Continuiamo a leggere il capitolo sesto di Giovanni, che abbiamo cominciato a leggere domenica scorsa con il segno dei pani abbondanti. In mezzo tra le due letture c’è un testo che non abbiamo letto e che parla di Gesù che sparisce della folla e della gente che lo cerca affannosamente. Quello che leggiamo oggi è precisamente la risposta di Gesù alle inquietudini della gente. Con questo Giovanni ci spiega chiaramente la fede dei primi discepoli che credevano in Gesù come nel vero Pane della Vita.
“Io sono il Pane della vita”.
Giovanni 6,24-35
Dopo il racconto della moltiplicazione dei pani, oggi, e per le tre prossime domeniche, continueremo la lettura del capitolo 6 del vangelo di Giovanni, una lunga catechesi sul significato del “segno” operato da Gesù. Rientrati dai pressi di Tiberiade, siamo adesso a Cafàrnao, nella sinagoga (v. 59). Ricordiamo il contesto. Dopo il miracolo “Gesù, sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, lui da solo”, mentre i suoi discepoli, sul fare della sera, salirono sulla barca e si avviarono verso Cafàrnao. La liturgia ha saltato questa seconda unità del capitolo (6,16-21), che racconta l’episodio di Gesù che, camminando sulle acque, raggiunge i suoi discepoli sulla barca.
Un discorso in dialogo
La riflessione sul “segno” è presentata in forma di dialogo tra la folla e Gesù. Troviamo tre domande e una richiesta della folla, alle quali Gesù risponde con altrettanti interventi.
1. “Rabbì, quando sei venuto qua?”. La FOLLA era rimasta sorpresa perché non aveva trovato Gesù dove era rimasto il giorno prima, cioè nei pressi di Tiberiade.
– GESÙ, invece di rispondere alla loro questione, va dritto all’intenzione della loro ricerca: “In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati”; e conclude con una esortazione: “Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna”.
2. “Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?”. La FOLLA chiede un chiarimento sul “darsi da fare”, cioè quali opere compiere.
– GESÙ risponde loro che una sola opera è necessaria: “Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato”.
3. “Quale segno tu compi perché vediamo e ti crediamo? Quale opera fai?”. Dato che Gesù reclama una fiducia totale nella sua persona, la FOLLA chiede un segno ulteriore, un’opera più grande di quella che Gesù aveva fatto. Gesù aveva sfamato una moltitudine di cinque mila e una sola volta, mentre, secondo loro, Mosè con la manna aveva nutrito tutto un popolo durante quarant’anni!
Al che GESÙ risponde: “In verità, in verità io vi dico: non è Mosè che vi ha dato il pane dal cielo, ma è il Padre mio che vi dà il pane dal cielo, quello vero”. Cioè, non Mosè ma il Padre aveva dato la manna in passato e adesso offre loro il “pane vero”, davvero “disceso dal cielo”!
Questa prima parte del dialogo si conclude con la “preghiera” della folla: “Signore, dacci sempre questo pane”. Ma quale pane?! Gesù risponde con una rivelazione: “Io sono il pane della vita!” IO SONO (“Egō eimì”, in greco) è una allusione al nome di Dio!
Fin qui si direbbe che la folla manifesta una certa ricettività. In fin dei conti, ha “cercato” Gesù, ha chiesto delle spiegazioni e ha formulato una specie di “preghiera”. Notiamo comunque una persistente ambiguità di fondo. Mentre Gesù cerca di portali alla lettura spirituale, profonda, del “segno” miracoloso, la folla rimane fissata sul pane materiale. Vedremo cosa succederà nelle prossime tre “puntate”. Non possiamo comunque giudicarli e tanto meno condannarli poiché loro non sono che lo specchio della nostra realtà!
Approfondire il segno
Cerchiamo di approfondire il “segno”, chiedendo al Padre di attirarci verso Gesù. Egli ci dirà domenica prossima: “Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato (v. 44). Facciamo questo lavoro di approfondimento attraverso tre vocaboli o concetti che sintetizzano il dialogo tra Gesù e la folla: ricerca, opera e pane.
