Con questa domenica inizia il “discorso in parabole” di Gesù nel vangelo di Matteo. La prima sezione affronta un tema fondamentale per le comunità cristiane di tutti i tempi: le condizioni richieste per un fruttuoso ascolto della parola di Dio. Ciò che Gesù mette in fuoco, prima di tutto, è la figura e i gesti del seminatore. Egli sembra spiegare il significato autentico della propria missione. [Foto: Il Seminatore, di Vincent Van Gogh (1888)].
La “madre” di tutte le parabole
Matteo 13,1-23:
Ecco, il seminatore uscì a seminare!
Inizia con questa domenica il “discorso in parabole” del cap. 13 del vangelo di Matteo. Si tratta del terzo discorso di Gesù, dopo il discorso inaugurale “sul monte” (cap. 5-7) e del “discorso missionario” di invio degli apostoli in missione (cap. 10). Questo discorso è composto da sette parabole. Le prime quattro sono rivolte alla folla (il seminatore, la zizzania, la senape e il lievito) e le altre tre ai discepoli (il tesoro, la perla, la pesca). Sette parabole per presentare “il mistero del regno di Dio” (13,11).
L’espressione “regno dei cieli” o “regno di Dio” o semplicemente “il regno” appare una cinquantina di volte nel vangelo di Matteo; la prima volta nella bocca di Giovanni il battista (3,1) e la seconda sulle labbra di Gesù: “Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino” (4,17). Il regno è il tema della predicazione di Gesù, lo scopo della sua vita e della sua missione. Cos’è il Regno di Dio? Gesù ce lo espone attraverso queste parabole.
Che cos’è una parabola? È un racconto che, partendo da un fatto, da una storia verosimile o da una realtà della vita, vuole trasmettere, in modo simbolico, un messaggio più profondo, talvolta misterioso, che richiede uno sforzo di interpretazione. Gesù ha usato spesso le parabole nella sua predicazione. Bisogna distinguere, però, tra parabola e allegoria. Nella allegoria ogni elemento narrativo ha un significato, mentre nella parabola bisogna cercare solo il senso globale.
1. La parabola dell’ottimismo e della speranza
La parabola del seminatore è una delle più conosciute del vangelo, “la madre di tutte le parabole” (Papa Francesco). Il brano ha tre parti distinte: nella prima, il racconto della parabola (vv. 1-9); nella seconda, la ragione per cui Gesù parla in parabole (vv. 10-17); nella terza, una spiegazione allegorica della parabola (vv. 18-23).
Questa parabola è stata raccontata in un momento delicato della vita di Gesù, quando iniziava a prospettarsi il fallimento della sua missione. A questo punto ci domandiamo: perché il male sembra trionfare sempre? Perché il bene fa così fatica ad attecchire nel mondo, nel cuore delle persone? Si direbbe che la risposta della parabola sia: tutto dipende dalla qualità del terreno dove viene sparso il seme. L’intenzione primaria, però, non è tanto l’invito a domandarci che tipo di terreno è il nostro cuore, ma piuttosto l’incoraggiamento ai discepoli – e a noi – ad annunciare il vangelo “nella speranza che vi sia, da qualche parte, della terra buona” (San Giustino). Gli ostacoli, l’opposizione, il rifiuto che trova la Parola possono indurci al pessimismo. Ebbene, Gesù ci incoraggia a continuare ad annunciare la Parola, fiduciosi nella sua fecondità straordinaria, prodigiosa, fino al cento per uno (quando nel suolo palestinese il massimo che si poteva aspettare era dieci per uno, cioè da un chicco di grano una spiga con dieci grani!).
2. Il principio capitalista dello spirito
Alla domanda dei discepoli: “Perché a loro parli con parabole?” Gesù sembra rispondere in un modo discriminatorio: “Perché a voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato”. Com’è possibile? Sembra che Gesù parli apposta in parabole per non essere capito, quando ci si aspetterebbe il contrario. In realtà si tratta di un “semitismo”, cioè un modo di parlare tipico, tra l’ironia, la tristezza e la delusione, davanti alla chiusura dei cuori. Chissà quante volte il Signore impiegherà questo linguaggio, vedendo la nostra testardaggine ed incredulità!
