Due miracoli compongono il lungo racconto evangelico di questa domenica: la guarigione della donna, che da dodici anni, soffre di emorragia e la risurrezione della figlia di Giairo. I punti di contatto tra questi due miracoli sono rilevanti: si tratta di due donne; c’è il numero ‘’dodici’’ che ricorre in ambedue i casi (la donna è malata da dodici anni quando la bambina dodicenne è venuta al mondo); il duplice miracolo avviene per contatto fisico, la folla è estranea ai due prodigi e l’intervento di Gesù è all’insegna della sua sensibilità di fronte alle miserie umane, senza distinzione di persone. (...)

Dio è il Signore amante della vita!

Prese la mano della bambina e le disse: «Talità kum»
Marco 5,21-43

Domenica scorsa eravamo in un viaggio accidentato verso “l’altra riva”, quella dei Gesarèni, territorio pagano. Lì Gesù ha guarito un uomo posseduto da… una Legione di demòni che, uscendo dall’uomo e col permesso di Gesù, si gettarono su una mandria di porci che pascolava nelle vicinanze e i duemila porci si precipitarono nel lago (Marco 5,1-20). Un insolito miracolo di Gesù, che la liturgia (per fortuna!) ci fa “saltare”. Oggi siamo di nuovo sulla riva occidentale del lago e l’evangelista ci rende partecipi di altri due miracoli di guarigione. Le protagoniste del racconto questa volta sono due donne, accomunate dalla cifra dodici: una donna “che aveva perdite di sangue da dodici anni”, e una fanciulla di dodici anni, malata grave, per la quale il padre, Giairo, era venuto a chiedere la guarigione. Il racconto ci mette in cammino con la folla che accompagna Gesù andando verso la casa di Giairo.

L’insieme delle letture di questa domenica girano attorno ad un tema cruciale dell’esistenza: il binomio vita e morte! La prima lettura (Sapienza 1-2) ci rassicura che il piano di Dio è che l’uomo viva: “Dio non ha creato la morte… Egli ha creato tutte le cose perché esistano… e ha creato l’uomo per l’incorruttibilità”. Il Salmo 29 è un inno di ringraziamento per la vita riscattata dalla morte. La seconda lettura (2Corinzi 8) è un invito a condividere la vita attraverso la condivisione dei beni. Il vangelo ci porta a fissare il nostro sguardo su Gesù che reca la vita ovunque passa, testimoniando così quanto egli dice in Giovanni 10,10: “Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza”. L’unica condizione per accoglierla è la fede: “Figlia, la tua fede ti ha salvata”, dice Gesù alla emorroissa che aveva toccato il suo mantello; “Non temere, soltanto abbi fede!”, dice Gesù a Giairo quando riceve la notizia della morte della sua figliola.

La parola di Dio suggerisce alcuni spunti che ci invitano a riflettere sul nostro rapporto con la vita. Ne prendiamo uno per lettura, salmo incluso.

1. La vita è GRAZIA!

È grazia nel senso di dono, ma anche nel senso di graziosità. La prima lettura, tratta dal libro della Sapienza, esalta la bontà della vita: “Le creature del mondo sono portatrici di salvezza”. L’autore del libro trasmette un senso di ottimismo riguardo all’esistenza, che gli viene senza dubbio dalla fede nel “Signore, amante della vita” (Sapienza 11,26), ma anche da un sano rapporto con il mondo.
Oggi questo “sano ottimismo” sembra venire meno. Anche tra i giovanissimi, che dovrebbero essere una perenne manifestazione di esuberanza della vita stessa. Desta preoccupazione e sgomento vedere il crescente numero di coppie che si precludono alla fecondità, perché convinte che questa società non abbia futuro. Una visione positiva della vita manca spesso anche nelle nostre comunità, che giovani non sono ma che dovrebbero essere animate dalla perenne giovinezza dello Spirito del Risorto. E cosa dice di noi cristiani la mentalità comune che pensa che Dio mortifica la vita con leggi e divieti? Quale immagine di Dio abbiamo trasmesso?
Un sano ottimismo riguardo alla vita oggi non è spontaneo, va coltivato e protetto da discorsi carichi di catastrofismo. Questo atteggiamento positivo è una scelta, un’opzione di vita che viene dalla convinzione di fede che lo Spirito è l’anima della Chiesa ed è permanentemente all’opera nel mondo e nella storia. Oggi il cristiano è chiamato a testimoniare la bontà e la bellezza della vita.

