L’episodio evangelico di questa domenica (Mc 6,1-6) si svolge a Nazaret, la patria di Gesù. Si tratta di un insuccesso che Gesù stesso commenta con un proverbio popolare. Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria. I suoi compaesani sentono Gesù insegnare nella loro sinagoga, restano stupiti della sua dottrina, perché conoscono le sue origini (famiglia insignificante) e la sua formazione (carpentiere). [...]
La prima sconfitta apostolica di Gesù
“Gesù venne nella sua patria”
Marco 6,1-6
Oggi troviamo Gesù a Nazareth. Mesi prima, i suoi familiari, preoccupati con quanto si diceva in giro su di lui, erano scesi a Cafarnao, dove Gesù aveva stabilito la sua nuova dimora, con l'intento (frustrato) di riportarlo a casa. Adesso è Gesù stesso che prende l'iniziativa di recarsi al suo villaggio natale. Si tratta di una cinquantina di chilometri e una salita di settecento metri, per cui non era una piccola passeggiata. Perché lo fa? Possiamo pensare a delle motivazioni molto umane, come il rivedere i suoi, stare con gli amici, trascorrere qualche giorno di riposo negli ambienti in cui era cresciuto... Ma ci saranno stati anche altri motivi più profondi, come il presentare la sua nuova famiglia, cioè i Dodici, e annunciare la buona novella del Regno anche nel suo villaggio. Possiamo immaginare che l'accoglienza sia stata amichevole e perfino entusiasta. Gesù era uno di loro, certamente ben voluto da tutti. La situazione, tuttavia, cambia radicalmente il giorno di sabato, quando tutti si sono ritrovati nell'umile sinagoga di Nazareth.
Andiamo anche noi a Nazareth, non da passivi spettatori, ma cercando di confrontarci con i protagonisti presenti nel racconto. Pensiamo particolarmente ai tre gruppi lì presenti: gli abitanti di Nazareth, i dodici discepoli che accompagnavano Gesù e il gruppetto dei famigliari più stretti, con Maria, la madre di Gesù, in testa.
Dallo stupore allo scandalo
Gesù aveva frequentato quella sinagoga per trent'anni, ma questa volta si respirava un'aria di aspettativa particolare. La sua fama ormai si era sparsa per tutta Galilea e nel suo paese tutti si domandavano cosa stesse succedendo, perché loro conoscevano bene Gesù e non riuscivano a spiegarsi quanto si diceva su di lui. Sapevano che non aveva studiato, non era un rabbino: come mai si presentava con un seguito di dodici discepoli?! Aveva le mani callose da falegname: come mai adesso quelle mani le imponeva sui malati e li guariva?! Era uno di loro, di umile condizione, da un villaggio sperduto che non prometteva niente di buono: come mai era diventato famoso e il suo nome correva di bocca in bocca?! Lo conoscevano bene, ma non lo riconoscevano affatto nelle vesti del “profeta di Nazareth”!
“Si mise a insegnare nella sinagoga”. Come era sua abitudine, precisa l'evangelista Luca, che colloca questo episodio all'inizio della predicazione di Gesù, come suo discorso programmatico (Luca 4,16-30). Luca dice nel suo racconto che “gli occhi di tutti erano fissi su di lui” (v. 20) e che, alle sue prime battute, tutti “erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca” (v. 22). L'esordio, quindi, sembrava presagire una buona accoglienza, come succedeva un po' dappertutto. Però, Marco e Matteo (13,54-58) si esprimono in un modo più circospetto, dicendo che la gente “rimaneva stupita”. Infatti, i suoi concittadini rimangono più perplessi che meravigliati. Nel mormorio dell'assemblea emergono (tre) commenti di dubbio e diffidenza sulla provenienza delle sue parole, della sua sapienza e dei suoi prodigi. Susseguono (quattro) domande retoriche e sprezzanti sulla sua identità, riguardo alla professione, la madre, i fratelli e le sorelle. “Chi pretende di essere costui?”, si dicono tra loro. E dallo stupore passano allo scandalo: “Ed era per loro motivo di scandalo”, cioè d'inciampo!