Mi impressiona tantissimo poi l’affermazione di Gesù: “Infatti a colui che ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a colui che non ha, sarà tolto anche quello che ha”. È ciò che io chiamerei il “principio capitalista” dello spirito: come il denaro corre verso colui che ne ha tanto e svanisce nelle tasche del povero, così succede nell’ambito dello spirito: quanto più ne hai più ne avrai di grazia, meno ne hai, per pigrizia, per negligenza, per chiusura di cuore, meno ne avrai. Domenica forse un milione circa di persone ascolteranno questa Parola nelle nostre chiese: una parte ne uscirà arricchita, l’altra impoverita, ma nessuno uguale come prima, perché una opportunità persa contribuisce alla “sclerocardia” spirituale, l’indurimento del cuore, che diventa sempre più insensibile alla Parola.
3. La spiegazione allegorica della parabola
“Voi dunque ascoltate la parabola del seminatore…”. L’evangelista attribuisce a Gesù la spiegazione allegorica della parabola. In realtà, si tratta forse di una sua applicazione alla vita concreta della comunità di Matteo. Ci possiamo domandare come mai il seminatore sparge il grano sul cammino, in terreno sassoso, tra i rovi, invece di seminarlo nella terra buona? Bisogna sapere che in Palestina prima si seminava e poi si arava per seppellire il seme. Si sperava che l’aratro avrebbe disfatto il sentiero tracciato dai passanti, sollevato le pietre, sradicato i rovi…
Lascio a voi il compito di confrontarvi con la Parola e di interrogarvi sul tipo di terreno del vostro cuore. Forse la risposta ci lascerà un po’ sconsolati. Ci rincuori questa citazione del drammaturgo irlandese Samuel Beckett: “Ho sempre tentato. Ho sempre fallito! Non discutere. Prova ancora. Fallisci ancora. Fallisci meglio!”.
È finito il mio “tempo di antenna” delle solite due paginette, ma mi permetto di aggiungere un altro elemento allegorico: in questo caso, cos’è l’aratro? Quello della croce di Cristo che scavando nel nostro cuore lo rende terra buona? (Tra l’altro, l’aratro era fatto di legno con una punta di ferro!). Noi ci illudiamo di poter evitare ogni sofferenza, di dribblare la croce, ma… “dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni” (Atti 14,22).
Conclusione: “Ecco, il seminatore uscì a seminare!”
“Gesù uscì di casa e sedette in riva al mare”. Questa Parola troverà alcuni di voi godendo di un meritato tempo di riposo. Ebbene, Gesù verrà anche da voi! Troverete un po’ di tempo per ascoltarlo?
P. Manuel João Pereira, comboniano
Castel d’Azzano, luglio 2023
Missione con la speranza di Dio,
seminatore prodigo e ostinato
Isaia 55,10-11; Salmo 64; Romani 8,18-23; Matteo 13,1-23
Riflessioni
Poche cose nella natura sono così piccole, quasi invisibili, eppure così potenti e sorprendenti come i semi delle piante. Ce ne sono a miriadi e di ogni specie, entrano dappertutto, li calpestiamo o si attaccano ai vestiti senza che ce ne accorgiamo; sembrano insignificanti, eppure sono forti, resistenti, con capacità enormi di sviluppo. Tutte le piante del bosco, orto, frutteto o giardino hanno origine da un pugno di semi: in essi la Natura ha concentrato potenzialità di sviluppo quasi infinite. Nella parabola odierna - detta del seminatore - (Vangelo), Gesù, da bravo Maestro e attento osservatore della natura, tesse il suo noto e straordinario insegnamento partendo proprio dai semi. Tre sono le angolature sotto cui si può studiare questa parabola: il seminatore, il seme e i terreni; tutti e tre con una proiezione di universalità.
Anzitutto, il seminatore sorprende per la sua prodigalità. Agisce da ‘inesperto’, ‘sprecone’, getta il seme dappertutto, quasi senza voler accorgersi dove finisce: sulla strada, tra i sassi, le spine, e finalmente sul terreno buono. Il seminatore è simbolo di speranza: spes in semine (la speranza è nel seme) si dice. Il seminatore è immagine del Dio di vita, di speranza e misericordia; un Dio contadino prodigo e ostinato nella distribuzione dei suoi doni, capace di trasformare un cuore di pietra in cuore di carne e di far fiorire un seme dalla roccia. Un Dio che ama tutti, vuole che la sua parola arrivi a tutti, “vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità” (1Tim 2,4). Il nostro Dio è come il contadino: paziente, tenace, spera sempre, sa aspettare, rispetta i tempi di maturazione di ciascuno. E così nella vita e nelle culture di tutti i popoli, anche se non ancora evangelizzati, si trovano doni e valori che hanno la loro origine e pienezza nel Dio che è Padre di tutti e datore di ogni bene.