1. La RICERCA. Il racconto inizia con la ricerca. La folla cerca Gesù e lo trova a Cafàrnao. La ricerca è un atteggiamento naturale di chi sperimenta la propria indigenza, nelle sue svariate forme. È anche l’atteggiamento del credente assetato di Dio: “Dall’aurora io ti cerco, o Dio” (Salmo 63). Il tema della ricerca è caro a Giovanni. Le prime parole di Gesù sono: “Che cercate?”, la domanda rivolta ai due che si mettono alla sua sequela (Giovanni 1,38). Denunciando la non-autenticità della ricerca della folla, Gesù interpella anche ciascuno/a di noi. Cosa cerco io nel mio rapporto con Cristo? Semplicemente un aiuto, un beneficio, una grazia o una consolazione? O cerco davvero di stabilire con lui un legame autentico di amore e di fiducia? La nostra risposta può sembrare quasi scontata. Solo un esame continuo e sincero delle nostre motivazioni più profonde porterà avanti un lungo, faticoso e talvolta perfino doloroso lavoro di purificazione.
2. L’OPERA. L’unica opera del credente è quella di cercare, di conoscere e di amare sempre più il suo Signore. Ogni giorno ci affatichiamo per guadagnarci il pane materiale. Un simile impegno dovrebbe essere messo nella conoscenza del Signore, attraverso la Parola di Dio, la preghiera e la riflessione sugli eventi della vita. Il giorno in cui non sono cresciuto nella conoscenza del Signore è stato una giornata sprecata!
3. Il PANE. Il pane è il tema centrale delle letture. Lo troviamo menzionato innumerevoli volte nella prima lettura, nel salmo e nel vangelo. Di quale pane si tratta? Sì, si tratta anche del pane materiale, perché quando manca il pane facilmente si perde la libertà. Lo vediamo ben ritrattato nella prima lettura (Esodo 16) dove il Israele rimpiange il tempo della schiavitù in cui poteva mangiare carne e pane a sazietà. Pur di mangiare, i braccianti si fanno sfruttare dal caporalato. Pur di mangiare, tante giovani donne sono costrette a prostituirsi sui marciapiedi delle nostre città. Pur di mangiare, svendiamo la nostra dignità, come Esaù per un piatto di lenticchie!…
Ma “non di solo pane vive l’uomo”! La Parola di Dio ci invita a prendere coscienza dei diversi tipi di fame che ci sono nel nostro cuore e di come e con che cosa li stiamo saziando. Gesù si propone come il “Pane della vita” che sazia la fame e la sete di vita che portiamo dentro di noi. Gesù non sta ancora parlando dell’eucaristia, ma di se stesso come la Parola discesa dal cielo. “La Parola si fece carne” (Giovanni 1,14). Possiamo allora pregare in verità come folla del vangelo: “Signore, dacci sempre questo pane”, il Pane che sei tu, Parola del Padre, discesa dal Cielo!
P. Manuel João Pereira Correia, MCCJ
Verona, agosto 2024
Quel segno di Gesù che esige la fede
Es 16,2-4.12-15; Sl 77; Ef 4,17.20-24; Gv 6,24-35
Il brano di questa domenica ci introduce più direttamente al discorso del “pane della vita”. La lettura del capitolo sesto di Giovanni, iniziata domenica scorsa, ci offre proprio l’opportunità di approfondire questo tema centrale del quarto vangelo cogliendone, in modo progressivo, i diversi aspetti.
Tutto è partito dal miracolo della moltiplicazione dei pani. La folla, che è stata saziata in maniera miracolosa, vuole prendere Gesù per farlo re. Gesù si ritirò sul monte, lui da solo. I suoi discepoli hanno preso la barca verso Cafarnao, e Gesù li ritrovò camminando sulle acque (Gv 6, 16-21). E’ nella sinagoga di Cafarnao che Gesù pronuncia il grande discorso sul pane di vita che inizia proprio col brano evangelico di questa domenica.