Siamo davanti a un groviglio di sentimenti non facile da districare, un misto di meraviglia e ammirazione, di gelosia e invidia, di dubbio e sospetto, di contrarietà e opposizione, diventando perfino sdegno e rigetto. Come spiegare questo mutamento drastico? Se abbiamo il coraggio di scavare nel nostro cuore, lo possiamo capire. I conterranei di Gesù sono lo specchio che riflette tanti nostri comportamenti. Quante volte anche noi abbiamo chiuso la mente e il cuore ad una verità che ci scomodava, elaborando tutta una catena di ragionamenti? Quante volte anche noi ci siamo avvalsi di giudizi e pregiudizi per neutralizzare un messaggio di novità che ci infastidiva? Quante volte anche noi abbiamo pensato: “ma guarda da che pulpito viene questo!”? Quanti di noi accolgono volentieri una “voce profetica” che ci questiona e mette in crisi? I profeti li accogliamo meglio da morti!
Lo sconcerto e lo sgomento del discepolo
Cosa avrà esperimentato il gruppo dei Dodici? Il testo non lo dice, ma si può immaginare. Anche loro avevano delle aspettative su Gesù. Andavano fieri del loro Maestro e si aspettavano di assistere ad un altro suo successo. Quindi, sono rimasti sconcertati al vedere la piega presa dagli eventi. Giacomo di Alfeo e Giuda Taddeo, due cugini di Gesù e che conoscevano bene il campanilismo dei loro compaesani, avranno deplorato dentro di loro che Gesù abbia citato quel proverbio popolare “nessuno è profeta nella sua patria”. Gli altri dieci saranno rimasti sconcertati da questo primo insuccesso di Gesù, proprio a casa sua. Una sconfitta che certo non si attendevano. Anche loro avranno pensato che Gesù avrebbe dovuto essere più cauto, meno schietto e più accondiscendente. Così, i discepoli scoprono che la missione di Gesù - e la loro missione - non sarebbe tutta rose e fiori. E chissà se avranno pensato alla profezia di Ezechiele della prima lettura di oggi (2,2-5): “Quelli ai quali ti mando sono figli testardi e dal cuore indurito”. Ci viene da pensare certe volte che il profeta è un messaggero inviato allo sbaraglio.
Anche noi sicuramente condividiamo il parere degli apostoli. Davanti all'opposizione e rifiuto del nostro mondo, ci domandiamo se la Chiesa non dovrebbe essere più accondiscendente su certe cose; se non dovrebbe abbassare lo standard delle sue proposte; se non dovrebbe aggiornarsi, adattandosi alla sensibilità dei tempi. Nel nostro compito apostolico, non siamo anche noi tentati di adeguarci al “politicamente corretto”?
Una spina nel cuore
Cosa sarà successo nel cuore di Maria, la madre di Gesù? Di sicuro che una nebbia di dolore e di tristezza l'avrà avvolto. Forse le è venuta in mente la profezia di Simeone: “Una spada ti trafiggerà l’anima.” (Luca 2,35). Il ricordo di quel sabato si sarà infilato nel suo cuore come una spina.
Quella spina trafigge tuttora il cuore della Chiesa, che soffre per i suoi figli perseguitati, per gli scandali che appannano la sua testimonianza, per l'allontanamento di tanti suoi figli e figlie, per la chiusura crescente al messaggio evangelico...
Questa spina è infilzata anche nel nostro cuore. La nostra debolezza è per noi motivo di tristezza, di sofferenza, d'intralcio e di scandalo. Come Paolo, anche noi abbiamo chiesto al Signore di liberarci da questa spina, e lui ci ha risposto: “Vi basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza.” (vedi seconda lettura, 2Corinzi 12,7-10).