Il seme è la Parola di Dio, è Gesù stesso, Verbo e dono del Padre, Dio in carne umana, Cristo, che è la pienezza del Regno. L’annuncio missionario del Vangelo di Gesù fa crescere i valori presenti nelle culture, li purifica e li porta alla perfezione. A ragione, già San Giustino (+ 165) chiamava tali valori i ‘semi del Verbo’. Parola efficace del Padre, il Verbo è come la pioggia (I lettura) che scende dal cielo per irrigare la terra, fecondarla e far germogliare nuovi frutti (v. 10). Questo Seme divino ha una potenzialità infinita: offre a tutti salvezza; non vi sono barriere capaci di impedire che la salvezza arrivi ovunque, a chiunque, compresi i più disperati. Nel mondo, che è il campo del Padre – sempre bello da contemplare! – (Salmo responsoriale), non vi sono persone o realtà irrecuperabili. Questo è il fondamento dell’ottimismo cristiano: tenace, al di sopra di ogni resistenza. Questa è la speranza che sostiene il missionario: egli crede alle sorprendenti potenzialità della Parola che va seminando, spera sempre che il seme produca frutti, mette in gioco la sua vita per salvare se stesso e gli altri.
Dio ha scelto di lasciarsi condizionare dai terreni diversi. Nel cuore di ogni persona ci sono sassi e spine, ma anche un po’ di terra buona, capace di far germogliare i semi di Dio. Siamo tutti un po’ buoni e un po’ cattivi. Egli offre generosamente la sua salvezza a tutti, ma non forza nessuno, rispetta e si affida alla libertà umana. I terreni diversi, cioè ogni persona, hanno la capacità di accogliere o di rifiutare il seme. Questo è il dramma dell’esistenza umana, con la sua facoltà di scegliere tra essere strada, sasso, spine, o terra buona. E anche quest’ultima con diversi gradi di risposta: produrre il 30, il 60, il 100 per uno (v. 8.23). (*) Dentro i meandri del cuore umano si inserisce l’opera dello Spirito (II lettura), che è presente anche nella creazione che geme e soffre in attesa della salvezza piena dei figli di Dio (v. 23).
Nella storia delle missioni e nell’attività di evangelizzazione si fa spesso la grata scoperta di tesori di santità e di grazia anche là dove tutto sembra arido, sassoso, prematuro. Alcuni esempi lo confermano. Nel profondo Darfur (regione occidentale del Sudan, da decenni devastata da violenze senza fine) Dio ha fatto brillare la grandezza di una ex-schiava, santa Bakhita. Altri esempi. In mezzo agli orrori della guerra civile del Congo (1964), Dio ha acceso la luce della beata Clementina Anuarite, martire della castità e del perdono. Tra le testimonianze recenti di terreni buoni possiamo ricordare anche: santa Maria Goretti, la santa Madre Teresa di Calcutta, Gandhi e tante altre persone conosciute a livello delle Chiese locali. A proposito di terreni, la storia mostra che ci sono vicende alterne e mutevoli secondo i tempi e gli avvenimenti: epoche di accoglienza e di buoni frutti, seguite da chiusure, rifiuti, o nuovi ritorni.
Non dimentichiamo che nella parabola odierna Gesù parla del seminatore, non del raccoglitore. Nella società e nella Chiesa molti preferirebbero il compito di mietitori e vendemmiatori piuttosto che di seminatori; ma l’invito di Gesù è a diventare seminatori di vita, solidarietà, compassione, speranza. Oggi la Chiesa ci fa chiedere al Padre, con la potenza dello Spirito, “la disponibilità ad accogliere il germe della tua parola, che continui a seminare nei solchi dell’umanità, perché fruttifichi in opere di giustizia e di pace”. (Orazione colletta).