2. La vita è FRAGILE.

Il Salmo sottolinea la fragilità della vita, minacciata dalla morte: “Signore, hai fatto risalire la mia vita dagli inferi, mi hai fatto rivivere perché non scendessi nella fossa”. Tutto quello che è bello è anche fragile. Forse per meglio apprezzarne la gratuità e non darla semplicemente per scontata. Stimare, coltivare e curare la salute e la qualità della vita è cosa buona. Il problema è quando questa cura diventa accanimento e ossessione. Allora ci può capitare come all’emorroissa del vangelo che “aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando”. In genere noi cerchiamo di rimuovere dalla mente il pensiero della morte. Il problema è quando la morte diventa un tabù. Questo diventa una deliberata inconsapevolezza e, alla lunga, incoscienza.
La saggezza umana e cristiana ci invita a riconciliarci con i limiti della vita e la prospettiva della morte. La fragilità fa parte della nostra condizione di creature. Qual è il segno della nostra riconciliazione con la morte? Quando siamo capaci di donare la vita! Questo richiede, però, un esercizio continuo di “morire” ogni giorno a noi stessi, mettendo la nostra vita al servizio degli altri, sull’esempio del Maestro.

3. La vita va CONDIVISA.

Nella seconda lettura troviamo l’esortazione di San Paolo alla comunità di Corinto per incoraggiarla a partecipare con generosità alla colletta in favore della comunità madre di Gerusalemme, che si trovava in serie ristrettezze: “Per il momento la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza, perché anche la loro abbondanza supplisca alla vostra indigenza, e vi sia uguaglianza”. La condivisione di beni è condivisione di vita.Tutti siamo coscienti quanto ciò sia urgente nel nostro mondo, dove crescono a dismisura le disuguaglianze. Non ci sarà pace senza giustizia. L’egoismo, l’accumulo e l’accaparramento dei beni seminano la morte. Il cristiano è chiamato a testimoniare la beatitudine proclamata da Gesù, secondo San Paolo: “Si è più beati nel dare che nel ricevere!” (Atti degli apostoli 20,35). La generosità, tuttavia, non è un atteggiamento spontaneo, specie se comporta la rinuncia a certe comodità. Essa implica la fede nel “centuplo” promesso dal Signore e l’esercizio continuo della larghezza di cuore.

4. La vita ci è AFFIDATA.

Il vangelo ci offre diversi spunti di riflessione. Soffermiamoci su uno, sull’intercessione di Giairo in favore della vita di sua figlia: “La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva”. Ci commuove la supplica di questo padre, inginocchiato davanti a Gesù. Il Signore, condividendo il suo dolore, “andò con lui”. Tutti siamo chiamati ad essere sensibili al dolore altrui, ad andare verso colui che soffre e a lenire la sua pena, per quanto sia possibile. La vita degli altri ci è affidata. C’è una miriade di maniere pratiche di vivere la “compassione”, la solidarietà e la fratellanza umana. Grazie a Dio, questa sensibilità va crescendo, accomunando credenti e non credenti. Ma c’è una modalità tipica del credente che si sta affievolendo: la preghiera di intercessione. La secolarizzazione ci ha aiutati a prendere coscienza dell’autonomia del mondo e del dovere intrasferibile di prenderci cura di tutto il creato, attraverso l’esercizio responsabile della tecnica e della scienza. Dio non è un “tappabuchi”, come si suole dire. Senza dubbio questa nuova consapevolezza e sensibilità è una grazia perché purifica la fede, rendendola più genuina. Ma se è così, a cosa “serve” pregare? È la domanda di tanti e forse anche la nostra. Alcuni teologi arrivano ad affermare che l’unica vera preghiera sia quella della lode o, addirittura, il solo atteggiamento di abbandono filiale alla “volontà” di Dio.

Tutta la tradizione biblica, la rivelazione di Dio nella sua incarnazione in Gesù di Nazareth, la tradizione ecclesiale e liturgica cozzano con questo riduzionismo che rischierebbe di concepire la prassi cristiana come semplice azione e, al limite, attivismo. La preghiera autentica, che non è sotterfugio o alienazione, è una modalità privilegiata di azione della fede. Noi e il mondo abbiamo bisogno di preghiera, sia essa di supplica, di intercessione, di ringraziamento, di lode o di abbandono. La preghiera è un “patrimonio mondiale”, un deposito a cui attingono tutti, credenti e non credenti, anche a nostra insaputa, in un modo che ci risulta misterioso. L’azione e la lotta per una società più giusta e fraterna è efficace perché fecondata dalla grazia. Dio ci affida la vita e la cura dei fratelli. La preghiera di intercessione è un prendersi cura dei fratelli, è “portare i pesi gli uni degli altri” (Galati 6,2).