Mentre la gente che lo segue gli chiede semplicemente: “Rabbi, quando sei venuto qua?”, Gesù non risponde direttamente alla domanda. Egli dichiara: “In verità, in verità io vi dico”. Questa formula ha lo stesso significato della solita formula dei profeti dell’Antico Testamento, quando dicono: “Oracolo del Signore” o “Così dice il Signore”. Si tratta di una rivelazione. Infatti, il discorso sul pane di vita è una verità rivelata, che Gesù spiega con pazienza, passo passo, nonostante le obiezioni dei suoi ascoltatori che lo interrompono fino a tre volte.
La moltiplicazione dei pani avrebbe potuto aprire loro gli occhi; purtroppo, vi hanno visto solo un segno di potenza, e hanno concluso a delle possibilità di restauro nazionale e di una vita copiosa. Il discorso di Gesù mira a correggere queste idee. Egli denuncia allora l’ambiguità della loro ricerca: «voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati». Si tratta di una ricerca troppo interessata e riduttiva. Sono rimasti all’immediato, al livello delle soddisfazioni soltanto terrestri, non hanno capito l’essenziale. Hanno visto solo il buon momento del pasto, ma non hanno riconosciuto il Padre agendo attraverso il Figlio. In effetti, i miracoli di Gesù testimoniano nel suo favore, poiché sono il sigillo di cui Dio si serve per autentificare la missione di Gesù che è venuto nel mondo portare un cibo che si conserva fino alla vita eterna. Quindi Gesù insiste sulla distinzione da fare tra il cibo che non dura e il cibo che rimane per la vita eterna e che dà il Figlio dell’uomo. In altre parole: non di solo pane vive l’uomo ma di ogni parola che esce dalla bocca del Signore (cfr Dt 8, 3; Mt 4, 4). Gesù è preciso: “Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna”.
Gli ascoltatori di Gesù hanno capito molto bene questa distinzione che propone loro l’inviato autorevole e Figlio autentico di Dio, abilitato in modo permanente a donare l’alimento per la vita eterna. Chiedono allora a Gesù, più o meno ironicamente, cosa devono fare per compiere le opere volute da Dio e meritare un cibo così meraviglioso. Nella sua risposta Gesù riprende l’espressione «opere di Dio», ma al singolare: «Questa è l’opera di Dio: credere in colui che Egli ha mandato» la folla pensa immediatamente a qualcosa da fare, a delle opere esteriori e onerose da compiere, per meritare la simpatia di Dio. Il Maestro replica che «l’opera» fondamentale è la fede o il credere in colui che il Padre ha mandato: si tratta della fede o del credere nel senso pieno e assoluto di queste parole, che consiste nella sottomissione dello spirito (lo spirito è ciò che esiste di più nobile e di più interiore nell’uomo, Rm 8, 5), nell’abbandono fiducioso a Gesù, nell’adesione totale al suo insegnamento e nell’amore per lui. Chi crede in Gesù possiede al fondo del suo cuore un principio attivo e permanente di vita eterna.
Di fronte a queste esigenze, i Giudei chiedono un segno a Gesù come garanzia della sua missione; secondo loro, la moltiplicazione dei pani pare insufficiente. Su un tono evasivo, evocano il prodigio della manna nel deserto. Il nuovo profeta faccia la stessa cosa, e crederanno in lui. Gesù corregge l’interpretazione donata al prodigio del deserto: non è Mosè che ha dato la manna, ma Dio, di cui Mosè era solo lo strumento. D’altra parte, la manna non è il pane del cielo, quello vero. Giovanni insiste sull’aggettivo “vero”. Il vero pane ha altre caratteristiche: non sazia soltanto per un momento, ma dà la vita; non è destinato unicamente a un piccolo popolo nel deserto di Sinai, ma al mondo intero e a quanti vogliono approfittarne.
Una volta di più i Giudei non percepiscono il significato reale di queste parole. La loro nuova domanda è ancora materiale e banale: “Signore, dacci sempre questo pane”. Gesù rispose loro: “Io sono il pane della vita, chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai”. Gesù fa adesso una dichiarazione capitale che è anche un annunzio dell’eucaristia: questo pane, destinato a dare la vita al mondo e a saziare completamente quelli che vi si nutrono, è lui stesso. Per riceverlo, basta venir a lui, basta credere in lui: egli è il pane della vita che gli uomini devono ricevere attraverso la fede. In fine dei conti, Gesù ci invita ad ascoltare la sua parola e a nutrirsi del suo corpo. Il risultato sarà il rinnovamento della nostra vita e la salvezza eterna.
