essere segno di qualcuno che forse abbiamo estromesso. Come se bastassero solo dei segni esterni, un abito o dei riti!
Come dovette essere diversa la presenza di Filippo – di cui ci narra la pagina di Atti – se ad un certo punto l’autore può attestare che vi fu gioia nella città. Filippo aveva trovato un cuore aperto, disponibile in persone di per sé escluse dalla possibilità di accedere a un’esperienza di vita nuova. Ma è anche vero che la sua stessa presenza era una presenza che lasciava il segno. Penso alla mia presenza: quale segno lascia? Filippo stava fuggendo a motivo di una persecuzione ma la sua presenza diventa il segno di un Dio che inaspettatamente apre strade nuove in spazi insperati. Paradossalmente, un’esperienza di rifiuto permetterà un nuovo inizio grazie ad un uomo all’apparenza fuori dagli schemi ma con un cuore ben radicato nel Signore.
Quando il cuore è abitato comprendi che sei chiamato a stare lungo la strada con uno stile ben preciso: con dolcezza e rispetto. Mai urlando, neanche le cose di Dio. Mai offendendo. Mai brandendo la fede come fosse una spada. Mai con declamazioni ipocrite ma con una vita che ha il gusto del vangelo. Questo restituisce gioia. Anche nelle nostre città. Se ti lasci impregnare dello Spirito di Gesù, del suo modo di vivere, del suo modo di amare, tu diventi la dimora di Dio in mezzo agli uomini. Ecco la dimora di Dio! Si dovrebbe poter dire di me, di te. Una dimora mobile, itinerante, proprio come lo era stata la tenda della presenza di Dio mentre accompagnava il cammino di Israele e proprio come lo fu la carne di Gesù.
Lui se ne va ma la sua presenza non viene meno grazie a coloro che si lasciano animare dal suo stesso Spirito. La sua presenza non è legata ai toni urlati dell’arroganza o dell’esibizione. Il ricordo della sua presenza, il segno che lo si ama davvero è legato ai gesti di chi ha attenzione per chiunque, al gesto di chi ha cura di una ferita, al gesto di chi ha occhi per la stanchezza dell’altro, al gesto di chi sta nella vita con passione, con disponibilità, con il cuore e non con il calcolo.
Se mi amate, osserverete i miei comandamenti. Facciamo fatica a tenere insieme amore e comandamento. Eppure si tratta di due modi per esprimere il grado di appartenenza a qualcuno: infatti, adempiere i desideri di chi abbiamo amato è il solo modo per custodire la comunione con lui.
Antonio Savone
http://acasadicornelio.wordpress.com
ENZO BIANCHI
Atti 8,5-8.14-17; Salmo 65; 1 Pietro 3,15-18; Giovanni 14,15-21
Domenica scorsa nei discorsi di addio di Gesù abbiamo ascoltato quella sua richiesta chiara e decisiva: “Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me” (Gv 14,1). Gesù chiede che la stessa fede che i discepoli pongono in Dio la pongano anche in lui: egli è affidabile, in tutta la sua vita si è mostrato tale, sicché merita la stessa fede riposta in Dio. Nel testo del vangelo di oggi, immediatamente successivo a quello di domenica scorsa, Gesù chiede ai discepoli di amarlo, di nutrire un vero amore per lui. Ciò che nello Shema‘ Jisra’el (cf. Dt 6,4-9) viene chiesto al credente: “Amerai il Signore tuo Dio” (Dt 6,5), Gesù ha l’audacia di chiederlo per sé. Ma noi dobbiamo chiederci che cosa significa amare Dio, amare Gesù.
Non è facile rispondere e occorre capire bene quale amore il Signore indica e vuole nei suoi confronti. Noi umani conosciamo l’amore soprattutto come desiderio, è la nostra esperienza nelle storie d’amore e nella vita quotidiana: amiamo quando pensiamo all’altro, quando desideriamo la sua presenza, quando desideriamo il suo amplesso, quando ricordiamo l’altro con nostalgia e dunque lo invochiamo. In questo amore Dio diventa l’Altro, ma l’Altro come oggetto, e lo si ama come si ama una donna, un uomo, un figlio.