Parola del Papa
(*) “Il seminatore è Gesù. Notiamo che, con questa immagine, Egli si presenta come uno che non si impone, ma si propone; non ci attira conquistandoci, ma donandosi: butta il seme. Egli sparge con pazienza e generosità la sua Parola, che non è una gabbia o una trappola, ma un seme che può portare frutto… Se noi lo accogliamo. Perciò la parabola riguarda soprattutto noi: parla infatti del terreno più che del seminatore. Gesù effettua, per cosí dire, una “radiografia spirituale” del nostro cuore, che è il terreno sul quale cade il seme della Parola. Il nostro cuore, come un terreno, può essere buono e allora la Parola porta frutto – e tanto – ma può essere anche duro, impermeabile… come su una strada: non entra”.
Papa Francesco
Angelus, domenica 16 luglio 2017
P. Romeo Ballan, MCCJ
Desiderare anche senza
poter vedere
«Beati i vostri occhi perché vedono... In verità io vi dico: molti profeti e molti giusti hanno desiderato vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro!». Istintivamente si pensa che tale frase significhi: “A voi è andata meglio che a loro!” — ma a che serve dirlo?
Eppure l’espressione: «In verità io vi dico» segnala una rivelazione importante. Profeti e giusti hanno desiderato vedere quel che voi vedete: voi vedete quel che loro hanno desiderato. Se non lo avessero desiderato, voi non lo vedreste. Ogni generazione deve desiderare qualcosa che non deve vedere, perché spetta alla generazione successiva. Molti profeti e giusti hanno desiderato vedere la Chiesa del Vaticano II, e noi la stiamo vedendo perché loro lo hanno desiderato. Il nostro possesso è frutto della loro aspirazione.
È la storia dei Padri che videro i beni promessi e li salutarono solo da lontano (cfr. Eb 11, 13), come Mosé che vide la terra promessa ma non vi entrò, perché spettava a Giosuè — che in Ebraico è lo stesso nome di Gesù. È nota essenziale della paternità il preparare il meglio per i propri figli e non esaurire tutto nella propria vita. Non si può vivere sbranando all’osso l’esistenza, perché c’è una vita che è più importante della propria: quella dei figli, quella della generazione a venire. Se lavoro per il presente, senza mettere da parte per quel che verrà, sono uno stolto che non ha capito la grandezza delle cose.
È bello fare qualcosa di grande ma è ancor più bello vedere i propri figli, nella carne o nella fede, diventare grandi e fare quello a cui noi non possiamo e non dobbiamo arrivare. Si può vivere solo per sé stessi, ma è una vita stolida, da superficiali. Siamo così estemporanei!... Prima di arrivare al Padre, vale la pena di desiderare fino al dolore a favore della prossima generazione. Ci sono anziani che vivono come se tutto finisse con loro. E ci sono quelli che pongono le basi, fanno da fondamento, sperano contro ogni speranza e desiderano cose grandi. I loro figli vedranno il Messia.
[Fabio Rosini - L'Osservatore Romano]
La parola di Dio
feconda il terreno della storia
Is 55,10-11; Salmo 64; Rm 8,18-23; Mt 13,1-23
Con questa domenica inizia il “discorso in parabole” di Gesù nel vangelo di Matteo. La prima sezione affronta un tema fondamentale per le comunità cristiane di tutti i tempi: le condizioni richieste per un fruttuoso ascolto della parola di Dio. Ciò che Gesù mette in fuoco, prima di tutto, è la figura e i gesti del seminatore. Egli sembra spiegare il significato autentico della propria missione. Quasi a dire: non sono stato inviato a sistemare le cose, ma ad iniziare qualcosa, di darne l’avvio; oppure la mia missione è sotto il segno della seminagione, non della mietitura. La spiegazione successiva insiste sui vari tipi di terreni, e quindi sulla risposta dell’uomo, sulla sua responsabilità di fronte alla parola di Dio, che disseminata nel mondo annuncia il regno dei cieli.
Nella prima lettura il profeta Isaia paragona questa parola di Dio alla pioggia e alla neve, che scendono dal cielo, e prima di ritornarvi fecondano la terra. Così la parola del Signore a lui non ritorna prima di aver compiuto la sua speciale missione nei cuori degli uomini. La sua efficacia è certa, cioè per quanti ostacoli gli uomini credano di porre di fronte alla parola e al piano di Dio, essa riesce sempre. Essa, in realtà, ha in sé la virtù di operare. Dio riesce a dispetto di tutte le apparenze e di tutte le interferenze o opposizioni che l’uomo possa frapporre.