Don Joseph Ndoum
Il vero Pane della Vita: oltre le apparenze
Un commentario a Gv 6, 24-35
Continuiamo a leggere il capitolo sesto di Giovanni, che abbiamo cominciato a leggere domenica scorsa con il segno dei pani abbondanti. In mezzo tra le due letture c’è un testo che non abbiamo letto e che parla di Gesù che sparisce della folla e della gente che lo cerca affannosamente. Quello che leggiamo oggi è precisamente la risposta di Gesù alle inquietudini della gente. Con questo Giovanni ci spiega chiaramente la fede dei primi discepoli che credevano in Gesù come nel vero Pane della Vita.
Per capire questa professione di fede, può essere utile ricordare il contesto ebraico, in cui queste parole sono pronunciate. Lo spiego a mio modo in quattro brevi spunti:
1. Il pane che permette sopravvivere
C’è stata una prima esperienza che ha lasciato un segno profondo nella storia d’Israele: l’alimento che miracolosamente li ha sfamati e li ha permessi di sopravvivere nei momenti più difficili della loro marchia verso la Terra promessa. Noi tutti conosciamo questa storia, anche se non sappiamo com’è successo esattamente nella sua realtà fisica (gli esegeti hanno alcune teorie plausibili). Ma l’importante è che, qualunque cosa sia successa, il fatto ha permesso al popolo di sopravvivere e che questo fatto fu interpretato come un segno della presenza provvidente di Dio, rimanendo per sempre nella memoria della liberazione.
Penso che qualcosa di simile passa anche con noi non poche volte: Quando, in momenti di disperazione, troviamo un lavoro che ci permette guadagnare da mangiare, il nostro negozio comincia a funzionare, superiamo una malattia, troviamo un aiuto inaspettato. In questi momenti possiamo pensare che fu un beneficio del caso, che noi abbiamo meritato tutto… o che Dio guida la nostra storia in favore nostro, anche per cammini storti. Quest’ultimo è quello che pensarono gli ebrei ed è quello che pensano oggi tante persone semplici che, con fede, vanno oltre le apparenze e sanno vedere la mano di Dio in quello che succede.
2. Del Pane alla Parola-Legge
Quando Mosè offrì al popolo la Legge in nome di Dio, Israele fece l’esperienza che la Legge era un favore tanto grande quanto l’alimento nel deserto. Con la Legge il popolo cresceva, si proteggeva dai nemici, progrediva, sapeva come orientarsi nei momenti di dubbio, trovava armonia e felicità. Così il popolo applicò alla Legge il valore liberatore del pane mangiato nel deserto e affermò: “Non solo di pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce della bocca di Dio”.
Penso che anche noi abbiamo fatto questa esperienza, tanto a livello personale come comunitario. Qualche volta disprezzammo il valore della Legge, ma sappiamo che una buona Legge può aiutare a viver meglio. Senza la Legge cadiamo nell’anomia e l’anarchia, che normalmente favorisce i potenti e i violenti. Avere una buona Legge (o un buon progetto personale) può essere tanto importante quanto avere i bisogni naturali coperti.
3. Dalla Legge alla Parola-Saggezza
Con il passo del tempo il popolo capì che la Legge non era l’unica manifestazione della sapienza divina, che lo guidava nella storia. C’erano anche i profeti, i salmisti, i poeti, i filosofi de altre culture, gli anziani saggi… Ogni manifestazione di saggezza fu considerata come Pane per lo spirito. Come il pane è imprescindibile per la vita del corpo, la saggezza è imprescindibile per la vita dello spirito.
Anche noi abbiamo bisogno di tutta la saggezza che l’umanità produce attraverso la scienza e la filosofia, le religioni e l’arte… Ogni pensiero positivo, ogni parola luminosa può aiutarci a vivere meglio.