Ma Dio può essere amato così, lui che è invisibile, che non possiamo vedere? Dobbiamo in verità vigilare molto sull’inganno insito nel movimento di amare Dio. Ascoltando con attenzione la Bibbia, ci rendiamo che molte volte Dio chiede all’uomo di amarlo e che molte volte l’uomo risponde a questo invito amando Dio, ma comprendiamo anche che questo amore dell’uomo verso Dio non può essere ridotto a desiderio, a passione, ma che deve avere i connotati di un amore che deriva dall’ascolto di Dio; di un amore – potremmo dire – obbediente (da ob-audire), un amore che è ascolto della parola, della volontà di Dio, e nello stesso tempo assenso ad essa.
E così amare Gesù non può significare farne l’oggetto del nostro desiderio, anche perché in tal modo si rischia di amare una proiezione nostra, un’immagine di Gesù da noi manufatta. In questo caso il nostro amore si infiamma, diventa più focoso, ma è amore per un nostro prodotto, per un idolo. L’amore autentico per il Signore, invece, si lascia plasmare dalla parola che il Signore ci rivolge, e dunque è sempre realizzazione della parola di Dio, è un fare ciò che lui comanda e vuole. Quando un cristiano sostituisce la volontà del Signore alla propria, allora ama il Signore; quando un cristiano vive in sé “gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù” (Fil 2,5), allora ama Gesù.
Per questo Gesù dice: “Se mi amate, osserverete i miei comandamenti”; il che significa anche: “Se voi non li osservate, allora non mi amate veramente, anche se credete di amarmi per il desiderio di Dio, del Signore che vi abita”. L’amore di desiderio non è sufficiente, e noi che dissociamo facilmente amore e obbedienza facciamo difficoltà a capirlo: ci è più facile l’amore che crediamo di leggere nei mistici, amore ardente per Dio fino a consumarsi… No, Gesù dice: “Voi siete miei amici, se fate ciò che vi comando” (Gv 15,14).
Questo è l’amore liberante del Signore in noi e l’amore vero in noi per lui: non l’amore di se stessi nell’altro, non la proiezione di un’immagine da noi fabbricata e applicata su Gesù per amarlo di più, ma un amore che è imitatio Dei, che è bisogno di conformità a Cristo, che è sequela ovunque lui vada (cf. Ap 14,4), per essere sempre con lui vivendo come lui vuole che noi viviamo. Amare Dio è volere ciò che lui vuole, è amarlo come lui ama.
Affinché questo possa compiersi in noi, allora Gesù promette “un altro Paraclito”, un altro accanto a noi (pará, “chiamato”; kletós, “chiamato”), un’altra guida, un altro difensore, sempre con noi come Soffio di verità e di fedeltà che ci può ispirare, sostenere e aiutare a compiere l’opera che Dio ci affida. Così i discepoli non sono orfani: Gesù non è più sulla terra accanto a loro, ma colui che è sempre stato il compagno inseparabile di Gesù, resterà con loro e in loro, con noi e in noi. È Spirito di amore – non dimentichiamolo – e ci insegnerà l’amore, ci ordinerà l’amore, accrescerà in noi l’amore per Dio e per i fratelli e le sorelle che sono con noi nel mondo. E amando in tal modo si conosce Dio.
Enzo Bianchi
http://www.monasterodibose.it
Adorare Dio
nei nostri cuori
Don Angelo Casati
Questo essere l’uno nell’altro. Quanta intimità. Anche con Dio, anche con Gesù. Può essere che qualcuno abbia ascoltato -annota un autore- con un malcelato senso di fastidio queste parole di Gesù: “Sembra roba da suore e non delle più giovani, qualcosa che fa venire in mente un cristianesimo tutto giocato nel primato, ignaro delle fatiche e delle angosce dell’umanità, al di fuori dei problemi che affliggono la gente”. (D. Pezzini).