P. Manuel João Pereira Correia mccj
Verona, luglio 2024
Siamo tutti fratelli di Cristo
Gesù ha provato a fare il falegname nel laboratorio di Giuseppe, suo padre ufficiale. Giuseppe amava molto quel ragazzo, nato in maniera particolare da sua moglie Maria. Giuseppe voleva che la sua sposa, una ragazzina vergine sensibile e intelligente, potesse godersi ancora un poco la libertà giocosa di ragazzina non toccata dall’uomo. Però poi Maria decise di accettare la proposta di Dio Padre di mettere al mondo un figlio, perché comprese che quel figlio era un dono che Dio Padre faceva agli esseri umani.
E così Maria ebbe un figlio direttamente da Dio, che venne al mondo a provocare un balzo in avanti di civiltà, rivelando e diffondendo la “Fraternità di tutte le creature”. Questo figlio di nome Gesù provocò infatti la rivoluzione culturale più notevole della storia umana, rivelando e spiegando che siamo tutti fratelli di Cristo. Gesù fece tanti miracoli per amore e compassione e per innescare la coscienza della Fraternitas tra tutti gli esseri viventi. Gesù fece centinaia di miracoli, anche per dimostrare che l’amore è l’azione luminosa più profonda e rivoluzionaria che gli esseri umani possono realizzare sempre e ovunque.
Le creature umane dovrebbero imitarlo, ciascuno per il potere che ha.
Maria conosceva bene quello che faceva Gesù perché spesso nascosta dalla folla ha visto i miracoli del figlio. E di sicuro sapeva che c’era un prezzo da pagare (lo avvertiva), perché le autorità religiose e quelle romane non potevano (né volevano) che l’azione del figlio guastasse “l’andare delle cose”, cioè l’andazzo e la politica vigente, perché di fatto il loro orizzonte di pensiero era troppo diverso e lontano dalla visione di Gesù. Gesù apriva verso un’epoca troppo distante… al punto da essere distante tuttora dopo duemila anni, basta guardare alle guerre che si fanno ancora oggi con tante vittime che presto dimentichiamo.
[Liliana Cavani - L'Osservatore Romano]
Dio tra le pentole:
Gesù falegname, figlio, fratello, vicino
Commentario a Mc 6, 1-6
Marco ci mostra a Gesù come un maestro ambulante che, dopo di aver predicato nei villaggi e città attorno al Lago di Galilea, ritorna a Nazareth, il paese dove era cresciuto a dove i suoi vicini lo rifiutano perché è troppo simile a loro. Marco lo spiega con una frase che è diventata famosa: “Nessun profeta è ben accolto nel suo paese e nella sua casa”; e finisce dicendo che Gesù rimase stupito della loro incredulità. A me sembra che l’esperienza di rifiuto che ha fatto Gesù è abbastanza comune ed è fondata su due errori che tutti noi facciamo frequentemente:
1) Immaginiamo Dio come qualcuno lontano dalla nostra vita quotidiana
Capita in tutte le tappe della storia e in tutte le religioni. Molti pensano che Dio si lo trovi in qualcosa di straordinario: un luogo meraviglioso, una grande cattedrale, un santuario speciale, un personaggio molto importante, sopra le nuvole… Come se Dio non avessi niente a che fare con quello che siamo e viviamo nella nostra quotidianità. Invece, Gesù ci insegna esattamente il contrario: Che Dio si fa uno di noi (Emmanuele); nasce come un migrante, lavora da falegname, va in sinagoga il sabato; mangia, beve, suda, fa degli amici… E in tutto questo si rivela come il Figlio amato dal Padre.
Un modo per spiegare questa esperienza del Dio vicino è la famosa sentenza di Santa Teresa d’Ávila: “Dio c’è anche tra le pentole”. Proprio così: Non dobbiamo cercare Dio nelle cose straordinarie ma nella vita ordinaria di ogni giorno: nel lavoro, nelle relazioni di famiglia, nelle amicizie, nella lotta sincera per i diritti dei poveri, nella ricerca della giustizia e la pace… e anche nella preghiera semplice e sincera (lontana da parole eccessive a gesti esagerati)… Appunto: “Tra le pentole”.