4. Dalla Parola (Legge e Saggezza) a Gesù Cristo
Quello che i discepoli esperimentarono è quello che è spiegato nel vangelo di oggi: il pane del deserto non è più che un’immagine di Gesù Cristo come Vero Pane che nutre la nostra Vita spirituale. La Sua Parola – in parabole, sermoni, dialoghi, detti –, la sua vicinanza ai malati e peccatori, tutta la sua persona, erano come il Pane del Deserto, come la Legge di Mosè, come la più alta delle saggezze. In Lui si trova la pienezza della Vita che Dio vuole per i suoi figli e figlie.
Certo, noi tutti vogliamo avere sodisfatti i bisogni basici della vita (pane, vestito, tetto) e Gesù –come la Chiesa oggi- viene all’incontro anche di questi bisogni basici, ma va molto oltre: Lui ci invita a cercare il Pane vero, che è la Parola-Saggezza-Amore di Dio fatta carne in Gesù di Nazareth.
Acetare questo, “mangiarlo” e fare che diventi parte della nostra vita è uguale ad aprirsi una vita piena, capace di superare qualunque deserto che dobbiamo attraversare.
P. Antonio Villarino, MCCJ
Quel Pane che alimenta l’esistenza senza fine
Ermes Ronchi
Chiedono a Gesù: che cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio? Grande domanda. Compiere le opere di Dio è ben altro che osservare i suoi comandamenti.
Opera di Dio è la creazione, opera sua è la liberazione del popolo dalla schiavitù e poi la meravigliosa volontà di costruire, nonostante tutte le delusioni, una storia di alleanza. Compiere l’opera di Dio è parteciparvi, essere in qualche modo capaci di creare, inventori di strade che conducano a libertà e a legami buoni di alleanza con tutto ciò che vive. Una regola fondamentale per interpretare la Bibbia dice: ogni indicativo divino diventa un imperativo umano. Vale a dire che tutto ciò che è descrittivo di Dio diventa prescrittivo per l’uomo. Una proposizione riassume questa regola di fondo: «Siate santi perché io sono santo».
Il fondamento dell’etica biblica è posto nel fare ciò che Dio fa, nell’agire come agisce Dio, comportarsi come Lui si è comportato, come Gesù ha mostrato.
Infatti: Questa è l’opera di Dio, credere in colui che egli ha mandato.
Al cuore della fede sta la tenace, dolcissima fiducia che Dio è Gesù, uno che sa soltanto amare, guaritore del disamore del mondo. Nessun aspetto minaccioso, ma solo le due ali aperte di una chioccia che protegge e custodisce i suoi pulcini (Lc 13,34), con tenerezza combattiva.
Quale segno fai perché vediamo e possiamo crederti? La risposta di Gesù: Io sono il Pane della vita. Nutrire la vita è l’opera di Dio. Offrire bocconi di vita ai morsi dell’umana fame. Pane di cielo cerca l’uomo: vuole addentare la vita, goderla e gioirne in comunione, saziarsi d’amore, ubriacarsi del vino di Dio, che ha il profumo stordente della felicità.
Io sono il Pane della vita, il pane che alimenta la vita. L’uomo nasce affamato e il pane della vita sazia la fame, ma poi la riaccende di nuovo e sveglia in noi «il morso del più» (L. Ciotti), un desiderio di più vita che morde dentro e chiama, una fame di più libertà e più creatività e più alleanza.
Come un tempo ha dato la manna ai padri vostri nel deserto, così oggi ancora Dio dà. Due parole semplicissime eppure chiave di volta della rivelazione biblica:
Dio non domanda, Dio dà.
Dio non pretende, Dio offre.
Dio non esige nulla, dona tutto.
Ma Dio non dà cose, Egli non può dare nulla di meno di se stesso. Ma dandoci se stesso ci dà tutto. Siamo davanti a uno dei vertici del Vangelo, a uno dei nomi più belli di Dio: Egli è nella vita datore di vita. Dalle sue mani la vita fluisce illimitata e inarrestabile. E ci chiama ad essere come Lui, nella vita datori di vita. L’opera di Dio è una calda corrente d’amore che entra e fa fiorire le radici del cuore.