L’immagine dell’acqua che feconda la terra si prolunga nelle strofe del salmo responsoriale e rappresenta l’azione creatrice di Dio che rinnova annualmente la vita sulla terra. E’ un segno della fedeltà di Dio verso la natura. Infatti, il collegamento tra storia e natura è molto compatto nella tradizione biblica. Per Israele, la creazione è la sede dell’uomo e il peccato è un attentato all’armonia del mondo, mentre conversione e perdono ridonano integrità all’universo. Si comprende allora che Dio si offre come conservatore provvidente dell’armonia cosmica.
Perciò San Paolo, nella seconda lettura, ricorda che tutto il creato attende con ansia il realizzarsi del piano di salvezza, preparato da Dio per tutti gli uomini, e rivelato in Cristo Gesù.
Soffermiamoci adesso sul punto focale della parabola del seminatore. Un punto che ci proietta non verso il futuro, ma nel presente. Il regno di Dio è qui ed ora in azione, anche se nascosto e, perfino, malgrado l’insuccesso. I semi vanno a finire in diversi terreni. Sono descritte tre situazioni negative (una parte del seme cadde sulla strada, un’altra in un luogo sassoso, ed un’altra parte sulle spine); ed una sola positiva, che cadde sulla terra buona. Questa ultima viene posta in risalto con una triplice elencazione della resa del seme, cha dà “dove il cento, dove il sessanta, dove il trenta”. La vicenda del seme è l’immagine della parola di Dio e della sua vicissitudine. Tale parola, come diceva Isaia, riesce certamente, ma di fronte ad essa l’accoglienza può essere assai diversa.
La radice dell’incomprensione è il cuore indurito dell’uomo. E’ veramente nel cuore, come centro della persona, che si radica la relazione con Dio. Quando il cuore è indurito resta precluso l’appello di Gesù alla conversione. Siamo di fronte alla libertà dell’uomo. Ecco dunque noi cristiani di fronte alla parola di Dio. C’è primo l’ascolto, e secondo la traduzione in pratica. Ma non dobbiamo dimenticare mai che il seme che è la parola efficace di Dio ha anche il potere di trasformare il terreno, di sfaldare le rocce e di distruggere le spine.
Don Joseph Ndoum
Matteo 13, 1-23
Lectio
Matteo pone alla nostra attenzione un insegnamento di Gesù composto da sette parabole, numero che ricorda le sette domande del “Padre nostro” e i sette lamenti funebri contro i farisei.
1 Quel giorno Gesù uscì di casa e sedette in riva al mare. 2 Si radunò attorno a lui tanta folla che egli salì su una barca e si mise a sedere, mentre tutta la folla stava sulla spiaggia.
L’insegnamento di Gesù in parabole è strettamente legato al capitolo precedente. L’evangelista situa tale attività nello stesso giorno in cui Gesù si è scontrato in polemica con i farisei. La localizzazione del luogo “casa” è probabilmente a Cafarnao, dove Gesù aveva la sua comunità/casa. Ancora una volta l’evangelista indica il lago di Tiberiade con il termine “mare”: frontiera tra Israele e i popoli pagani e ricordo del mare attraversato per giungere alla terra promessa.
3 Egli parlò loro di molte cose con parabole. E disse: «Ecco, il seminatore uscì a seminare. 4 Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono. 5 Un’altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c’era molta terra; germogliò subito, perché il terreno non era profondo, 6 ma, quando spuntò il sole, fu bruciata e, non avendo radici, seccò. 7 Un’altra parte cadde sui rovi, e i rovi crebbero e la soffocarono. 8 Un’altra parte cadde sul terreno buono e diede frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno.