2) Diventare scettici e duri di cuore
Dice un vecchio proverbio che non c’è persona meno rispettosa del tempio che il sacrestano: muovendosi continuamente nel luogo sacro, finisce per perdere il senso del sacro. Questo può capitare anche noi con le persone a noi vicine: membri della famiglia o della comunità, compagni di lavoro, catechisti della mia parrocchia, parroco… Convivendo da vicino con queste persone, corriamo il rischio di vedere soltanto i suoi limiti e difetti, ignorando tutto il bene che fanno. Invece di approfittare della vicinanza per imparare ad amarli e capirli meglio, finiamo per rimanere intrappolati in un atteggiamento di critica amara e dura che ci impedisce di scoprire il messaggio che sicuramente Dio ci vuole trasmettere attraverso queste persone, non ostante i loro difetti e limiti. Certo, Dio non si presenterà a noi nella veste di una persona “perfetta”, ma nella realtà delle persone concrete che abbiamo attorno a noi.
Meditando questo vangelo di oggi, prego al Signore per me e per tutti di darmi quell’umiltà che ci fa capaci di riconoscere Gesù nell’umile profeta di Nazareth e in tante persone che vivono con me e mi aiutano a percepire la presenza divina nella concreta realtà che sto vivendo, con le sue opportunità e problemi, i successi e i fallimenti.
Signore, non permettere che io diventi arrogante o cinico, come gli abitanti di Nazareth. Fa che il mio cuore rimanga sempre aperto a riconoscere la tua umile presenza attorno a me, non ostante i miei limiti e quelli degli altri.
P. Antonio Villarino, MCCJ
La famiglia di Gesù
Lo scandalo di avere una modesta parentela
Ez 2,2-5; Salmo 122; 2Cor 12,7-10; Mc 6,1-6
L’episodio evangelico di questa domenica si svolge a Nazaret, la patria di Gesù. Si tratta di un insuccesso che Gesù stesso commenta con un proverbio popolare. Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria. I suoi compaesani sentono Gesù insegnare nella loro sinagoga, restano stupiti della sua dottrina, perché conoscono le sue origini (famiglia insignificante) e la sua formazione (carpentiere). Capiscono la spiegazione giusta e si domandano da dove vengono a costui queste cose? E che sapienza è mai questa che gli è data? Però non sono capaci di trarne le conseguenze. Pongono la domanda giusta, ma danno una risposta sbagliata. (Venne tra la sua gente ma i suoi non l’hanno accolto (Gv 1,11).
Se si fossero affidati a questo interrogativo pertinente, se si fossero posti alla ricerca del dove, sicuramente sarebbero andati lontano. Essi trovano invece una risposta prematura nell’ "incasellamento" di Gesù in cose conosciute, in quello che si sa già. È l’equivoco che minaccia tutti noi: la facoltà di chiudere i problemi fastidiosi con quello che abbiamo a portata di mano, invece di tenerli aperti in un atteggiamento di ricerca profonda e di sofferta attesa verso ciò che c’è di nuovo e non si conosce. Questa maniera di liquidare i problemi (invece di risolverli) è una crisi di rigetto che è alla base delle nostre esigenze personali, e non della verità. Spesso preferiamo rinunciare a Dio piuttosto che alle nostre esigenze e all’immagine che ci siamo fatti di Dio. L’incredulità dei compaesani di Gesù riguarda quindi anche noi. Questo rifiuto, infatti, è simbolo e preludio di un rifiuto assai vasto... però non dobbiamo considerarlo normale. Gesù, con le sue parole sapienti e potenti non può essere pietra di inciampo sul cammino di fede.
Gesù percorre la strada del profeta che nella tradizione biblica, e in modo particolare nella prima lettura di questa domenica, viene contestato e rifiutato da quelli ai quali è inviato. In ogni caso la vita del profeta non dipende dal successo della sua missione: la sua presenza è un segno che interpella ineluttabilmente i destinatari, ascoltino o non ascoltino. La missione di Gesù a Nazaret si conclude con un bilancio un po’ triste: perché non vi poté operare nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità. Questo poi è una delle affermazioni più difficili nel vangelo, proprio perché ricorda qualcosa che Gesù non riuscì a fare. Il limite non è quindi, suo, ma quello dell’incredulità e della diffidenza dei suoi concittadini. Però i pochi miracoli di Nazaret sono i più importanti del vangelo (sembra là il punto focale di questa pericope), perché poche di queste persone sono andate a controcorrente dell’ostilità, della sfiducia dell’indisponibilità e dell’incredulità generali.