Avvenire
“Gesù, il pane della vita”
Enzo Bianchi
Dopo il segno della moltiplicazione-condivisione dei pani, Gesù, rifiutando l’acclamazione mondana da parte della folla che voleva farlo re perché egli le aveva procurato del cibo, era fuggito in solitudine sul monte (cf. Gv 6,14-15), lasciando i discepoli che cercavano di tornare in barca sull’altra riva del mare, verso Cafarnao (cf. Gv 6,16-17). Ma era ormai notte e una violenta tempesta si era scatenata sul lago. In quella situazione di difficoltà i discepoli scorgono Gesù che cammina sulle acque del lago venendo verso di loro e sono colti da paura. Ma egli dice: “Egó eimi, Io sono, non abbiate paura!”, poi approda con loro sulla terra ferma ed entra in Cafarnao (cf. Gv 6,18-21).
Ed ecco, “il giorno dopo” (Gv 6,22) la folla, che aveva mangiato il pane, si mette sulle sue tracce, lo raggiunge attraversando a sua volta il lago su diverse barche, e gli chiede con rispetto: “Rabbi, maestro, quando sei venuto qua?”. Gesù però, conoscendo le motivazioni di quella ricerca, non risponde alla curiosità della folla ma svela con autorevolezza quanto essa sia insufficiente, ambigua e sviante: “Amen, amen io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni (semeîa), ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati”. Quella ricerca fa di Gesù colui che soddisfa i bisogni umani e colma la mancanza, ma misconosce la sua vera identità, quella di chi è venuto non per dare un cibo che toglie la fame materiale ma per donare ciò che nutre per la vita eterna. Quei galilei hanno visto il prodigio ma non vi hanno letto il segno, ossia ciò che quell’azione di Gesù significava. Hanno provato la sazietà ma non hanno compreso che quel pane era il dono della vita di Gesù.
Svelato dunque l’atteggiamento della folla, nella sinagoga di Cafarnao Gesù fa un lungo discorso, annunciandone il tema nelle sue prime parole: “Operate non per il cibo che perisce, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà. Questi, infatti, il Padre, Dio, ha segnato con il suo sigillo”. Gesù chiede ai suoi ascoltatori un impegno, rivela il dono che egli, quale Figlio dell’uomo, fa agli uomini e si manifesta come colui sul quale il Padre ha posto la sua
benedizione. Occorre dunque darsi da fare, mettersi in azione per un cibo che nutre per la vita eterna. È vero che occorre darsi da fare per ricevere dal Padre il pane quotidiano (cf. Mt 6,11; Lc 11,3), nutrimento per il corpo destinato alla morte; nello stesso tempo, però, Gesù esorta a desiderare, cioè a lavorare con altrettanta intensità e convinzione in vista di quel cibo che solo lui può donare, il cibo che dà la vita per sempre, la vita che rimane oltre la morte.
Si faccia attenzione: Gesù non disprezza il cibo materiale ma, sapendo che “non di solo pane vive l’uomo” (Dt 8,3, Mt 4,4), esorta a lavorare con convinzione e intensità in vista di quel cibo che dà la vita per sempre, cibo che solo lui, il Figlio dell’uomo, può dare. Infatti, inviandolo nel mondo il Padre lo ha segnato con il suo sigillo, ha messo in lui la sua impronta (cf. Eb 1,3), essendo egli “l’immagine del Dio invisibile” (Col 1,15), il volto della sua gloria, parola e racconto che narra il vero e unico Dio (cf. Gv 1,18).
Ma anche di fronte a questa rivelazione della sua identità quei galilei non comprendono e dunque domandano a Gesù: “Che fare? Che cosa dobbiamo fare per realizzare la volontà di Dio? Quale comando assolvere?”. Gesù, in risposta, rivela l’opera, l’agire per eccellenza, che pure sembra una non azione, qualcosa che secondo il sentire umano manca di concretezza: l’azione delle azioni, l’azione per eccellenza che Dio vuole e chiede è credere, aderire a colui che egli ha mandato. L’unica opera è la fede, dice Gesù. È opera di Dio perché consente a Dio di operare nell’uomo, nella storia, nella vita di colui che crede. Sì, sta qui la differenza cristiana: al cuore della vita del credente non c’è la legge ma la fede. Non lo si ripeterà mai abbastanza, e non si dimentichi che il primo nome dato ai discepoli di Gesù nel Nuovo Testamento dopo la resurrezione è stato proprio “i credenti” (At 2,44; 4,32). La fede fa i cristiani, plasma i cristiani, salva i cristiani.