La parabola va intesa alla luce delle profezie messianiche. L’atteso Messia veniva definito Germe/Germoglio (Zc 6,12: “Ecco un uomo che si chiama Germoglio: fiorirà dove si trova e ricostruirà il tempio del Signore”). Anche il nome “Nazareno” (lett. “Nazoreo” che è un termine in relazione con l’ebraico “nezer” – virgulto di Davide – e allude alla profezia di Is 11,1) con il quale Gesù è riconosciuto (Mt 2,23) richiama la stessa immagine di “virgulto/pollone” applicata al discendente davidico: “Ecco verranno giorni – oracolo del Signore – nei quali susciterò a Davide un germoglio giusto, che regnerà da vero re e sarà saggio ed eserciterà il diritto e la giustizia sulla terra” (Ger 23,5; cfr. Zc 3,8).
Questa parabola che precede tutte le altre parabole del regno dei cieli riguarda la semina, condizione indispensabile perché il regno germogli: “Io li seminerò di nuovo per me nel paese e amerò Non-amata, e a Non-popolo-mio dirò: “Popolo mio”, ed egli mi dirà: “Dio mio ” (Os 2,25).
La parabola racconta le differenti reazioni alla semina in quattro terreni diversi. Il seme per nascere e crescere ha bisogno di particolari condizioni ambientali favorevoli. Se non le trova, o non cresce o la sua crescita è stentata e comunque improduttiva. In tre di essi il seme va perso.
Nel primo caso il terreno duro della strada non permette al seme di penetrarvi. Nel terreno sassoso, il sole che di per sé è fonte di vita, causa la morte. La colpa non è del sole ma del terreno che non aveva permesso al seme di sviluppare radici profonde.
Il terzo terreno offre le condizioni adatte, ma le spine soffocano la pianta che pur essendo cresciuta non arriva a portare frutto. Il quarto è l’unico terreno dove il seme trova le condizioni adatte per germogliare e crescere, è tale l’abbondanza da ripagare le altre perdite.
9 Chi ha orecchi, ascolti».
L’invito finale di Gesù richiama Dt 29,1-3: “Mosè convocò tutto Israele e disse loro: “Voi avete visto quanto il Signore ha fatto sotto i vostri occhi, nella terra d’Egitto,…Ma fino a oggi il Signore non vi ha dato una mente per comprendere né occhi per vedere, né orecchi per udire.”
10 Gli si avvicinarono allora i discepoli e gli dissero: «Perché a loro parli con parabole? ». 11 Egli rispose loro: «Perché a voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato.
Mentre al suo gruppo di discepoli Gesù parla direttamente e con chiarezza, alla folla, espone il suo messaggio mediante il linguaggio delle parabole. I discepoli si meravigliano di questo modo di esprimersi del loro maestro. A quanti sono ancora sottomessi sotto il giogo della Legge Gesù non può rivolgersi come a persone “libere” quali sono i suoi discepoli. Costoro si stanno aprendo (per piccoli tentativi) all’universalismo del messaggio di Gesù, mentre la folla è ancora condizionata dal proprio nazionalismo e dall’idea di un regno di Dio che coincida con il regno di Israele e venga instaurato da un Messia figlio di Davide. Accogliendo il messaggio delle beatitudini i discepoli rendono possibile il Regno, per questo a loro è dato di conoscere “i misteri del Regno” non di Israele ma di “Dio”.
12 Infatti a colui che ha verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a colui che non ha, sarà tolto anche quello che ha.
La parabola esposta da Gesù ha come tema la produzione del frutto da parte del seme seminato in quattro terreni differenti: in tre la semina fallisce o non giunge a maturazione, in uno solo i risultati sono positivi. Non basta accogliere il messaggio (ascoltare) ma “comprenderlo”. Cioè occorre collaborare perché produca frutto. Chi facendo maturare il seme produce, gli viene data ancora più grande capacità di produrre. Chi pur avendo ricevuto il seme non produce frutto si trova a perdere tutto. Questo insegnamento presenta un paradosso: i discepoli, attuando la prima delle beatitudini – la scelta di essere poveri e di condividere – non accumulano per loro “non hanno”, ma hanno il Regno, e perciò sono nell’abbondanza.