Per concludere, ritorniamo alle due donne del vangelo, la fanciulla e la donna adulta, accomunate da una situazione di perdita di “vitalità”. Questo ci porta a considerare la tematica della dignità della donna, sorgente e culla della vita, diventata oggi di urgente attualità. Solo promuovendo la dignità della donna è possibile rigenerare la vita. Come farlo? Ci può inspirare questo commento rabbinico, ripreso dal Talmud, un testo sacro dell’ebraismo: “State molto attenti a far piangere una donna, che poi Dio conta le sue lacrime! La donna è uscita dalla costola dell’uomo, non dai piedi perché dovesse essere pestata, né dalla testa per essere superiore, ma dal fianco per essere uguale… un po’ più in basso del braccio per essere protetta e dal lato del cuore per essere amata”.

P. Manuel João Pereira Correia mccj
Verona, giugno 2024

Fede necessaria
per essere Missionari per la Vita

Sapienza 1,13-15; 2,23-24; Salmo 29; 2Corinzi 8,7.9.13-15; Marco 5,21-43

Riflessioni
Torna con forza il tema della Vita, nelle tre letture di questa domenica: la vita come progetto iniziale e definivo di Dio (I lettura); la vita che, grazie alla fede, vince la malattia e la morte (Vangelo); e la vita condivisa nella carità (II lettura). Nel Primo Testamento, il credente biblico aveva, in generale, una conoscenza e un rapporto molto nebulosi riguardo alla morte e alla vita ultraterrena. Fanno eccezione alcuni testi prossimi al Nuovo Testamento, come il libro della Sapienza (I lettura), che appare determinato nel darci una delle più belle definizioni di Dio, come “Signore, amante della vita” (11,26). Il testo odierno afferma che “Dio non ha creato la morte… ha creato l’uomo per l’incorruttibilità” (v. 13.23). Le cose della creazione sono buone, sono fatte per esistere, sono portatrici di salvezza, perché provengono dal Dio della vita.

Con il suo progetto di vita, Dio non intendeva esimere le sue creature dalla fine naturale che è retaggio di ogni essere limitato. Purtroppo il piano divino è stato rovinato, sia pure parzialmente: “per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo” (v. 24). Infatti, il peccato, che è la morte spirituale, a cui l’uomo si abbandona liberamente, ha stravolto anche l’ordine naturale e continua ad aggravare nella sofferenza i passi cadenti dell’esistenza umana. Non ha molto senso (sarebbe solo uno sterile rimbalzare di ipotesi teoriche!) domandarsi se la morte naturale ci sarebbe stata senza il peccato di Adamo. È meglio prendere atto della nostra realtà attuale, l’unica che abbiamo.

Dio ha messo in atto per noi la rivincita sulla sofferenza e sulla morte per mezzo della fede, alla quale Gesù invita i personaggi dei due miracoli che l’evangelista Marco racconta con abbondanti dettagli (Vangelo). La donna che perde sangue da dodici anni, dilapidata da medici e cure, ritenuta legalmente impura per contatto con il sangue, ora è del tutto spacciata. Le resta solo la scorciatoia della fede, nascosta e segreta: toccare il lembo del vestito di Gesù. Le basta raggiungerlo, toccarlo, e il miracolo è fatto: “Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita” (v. 34). Ormai è salva, in pace, sana: è figlia, perché Gesù le ha dato la vita. È il miracolo della fede! La stessa fede alla quale Gesù invita Giàiro, il papà della bambina dodicenne appena morta: “Non temere, soltanto abbi fede!” (v. 36). A Gesù basta prendere la fanciulla per mano e dirle: “alzati!” E lei si alza, cammina e riprende a mangiare (v. 41-42). Nei due interventi miracolosi di Gesù - sulla donna inferma e sulla bambina morta - l’evangelista Marco mette in evidenza la cifra di dodici anni (un tempo lungo e completo), ma insiste soprattutto sul fatto che Gesù si lascia toccare dalla donna legalmente impura per il sangue e tocca la carne morta della bambina. Gesù non ha paura di andare oltre la l’impurità legale, perché Dio è “una mano che ti prende per mano” (E. Ronchi).