Questa verità centrale va però compresa bene: la fede non è un atto intellettuale, gnostico, ma è un’adesione vitale a Gesù Cristo, è un essere alla sua sequela, coinvolti con la sua stessa vita. In tal modo vengono spazzate via le contrapposizioni intellettuali tra fede e azioni-opere, tra contemplazione e azione. L’opera del cristiano è credere, è accogliere il dono della fede per farne la propria responsabilità, la propria opera, la propria lotta, la propria custodia. Solo così si riconosce il primato alla grazia, all’amore gratuito e sempre preveniente del Signore, che è un dono da accogliere con spirito di stupore e di ringraziamento, in quanto capace di generare nel profondo del cuore responsabilità e desiderio di rispondere a al dono, o meglio al Donatore. Credere in Gesù Cristo, l’Inviato di Dio nel mondo, significa essere dove lui è (cf. Gv 12,26; 14,3; 17,24), condividendo con lui la stessa vita, “ovunque egli vada” (Ap 14,4), radicalmente e “fino alla fine” (eis télos: Gv 13,1).
Ma quella folla rivela la propria identità: per credere vuole un segno! Avevano visto il segno della moltiplicazione-condivisione dei pani, ma dal momento che questo non era sfociato in ciò che essi volevano, nella proclamazione di Gesù Re e Messia mondano, ora ne esigono un altro, come quello fatto da Mosè attraverso il dono della manna (cf. Sal 78,24). In tal modo mostrano di non essere neanche capaci di leggere la Torah, perché in essa – spiega loro Gesù – “non Mosè ha dato il pane dal cielo, ma il Padre dà il pane dal cielo, quello vero, ossia colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo”. E così Gesù rivela di sentirsi chiamato non a dare qualcosa, ma a donare tutto se stesso! Allora chiedono a Gesù di dare loro questo pane e di darlo per sempre. Ed egli risponde con la rivelazione inaudita: “Egó eimi, io sono il pane della vita”. Dunque il pane per la vita eterna non è un semplice dono da parte di Gesù, ma è Gesù stesso, che dona tutta la sua persona.
Cosa significa questo linguaggio che rischia di essere da noi compreso in modo astratto? Significa che Gesù è cibo, e in questa prima parte del suo lungo discorso egli si presenta come cibo in quanto Parola, Parola del Padre, Parola fatta carne (cf. Gv 1,14), Parola discesa dal cielo, Parola inviata da Dio agli umani. La Parola di Dio è sempre stata letta nell’Antico Testamento come cibo, pane che dà la vita all’umanità (cf. Is 55,1-3; Pr 9,3-6, ecc.); ma ora questa Parola, detta molte volte e in diversi modi nei tempi antichi agli esseri umani tramite Mosè e i profeti (cf. Eb 1,1), è un uomo: è Parola di Dio umanizzata in Gesù di Nazaret. In questo senso Gesù si consegna agli umani quale “pane della vita”, pane che porta la vita.
Questo linguaggio è talmente vertiginoso che non è possibile commentare tali parole di Gesù: vanno solo accolte in adorazione. Gesù, sì, proprio Gesù, un uomo, un ebreo marginale di Galilea, il figlio di Maria e di Giuseppe, proveniente da Nazaret, è in verità la Parola di Dio e, in quanto tale, è cibo, pane per la nostra vita di credenti in lui. Chi può dire di essere in grado di capire e sostenere queste parole? In ogni caso, forse il Signore ci chiede solo che tentiamo di accogliere queste parole; e di farlo sapendo che il suo dono, la sua grazia ci permette di renderle parole accolte da ciascuno di noi in modo personalissimo, cioè come soltanto il Signore può farcele conoscere e comprendere. Così assimiliamo il cibo per la vita eterna, secondo la promessa di Gesù: “Chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete” (Gv 6,35). Una promessa parallela a quella fatta da Gesù alla donna di Samaria: “Chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete in eterno” (Gv 4,14).
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