Gesù lascia Nazaret (incredula) per seguire il suo destino di profeta, e va ad insegnare negli altri villaggi all’ interno. Questo atteggiamento è specchio dello stile e dell’agire di Dio: nonostante la sapienza della sua parola e la potenza dei suoi gesti, Egli è impotente davanti alla resistenza e al rifiuto degli uomini. Cioè nessun gesto o nessuna parola pur provenienti da Dio hanno un qualche effetto in ordine alla salvezza se non incontrano una disposizione previa di fiduciosa accoglienza, di cordiale adesione da parte di tutte le persone che ne sono le beneficiarie. In poche parole: la fede è la porta che ci apre all’azione salvifica di Dio.
Don Joseph Ndoum
Lo scandalo vincente del Profeta
Ezechiele 2,2-5; Salmo 122; 2Corinzi 12,7-10; Marco 6,1-6
Riflessioni
“Io ti mando a una razza di ribelli, che si sono rivoltati contro di me… sono figli testardi e dal cuore indurito… sono una genìa di ribelli” (Ez 2,3-5). Con un linguaggio che oggi sarebbe considerato esagerato e offensivo, il Signore ha inviato il giovane Ezechiele (I lettura) a essere profeta tra gli Israeliti (VI sec. av. C.) deportati in schiavitù a Babilonia. Il linguaggio duro indica la difficile missione di essere profeta. Era difficile allora; lo è stato per Gesù (Vangelo) e per Paolo (II lettura). Essere profeta di Dio, portatore del Vangelo di Gesù, è stata sempre una missione ardua in ogni epoca e latitudine. Senza il prurito di cercarsi aureole di eroismo, la storia offre prove copiose di tali difficoltà. Le tre letture di questa domenica invitano a riflettere sullo ‘scandalo del profeta’, presentandone la vocazione e la missione.
Il profeta autentico non è mai un auto-candidato, ma un chiamato da Dio, che lo manda. Spesso la chiamata di Dio avviene a tappe, che aiutano a comprendere il senso e la portata di una vocazione. Così è avvenuto per Abramo, Mosè, Gesù stesso, i Dodici apostoli, Paolo e tanti altri. Per Ezechiele la chiamata ha almeno tre momenti: in primo luogo, la visione del “carro del Signore” in una scenografia ricca d’immagini di non facile comprensione (Ez 1). Segue la chiamata vera e propria, espressa in termini diretti (I lettura): è Dio che interviene e abita nel profeta (v. 2); questi si alza in piedi, ascolta la voce di Dio che lo manda (v. 3.4) a quei “figli testardi e dal cuore indurito” (v. 4). Ma il profeta - è il terzo momento della vocazione - non deve aver paura, non deve lasciarsi impressionare dalle facce di quella genìa di ribelli, che sono come cardi, spine, scorpioni… (v. 6-7). Egli si presenta a loro, forte della Parola che ha mangiato: il rotolo della Parola diventa per la sua bocca dolce come il miele. Il profeta avrà una “faccia tosta”: non dirà parole sue, ma solo quelle che avrà ascoltate dal Signore e che avrà accolte nel suo cuore. In questo modo egli sarà sentinella fedele e coraggiosa nel trasmettere i messaggi di Dio. Ascoltino o non ascoltino. (Ez 3).