San Paolo invita i cristiani di Corinto (II lettura) a scoprire nella fede il valore evangelico della condivisione dei beni a favore di chi è nel bisogno. Nel caso specifico, l’appello paolino è a favore dei poveri nella comunità di Gerusalemme, ma le tre motivazioni teologiche su cui l’apostolo si basa sono valide per ogni tempo e situazione. Anzitutto, l’esempio di Cristo, che ha scelto di farsi povero per noi (v. 9), è un invito ad assumerne i sentimenti di condivisione e di gratuità. Inoltre, Paolo sottolinea il valore dell’uguaglianza (v. 13-14) come esigenza della vera fraternità che si ispira al Vangelo. Infine, alludendo all’esperienza degli israeliti con la manna nel deserto, Paolo mette in guardia i cristiani dalla tentazione di accumulare i beni per sé dimenticando gli altri (v. 15).

Sono indicazioni preziose anche oggi per motivare e sostenere le iniziative di cooperazione missionaria, come pure i grandi progetti e le campagne di sviluppo e di promozione umana a favore degli affamati e di altri gruppi di persone indigenti. Nella vicinanza degli incontri annuali fra gli uomini di governo più potenti della terra, associati nei vari G7, G20, Ue, Nato, Onu…, è doveroso ricordare il messaggio della Chiesa e del Papa, che reclamano soluzioni efficaci, rapide e generose a beneficio degli ultimi della terra. Papa Francesco lo ha fatto in modo ampio e autorevole con l’Enciclica Laudato Si’, “sulla cura della casa comune”. (*)

Nelle tre letture di oggi, la fede appare come la risposta capace di generare soluzioni globali a realtà basiche come la salute, la vita, la fraternità… La fede, infatti, è capace di dare consolazione nella sofferenza e speranza anche davanti alla morte; è capace di creare e sostenere una fraternità nuova, una vita di condivisione nella carità. Una vita di fratelli, uguali e solidali, è possibile! È l’utopia del Vangelo? Sia benvenuta, anche se esigente! Rimane sempre come un ideale davanti a noi. È questo - e non può essere un altro - il programma di quanti sono chiamati e optano per essere missionari per la Vita! Come Gesù, come Paolo…

Parola del Papa

(*) «La sfida urgente di proteggere la nostra casa comune comprende la preoccupazione di unire tutta la famiglia umana nella ricerca di uno sviluppo sostenibile e integrale, poiché sappiamo che le cose possono cambiare… Abbiamo bisogno di nuova solidarietà universale… Tutti possiamo collaborare come strumenti di Dio per la cura della creazione, ognuno con la propria cultura ed esperienza, le proprie iniziative e capacità. Spero che questa Lettera enciclica, che si aggiunge al Magistero sociale della Chiesa, ci aiuti a riconoscere la grandezza, l’urgenza e la bellezza della sfida che ci si presenta».
Papa Francesco
Lettera enciclica Laudato Si’ (2015) n. 13-15

P. Romeo Ballan, MCCJ

Il Dio d’amore che ci prende per mano

Sap 1,13-15; 2,23-24; Salmo 29/30; 2Cor 8,9.13-15; Mc 5,21-43

Due miracoli compongono il lungo racconto evangelico di questa domenica: la guarigione della donna, che da dodici anni, soffre di emorragia e la risurrezione della figlia di Giairo. I punti di contatto tra questi due miracoli sono rilevanti: si tratta di due donne; c’è il numero ‘’dodici’’ che ricorre in ambedue i casi (la donna è malata da dodici anni quando la bambina dodicenne è venuta al mondo); il duplice miracolo avviene per contatto fisico, la folla è estranea ai due prodigi e l’intervento di Gesù è all’insegna della sua sensibilità di fronte alle miserie umane, senza distinzione di persone. Egli si muove, certo, per un personaggio importante (Giairo), ma si ferma anche per una donna anonima. In realtà la fede costituisce il vero centro che unisce tra loro i due episodi.