Lo Spirito -diceva Gesù- voi lo conoscete, perché egli dimora presso di voi e sarà in voi… “Io sono nel Padre e voi in me e io in voi”. A prima vista sì, possiamo ritenere eccessivamente intimistiche queste parole di Gesù, che richiamano un’altra dimora, una dimora meno pensata e di cui ci si preoccupa meno. Ci preoccupa di più la dimora esteriore, la dimora della casa -la casa edificio-. Non dico che non contino: noi dovremmo lavorare per una società che permetta a tutti di abitare una casa. Ma c’è un’altra dimora, altrettanto importante, starei per dire più importante, tanto che se non c’è questa, la dimora interiore, anche la dimora esteriore perde di calore e di luminosità. Ed è l’altro. Pensate, l’altro come dimora. Se si è in una casa, anche bella, ma chi vive con te fisicamente, è fuori con i suoi pensieri, non ha dimora in te, che vita è? che casa è? Questo per dire che quando Gesù ci parla di lui che dimora in noi e di noi che dimoriamo in lui, non ci dice cose così astratte, ma cose che si avvicinano molto all’esperienza dell’amore, che è un dimorare uno nell’altro fisicamente e spiritualmente e l’altro è diventato tua dimora. Certo potremmo usare altre immagini: mi sono venute alla mente le immagini del Cantico dei Cantici, che ho ascoltato, sempre con emozione, giorni fa, a un matrimonio.
E ho pensato che in qualche misura -se sta questo discorso- potrebbero essere riferite anche al rapporto dei discepoli con il Signore.
“Mettimi come sigillo sul. tuo cuore come sigillo sul tuo braccio Perché forte come la morte è l’amore… Le grandi acque non possono spegnere l’amore né i fiumi travolgerlo”. (Ct. 8, 6-7)
Questa esperienza per cui l’altro -il tuo amato, la tua amata o anche Dio- è diventato quasi parte di te che è come se fosse scritto -scritto in modo incancellabile- nel tuo cuore, come se fosse scritto sulla tua pelle, per sempre.
Gesù parla di una dimora in lui e di un suo dimorare in noi. E così ci fa avvertiti che la fede -la fede in lui- non è semplicemente qualcosa di razionalistico, non è semplicemente fatto di testa, ma anche di cuore e chiede spazi, anche spazi di cuore, gli spazi della relazione.
Era bellissimo l’invito che apriva oggi la lettera di Pietro: “Carissimi, adorate il Signore Cristo, nei vostri cuori”.
Oggi, qua e là, la si sente nell’aria questa accusa: “Voi preti ci avete insegnato ad adorare Dio nelle chiese, non ci avete insegnato ad adorare Dio nei nostri cuori”.
Sì, nel silenzio del cuore. E sentire che lui, il Signore, la sua Parola, prende dimora in te. E sentire che anche questa relazione con il Signore chiede tempo, ha bisogno di essere alimentata, come ogni altra vera relazione.
Certo le parole di Gesù – sulla dimora interiore – potrebbero essere fraintese in senso intimistico. Ma se le leggiamo nel loro contesto, ci accorgiamo che Gesù subito le colloca nell’orizzonte concretissimo dell’accogliere e osservare i suoi comandamenti, in primis il comandamento dell’amore fraterno. “Chi accoglie i miei comandamenti” – dice Gesù – “e li osserva, questi mi ama”. Vedete: i comandamenti… devono diventare un fatto di cuore.
Mi colpiva ancora una volta il verbo osservare. Noi lo abbiamo appiattito nel senso di una osservanza esteriore. Ma osservare non significa anche guardare con attenzione, indugiare con lo sguardo, con la voglia di interpretare?
I comandi del Signore non come parole solo da eseguire, ma da osservare e scrutare.
Don Angelo Casati
http://www.sullasoglia.it/
Lo Spirito dà vita e gioia
e spinge alla Missione
Atti 8,5-8.14-17; Salmo 65; 1Pietro 3,15-18; Giovanni 14,15-21
Riflessioni
Un clima di addio si respira nel lungo discorso-conversazione-preghiera di Gesù con i suoi amici dopo l’Ultima Cena (Vangelo): abbondano le emozioni, ricordi, domande, timori... Ma su tutto ciò prevale la promessa rassicurante del Maestro: “Non vi lascerò orfani: verrò da voi” (v. 18); il Padre vi darà un altro Consolatore… per sempre (v. 16). Gesù promette “lo Spirito della verità” (Gv 14,17; 16,13); lo presenta come difensore e Paràclito (Gv 16,7-11), come dono a chi prega (Lc 11,13), come perdono dei peccati (Gv 20,22-23), come Spirito che grida in noi “Abbà, Padre!” (Rom 8,15). Insomma, lo Spirito che Gesù promette ai discepoli è un vero “Paràclito” (v. 16): parola di uso forense per indicare una ‘persona chiamata per stare accanto’ (v. 17) come soccorritore, protettore, difensore. Quindi una presenza amica, una compagnia intima e affettuosa.