San Paolo è un modello di profeta, scelto dal Signore per una missione di primo annuncio del Vangelo ai pagani. Una missione che egli ha realizzato con determinazione, generosità, ampiezza di orizzonti geografici e culturali, in mezzo a prove di ogni genere, come racconta nei testi che precedono il brano di oggi (II lettura). È stata una missione coraggiosa, vissuta al tempo stesso nell’umiltà e nella debolezza, con una spina nella carne (v. 7). Ha pregato insistentemente per esserne liberato, ma alla fine ha compreso che la grazia del Signore era in lui (v. 8-9). E ancor più, Paolo scopre che la missione è più forte e più vera quando si realizza nella debolezza: negli oltraggi, difficoltà, persecuzioni, angosce sofferte per Cristo (v. 10). Perché in tal modo appare chiaramente che vocazione e missione sono opera di Dio e non invenzioni umane. L’esperienza storica dei missionari e delle Chiese da loro fondate e sostenute danno prova di questo paradosso, sul quale solo il mistero di Cristo getta un po’ di luce. (*)
Sembrerebbe logico che almeno la missione profetica del Figlio di Dio in carne umana fosse chiara per tutti, accettata senza rifiuti né contestazioni. Invece, proprio nella sua patria, tra i suoi, Gesù fu incompreso (Vangelo) e più tardi, nella città santa di Gerusalemme fu eliminato in un complotto ordito dai suoi avversari religiosi e politici. A Nazaret la gente, stupita (v. 2), oscilla da un pregiudizio all’altro, tra varie interpretazioni: si pone ben cinque domande circa l’identità di Gesù (v. 2-3), passando dalla sorpresa allo scandalo, alla gelosia, fino al rifiuto di quel concittadino che appare troppo divino (sapienza, prodigi…), ma al tempo stesso troppo umano (falegname, uno come loro, di famiglia ben conosciuta…). Data l’incredulità di molti, Gesù, a malincuore, è obbligato a limitarsi: compie solo poche guarigioni (v. 5).
Nonostante la chiusura e l’incomprensione di quegli abitanti, Gesù risponde con un duplice segno: 1. percorre i villaggi d’intorno, si commuove al vedere la gente, insegna loro molte cose (v. 6 e 34); 2. chiama i Dodici e li manda a due a due tra la gente, dando anche a loro “potere sugli spiriti immondi” (v. 7). Anche i Dodici, venuto il tempo della loro missione piena sulle strade del mondo, vivranno le stesse esperienze del loro Maestro: incontreranno riconoscimenti e accettazioni, ma più spesso incomprensioni e persecuzioni, sospetti e disprezzo, assieme a malattie, fragilità e difetti personali.
Sono le alterne vicende della vita di ogni missionario, chiamato a seguire i passi di Gesù, che aveva predetto: “Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi; se hanno osservato la mia parola…” (Gv 15,20). E sempre con la certezza di Paolo: la potenza di Cristo e del suo piano di salvezza “si manifesta pienamente nella debolezza” (2Cor 12,9). Attraverso la fragilità degli strumenti umani, appare più chiaramente che la forza della missione e per la missione viene da Dio. È questo lo scandalo del profeta; è lo scandalo vincente della croce.
Parola del Papa
(*) «La missione percorre la stessa via (di Cristo) e ha il suo punto di arrivo ai piedi della croce. Al missionario è chiesto “di rinunziare a se stesso e a tutto quello che in precedenza possedeva in proprio e a farsi tutto a tutti”: nella povertà che lo rende libero per il Vangelo, nel distacco da persone e beni del proprio ambiente per farsi fratello di coloro ai quali è mandato, onde portare ad essi il Cristo salvatore».
San Giovanni Paolo II
Enciclica Redemptoris Missio (1990) n. 88
P. Romeo Ballan, MCCJ
Inguaribile meraviglia. Il profeta e il villaggio
«Si stupiva della loro incredulità» (Mc 6, 6). Inguaribile sorpresa di Dio. Non è per caso che nella narrazione di Marco non si racconta il nascere di Gesù. L’impatto con il villaggio dell’infanzia, per Gesù avviene soltanto molto dopo che egli è uscito da Nazaret verso il Giordano (Mc 1, 9). Dopo che è sconfinato in terra pagana, ha guarito le infermità di molti, dei maledetti, degli intoccabili: allora torna in patria. Tra i compaesani, Gesù non ha dimora, viene (cfr. anche Gv 1, 11) seguito dai discepoli, divenuti per lui fratello, sorella, madre (Mc 3, 35). Viene e incontra i concittadini; non in casa, in sinagoga: là dove si ascolta la Parola di Dio per fare la sua volontà, per intendersi verso un nuovo linguaggio, altro dal chiacchiericcio nativo. Potrà darsi, o no, il riconoscimento? L’ascolto passa per la trasformazione dei legami. Per ascoltare è necessario convertirsi. «Stupore di un amore», sintetizzava frère Roger.