La donna si era già rivoltata a parecchi medici, i cui interventi prolungati hanno dato esiti piuttosto deludenti. La duplice insistenza su ‘’dodici anni’’ sembra un’ironia nei confronti dei medici e un sospetto sul fallimento e sui limiti delle cure mediche. Comunque, lo scopo di Marco è di mettere in evidenza la gravità della malattia e l’efficacia istantanea dell’intervento di Gesù contrapposto all’ impotenza delle scienze, dei mezzi umani.

La donna che soffre di perdite di sangue, secondo le prescrizioni del Levitico, è in uno stato di impurità che le impedisce qualche contatto e incontro con altre persone. Dunque, toccando il mantello di Gesù, ella ha trasgredito la legge sulla purità rituale. Si comprende allora il suo timore, dovuto anche al sospetto che il maestro si riprenda il beneficio che lei gli ha ‘’rubato’’. Però Gesù inizia, invece, un’opera di chiarificazione. Egli fa evolvere la fede iniziale della donna, impregnata ancora di elementi magici, fino alla fede matura, quella che fa passare dalla guarigione alla salvezza. Egli vuole inoltre che la donna conosca la vera causa della sua guarigione: La sua fede!

È la fede che rende possibile il miracolo. Gesù scambia per fede ciò che per noi è soltanto superstizione. Quel Maestro si accontenta anche di una fede semplice, non matura, mescolata a qualche elemento di superstizione. È spesso più concreta o autentica una fede un po’ sporca di terra che una fede intellettualistica qualche volta costruita artificialmente in certi centri o istituzioni specializzati con la pretensione di ortodossia (che non garantisce sempre l’ortoprassia) e di essere talmente sicura da non risultare più contagiosa.
Don Joseph Ndoum

Guarire,
per diventare il mantello di Cristo

Una bimba di dodici anni che sta morendo e una donna che da altrettanto tempo perde sangue. L’Evangelista Marco incrocia due storie: quella di una bambina che sta naufragando prima di diventare adulta e quella di una donna che ha una femminilità sanguinante; e nel frattempo appare un padre, capo di Sinagoga, che non riesce a tenere in vita la figlia che ha generato, in parallelo con dei medici che hanno torturato la loro povera paziente, «senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando».

Donne che soffrono e uomini che non le sanno aiutare... eppure il discorso è ancora più esteso: quanti adolescenti che sembrano irretiti nelle grinfie del nulla prima di divenire adulti, e quante donne e uomini che non riescono a vivere la loro maternità o paternità... e tanta vita sprecata, tanta bellezza che non sboccia e non arriva al suo frutto.

C’è bisogno di padri che sappiano chiedere aiuto sperando contro ogni speranza, e di donne e uomini che non si rassegnino al dolore interiore, a quella ferita nascosta che sanguina in tanti di noi. Quella donna torturata inutilmente dalle terapie del mondo è l’umanità, e ha bisogno di sentir parlare di Gesù, ha necessità di qualcuno che gli racconti la potenza di Cristo.

Questa umanità, poi, ha bisogno di trovarlo dove Lui ha scelto di farsi incontrare, in mezzo a quella folla che lo circonda che è la Chiesa, e ha urgenza di toccarlo. Tutti noi, per il nulla che ci insidia, abbiamo bisogno di toccare mille volte Cristo, e guarire. Ma c’è un altro livello: guarire, sì, ma per diventare il mantello di Cristo. Come potranno, infatti, i giovani toccare il Verbo della vita se non perché si imbattono in uomini e donne che vivono questa Sua vita?

Abbiamo tante cose da fare, ciascuno nella propria missione, ma, sempre e comunque, la cosa più importante è di essere una frangia del Suo mantello, ossia vivere ogni aspetto della nostra fragile umanità come qualcuno che sta con un Altro, fa le cose con Lui, cammina con Lui. Allora Lo troveranno dalle nostre parti.
[Fabio Rosini – L’Osservatore Romano]

Due vite ricuperate

Commentario a Mc 5, 21-43

Marco continua a presentare Gesù che agisce sulle due rive del lago di Galilea, con un messaggio chiaro di vicinanza divina ai poveri ai cuori “rotti”; un messaggio che si esprime, non soltanto in parole ispiratrici, ma anche in gesti concreti che confermano le parole e li danno una consistenza quasi “fisica”. Gesù mette in atto quello che possiamo chiamare “segni messianici”, cioè, azioni concrete che diventano manifestazioni della presenza di Dio in mezzo al suo popolo siano loro gli abitanti di Gerassa (“nell’altra riva”), siano quelli di Cafarnao.