Egli è Spirito d’amore in seno alla Trinità e dentro ciascuno di noi; è nuovo principio di vita morale nell’osservanza dei comandamenti. Infatti, non basta presentare la legge morale perché questa sia osservata. La pura legge è come la segnaletica sulle strade: indica la direzione giusta, ma è incapace di muovere l’auto; occorre un motore. Gesù oltre ad indicarci la via, ci comunica anche la sua forza, il suo Spirito, per procedere verso la meta. Per amore! Si osserva la legge con uno Spirito differente: come espressione e segno d’amore! Nella gratuità e reciprocità (v. 21).
Lo Spirito anima la missione dei discepoli, presso tutti i popoli, come si vede nella Pentecoste, fino ai confini della terra (cfr. Atti 1,8). (*) Lo si vede anche nella fondazione della Chiesa in Samaria (I lettura), che è la seconda comunità (dopo Gerusalemme), e sarà seguita da Antiochia e altre. Agli inizi della comunità di Samaria troviamo un diacono, Filippo (v. 5): egli vi arriva fuggendo dalla persecuzione dopo l’uccisione di Stefano, predica Cristo, è ascoltato con interesse, vi compie prodigi, battezza, c’è “grande gioia in quella città” (v. 8). Sono i segni iniziali di una comunità di fede, che più tardi riceverà il suggello degli Apostoli Pietro e Giovanni con il dono dello Spirito Santo (v. 17). Anche la fondazione di Antiochia ha inizi simili, per opera di cristiani dispersi dopo la medesima persecuzione; gli apostoli vi arriveranno in seguito.
La storia della Chiesa missionaria è piena di vicende simili; quasi tutte le comunità cristiane iniziano con l’opera di laici: un catechista, una famiglia, alcune religiose, un gruppo di laici e laiche (la ‘Legione di Maria’, per esempio, e altri). Solo più tardi arrivano il sacerdote e il vescovo, con i sacramenti dell’iniziazione cristiana e l’organizzazione ecclesiale. Un caso emblematico è quello degli inizi della Chiesa in Corea (sec. XVIII): alcuni laici coreani, di ritorno dalla Cina, dove avevano trovato la fede cristiana e il battesimo, portarono con sé libri cristiani e cominciarono ad annunciare il Vangelo di Gesù. Soltanto alcuni decenni più tardi arrivarono in Corea il primo sacerdote dalla Cina e i primi missionari dalla Francia.
La Chiesa è una comunità di credenti in Cristo, i cui membri - come i destinatari della lettera di Pietro (II lettura) - sono “pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi” (v. 15). Nelle pagine degli Atti si respira la freschezza missionaria caratteristica delle prime comunità cristiane. Una freschezza e un ardore che diventano contagiosi e che non si possono né si devono occultare. A ragione si afferma che “i cristiani sono ridicoli quando occultano ciò che li rende interessanti” (Card. J. Daniélou). La Chiesa del Risorto è una comunità missionaria, portatrice di un messaggio di vita, gioia e speranza da annunciare a tutti i popoli, come dichiara il Concilio: “La comunità dei discepoli di Cristo è composta di uomini, i quali, riuniti insieme nel Cristo, sono guidati dallo Spirito Santo nel loro pellegrinaggio verso il Regno del Padre, ed hanno ricevuto un messaggio di salvezza da proporre a tutti” (GS 1).
Parola del Papa
(*) «Con questa fiducia evangelica ci apriamo all’azione silenziosa dello Spirito, che è il fondamento della missione. Non potrà mai esserci né pastorale vocazionale, né missione cristiana senza la preghiera assidua e contemplativa. In tal senso, occorre alimentare la vita cristiana con l’ascolto della Parola di Dio e, soprattutto, curare la relazione personale con il Signore nell’adorazione eucaristica, “luogo” privilegiato di incontro con Dio. È questa intima amicizia con il Signore che desidero vivamente incoraggiare, soprattutto per implorare dall’alto nuove vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata».
Papa Francesco
Messaggio per la Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni (2017)
P. Romeo Ballan, MCCJ