Viene Gesù tra i suoi: è un inizio. Qui (l’unica volta) si qualifica profeta. Colui che dà carne alla Parola di Dio non ha un linguaggio astruso: radica la Parola nell’umano, nei suoi legami nativi. Ma la Parola è “altra” dalle dicerie: apre futuro. Infrange luoghi comuni. La profezia spalanca gli spazi domestici, innova narrazioni. «Ascoltino o non ascoltino, sapranno che c’è, in mezzo a loro, un profeta». È una presenza che accade, sempre viene, irrompe, sorprende — e corregge ogni affetto rapace, ogni legame che pretende di possedere. Il profeta dà carne alla Voce che chiama “fuori”, ad un’alleanza radicata sul Regno che viene, spinge fuori — piuttosto che su una “patria” che rinserra, censisce e difende i confini.
I concittadini sono esterrefatti, come accadrà più volte alle folle, e anche ai discepoli. Un eccesso è il parlare del Profeta, un impossibile che rovescia i paradigmi assodati. Eppure, Gesù ha appreso tra loro, dai legami nativi, a parlare. Lo scandalo dei suoi vicini di casa — intessuto di luoghi comuni e dicerie — si concentra in una domanda dura e chiusa (Gv 7, 27; 9, 29): “da dove?”. Domanda di chi è sicuro, sulle difese del proprio territorio; non cerca risposta, ma insinua il sospetto sull’origine. Come la prima “diabolica” domanda giunta ad orecchio umano (Gn 3, 1). La domanda, menzognera alla radice, che impietrisce la profezia, ne esautora la passione di verità: «Lì non poté compiere nessun prodigio».
Eppure, Dio resiste nello stupore presago: la profezia è passione di appartenenza. Primi destinatari del profeta sono proprio i compaesani: «… è cresciuto come un virgulto in mezzo a noi. E noi, disprezzatolo, non ne avevamo alcuna stima» (Is 53, 2.3). Il profeta viene tra i suoi, appartiene, è fedele ai legami da cui ha attinto il linguaggio dell’umano. È per eccellenza prossimo; seppure viene lasciato solo, trattato come straniero. «Guardai: nessuno» (Is 63, 5). Il Profeta introduce, così, nel filo degli eventi, nelle saghe di famiglia, nelle narrazioni patriottiche, un fattore di irriducibile alterità. La profezia fa straniero colui che la incarna, ancor prima ch’egli pronunci parola. Ma è accolta dai poveri — da chi si converte da tutti i legami rapaci e dalle certezze petulanti. Per intendere la profezia, per portarne lo stigma nella carne, è necessario farsi stranieri e pellegrini.
Eppure, e proprio così, la parola che esce dalla bocca di Gesù è una buona notizia, sempre, anche e soprattutto nell’ora in cui la profezia si rivela parola ferita e parola che ferisce. Parola generativa di nuovo legame: fratellanza nuova — capovolge e rigenera il villaggio, ha in sé la mirabile forza di ridisegnare il mondo degli umani. Quei legami ricevono potenza di ritessere la trama della storia, sciogliere l’enigma dei tempi, posarvi lo sguardo di chi patisce Dio, mangia la sua Parola. Annuncia l’aurora.
Quelli a cui ti mando, testardi — dice Dio al suo profeta (Ez 2, 4) —, sono tuttavia “figli”. Tu, fatto straniero in mezzo ai tuoi, stordito, cinto di catene, attraverso paralisi e afasia, schiuderai nella valle desolata l’orizzonte della nuova, inaudita alleanza. E Dio, stupito, a guardare.
Maria Ignazia Angelini
Abbazia di Viboldone
(L'Osservatore Romano)