Da “impure” a figlie

Nella lettura d’oggi si racconta la storia di due donne (una bambina di dodici anni e un’adulta malata anche da dodici anni); donne che, essendo “impure” (una perché cadavere e l’altra perché perde sangue-vita), sono “toccate” da Gesù e ricuperano, non soltanto la vita, ma anche la loro dignità di “figlie”, capaci di alzarsi, di credere (“la tua fede ti ha salvato”) e di condividere il banchetto della vita (“fatela mangiare”).

Alcuni sembrano leggere questi gesti di Gesù, come se Lui fosse un mago che con poteri speciali produce effetti appunto magici… Certamente, non c’è da dubitare dal grande potere di guarigione di Gesù, Ma mi sembra che questa non sia la prospettiva adeguata per capire quello che è successo sulla riva del lago di Galilea neanche quello che continua a succedere oggi tra tanti veri credenti. La prospettiva adeguata è quella del “segno messianico”, cioè, un’azione, un gesto che nasce dalla confluenza di due elementi fondamentali:

L’estraordinaria capacità di Gesù di amare e di entrare in comunione con le persone nella loro concreta situazione di vita, anche se erano condannate dalla tradizione; la sua profonda sintonia affettiva che, prendendo molto sul serio la realtà delle persone, riesce a trasmettere la sua esperienza della radicale vicinanza dell’amore del Padre. Come dice Benedetto XVI, soltanto l’amore salva. Quando qualcuno si sa amato, ricupera la sua dignità, diventa capace di alzarsi e di vivere una vita piena.

La fede di persone umili, che, minacciate dalla malattia e dalla morte, aprono i loro cuori e la loro speranza a Dio come unica roccia di rifugio. Nella mia vita missionaria in Africa, Europa e America ho trovato parecchie persone che sono come il papà della bambina moribonda o la donna disperata da una malattia che la umilia e la distrugge come donna e persona.

Davanti a una simile situazione, queste persone cercano una via d’uscita: nella medicina, nella preghiera, nel buon consiglio…, ovunque ci sia un’opportunità di ricuperare la vita minacciata o perduta. Molti li dicono che non c’è niente da fare, che accettino la realtà; si beffano di loro e della loro fede… Ma questa sua ricerca va rispettata e presa sul serio. Ed è questo che fa Gesù: a partire dalla sua estraordinaria esperienza della comunione con il Padre della Vita è capace d’entrare anche in comunione con i suoi figli e figlie che passano per momenti di speciale difficoltà, fino a rischiare di dubitare della propria dignità e di essere amati.

Parole e azioni

Tutti gli esseri umani, inclusi quelli più sicuri e prepotenti siamo delle creature deboli, esposte a malattie, sofferenze, disprezzi, pericolo e, per ultimo, la morte, anche se a volte qualche miracolo allontana per un po’ questo finale previsto, com’è successo alla figlia di Gairo, l’emorroissa o Lazaro. Ma io non credo che l’obiettivo dei miracoli di Gesù fosse di prolungare una vita che comunque deve finire, ma quello di dare una vita differente, una vita vissuta nell’amore e nella dignità, come figli e figlie di un Padre amoroso, che prende sul serio ognuno di noi. Le due donne, dopo quel “segno messianico” di Gesù, possono dichiarare con verità: “Io sono importante per Dio, sono importante per Gesù, sono importante per la comunità degli amici di Gesù. Non sono una malata o una moribonda. Sono FIGLIA”.

Questo è il messaggio centrale di Gesù. Per farlo capire usa parole, ma anche “segni” che nei vangeli hanno una doppia condizione:

Sono concreti e pratici, legati alla vita della gente; aiutano le persone in un modo “fisico”, risolvono un problema reale della vita reale.

trascendono la materialità, per trasmettere qualcosa che va aldilà del gesto concreto nella sua stretta materialità. Non si riducono a un “aiuto materiale”, senza anima, senza amore; comunicano una fiducia nella persona e la spingono a superare se stessa, alzarsi e mettersi al servizio di altri.
Così, anche la missione cristiana, sull’esempio di Gesù, cammina sempre su questo binario di parola e azione, di fede e di carità, di materia e di spirito. Le due dimensioni sono essenziali e si esigono a vicenda: la parola senza azione diventa bugiarda; l’azione senza parola perde il suo senso.
P. Antonio Villarino, MCCJ