13 Per questo a loro parlo con parabole: perché guardando non vedono, Hudendo non ascoltano e non comprendono.
La gente è vittima del potere dei dirigenti e, come i farisei che si mostrano ciechi e sordi alla parola di Gesù, anch’essa è posseduta (indemoniata) da una ideologia che rende incomprensibile l’insegnamento di Gesù. Per questo, la tattica di Gesù è quella di proporre il suo messaggio a piccole dosi, non apertamente, ma sotto forma di parabola, di racconto che allude senza dire, in modo da renderlo comprensibile. La parola di Gesù è accessibile a quanti sono in sintonia con Lui, la folla invece che non si è liberata dall’insegnamento farisaico, viene istruita mediante parabole che non solo insinuano il dubbio, ma soprattutto favoriscono e stimolano la riflessione.
14 Così si compie per loro la profezia di Isaia che dice: Udrete, sì, ma non comprenderete, guarderete, sì, ma non vedrete. 15 Perché il cuore di questo popolo è diventato insensibile, son diventati duri di orecchi, e hanno chiuso gli occhi, perché non vedano con gli occhi, non ascoltino con gli orecchi e non comprendano con il cuore e non si convertano e io li guarisca!
Trova compimento la profezia di Isaia 6,9-10, la cui citazione viene riportata dall’evangelista come denuncia del popolo di Israele, che si è sempre dimostrato chiuso verso la parola di Dio e verso i suoi insegnamenti. L’accusa del profeta è contro una religiosità che moltiplica i gesti e le parole da rivolgere a Dio ma refrattaria ad accogliere e comprendere la sua Parola. Nel brano citato, che ora trova compimento, Isaia ricorda la sua missione di annunciare al popolo la parola di Dio: il suo destino sarà fallimento e suo risultato il peggioramento della situazioerà la conversione, ma la risposta sarà un indurimento maggiore.
Ricordando le parole del profeta, Gesù è ben cosciente dell’esito della sua missione, ma è altresì cosciente del disastro al quale il popolo di Israele andrà incontro. Se il rifiuto ad ascoltare le parole di Isaia condurrà il popolo verso la catastrofe dell’esilio Babilonese, il rifiuto di Gesù avrà più gravi conseguenze: la conquista di Gerusalemme da parte dei romani e la sua totale distruzione. Il popolo è vittima e nello stesso tempo complice dei propri dirigenti.
Da notare che nella citazione di Isaia riportata dall’evangelista non viene adoperata l’usuale formula “questo mio popolo”, ma unicamente “questo popolo”, espressione molto più distaccata = Israele non solo non è che un popolo come gli altri, ma più resistente alla parola di Dio. La stessa citazione di Isaia 6,9-10 chiude il libro degli Atti, dove Paolo constatato il rifiuto da parte di Israele dirà: “Sia dunque noto a voi che questa salvezza di Dio fu inviata alle nazioni, ed esse ascolteranno.”(At 28,28)
16 Beati invece i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano. 17 In verità io vi dico: molti profeti e molti giusti hanno desiderato vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono!
A quanti accolgono Gesù e il suo messaggio viene rivolta la beatitudine di poter veramente “vedere” e “sentire”. I discepoli liberati dalla mentalità ottusa del popolo, escono dalle strette dimensioni nazionalistiche di Israele e sono il nuovo popolo di Dio, per questo sono chiamati “beati”. Per ora si dice che i discepoli “vedono” e “sentono”, ci vorrà però la loro maturazione personale per poter davvero “comprendere” la ricchezza del messaggio del Regno. Infatti Gesù dovrà spiegare loro la parabola dei quattro terreni. Parabola che – secondo l’interpretazione patristica più antica – non riguarda tanto un invito agli ascoltatori ad esaminare se stessi bensì l’incoraggiamento ai discepoli ad annunciare il vangelo “nella speranza che vi sia, da qualche parte, della terra buona” (Giust. Dial. 125,2)
18 Voi dunque ascoltate la parabola del seminatore. 19 Ogni volta che uno ascolta la parola del Regno e non la comprende, viene il Maligno e ruba ciò che è stato seminato nel suo cuore: questo è il seme seminato lungo la strada.
La parola di Gesù ha la stessa efficacia della parola di Dio: “Così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto e senza aver compiuto ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata…” (Is 55,11). Ma l’efficacia della parola è condizionata dalla sua accoglienza.
Il primo caso in cui la parola del regno fallisce è dovuto alla non comprensione. Non basta l’ascolto occorre pure la comprensione. Delle nove volte che il verbo capire/comprendere appare in Matteo (13,13.14.15.19.23.51;15,10; 16,12; 17,13) ben sei sono in questo capitolo a sottolineare l’importanza di questo verbo.
La prima volta che appare è in relazione alla profezia di Isaia (“Udrete, sì, ma non comprenderete…” vv. 13-14; Is 6,9-10) dove la comprensione era posta in stretta relazione con la conversione. Dove non c’è disponibilità alla conversione, la parola può essere ascoltata ma, non sarà compresa. Anche i farisei e le autorità religiose ascoltavano l’insegnamento di Gesù ma lo ritenevano un pazzo indemoniato, agente di Belzebù. E ritenevano di poter giudicare in nome di Dio e in difesa del suo onore.
La non comprensione della parola lascia via libera al “maligno” che ruba ciò che è stato seminato. Il termine “maligno” è un epiteto che Gesù ha già adoperato per indicare i farisei: “voi che siete maligni/cattivi” (Mt 12,34). Il maligno si identifica con l’ideologia farisaica che deturpa il volto di Dio e lo rende sempre più lontano dalla gente. Sono i farisei con la loro malignità a rubare la parola che viene proclamata. Per evitare questo pericolo occorre “convertirsi” per comprendere il Dio che Gesù presenta e accoglierlo nella propria vita.
20 Quello che è stato seminato sul terreno sassoso è colui che ascolta la Parola e l’accoglie subito con gioia, 21 ma non ha in sé radici ed è incostante, sicché, appena giunge una tribolazione o una persecuzione a causa della Parola, egli subito viene meno.
Gesù, paragonando colui che ascolta la sua parola e non la mette in pratica a un uomo stolto che costruisce la sua casa sulla sabbia, ha affermato che si va incontro ad una rovina totale (7,27). Ugualmente ora spiega che la parola – come un seme che per fruttificare deve prima poter mettere le radici nel terreno – non va semplicemente accolta con entusiasmo ma ha bisogno di essere mantenuta con costanza. Il pericolo che si pone all’ascoltatore è quello della incostanza o instabilità. L’evangelista adopera il termine proskairósestin per indicare ciò che è temporaneo, legato al tempo.
La tribolazione o persecuzione si paragona all’azione del sole: se la pianta non ha radici essa subito si brucia e si secca, invece se è ben radicata il sole è vitale per la sua crescita.
22 Quello seminato tra i rovi è colui che ascolta la Parola, ma la preoccupazione del mondo e la seduzione della ricchezza soffocano la Parola ed essa non dà frutto.
La preoccupazione economica (6,25) risveglia nell’uomo il desiderio di accaparrare in modo da assicurarsi la sussistenza. Ma l’inganno della ricchezza scatena l’ambizione di possedere sempre di più, non già il necessario ma anche il superfluo. Questo è causa di nuove preoccupazioni economiche, che fa ripiegare sempre di più la persona su se stessa e sui propri interessi. La preoccupazione per la ricchezza aumenta la voglia di possesso, quindi crea nuove esigenze aumentando di nuovo le preoccupazioni. In queste condizioni il messaggio di Gesù non può essere mai vissuto. Per chi vive in preda all’accumulo dei beni materiali, non si può attuare mai la parola del vangelo che pone la generosità come criterio di valore per la persona (“se il tuo occhio è semplice, tutto il tuo corpo sarà luminoso” Mt 6,22). Finora sono stati presentati tre terreni con i rispettivi fallimenti nei confronti della parola che viene annunciata.
23 Quello seminato sul terreno buono è colui che ascolta la Parola e la comprende; questi dà frutto e produce il cento, il sessanta, il trenta per uno».
Il fatto che Matteo ponga al primo posto 100 indica che quando il terreno è adatto il seme sprigiona tutte le sue energie vitali che si manifestano in una forma nuova (seme/frutto) completa e totale ma ben superiore alle capacità e possibilità del seme.
Normalmente il raccolto veniva considerato molto buono quando da un chicco di grano nasceva una spiga con dieci grani (la media normale era di 7/8). 30 grani è già un risultato eccezionale. Ma questo risultato se pur ottimale Gesù lo pone all’ultimo posto. Il risultato non dipende dal seme (che può produrre il 100), ma dalle condizioni del terreno che possono limitare il frutto in 60 e 30. È l’uomo che mette il limite alla propria crescita.
Riflessioni…