La parola di Dio di questa domenica ci fa riflettere sul problema della condotta morale del cristiano. Nel Vangelo, sentiamo il solenne discorso delle Beatitudini. E' la «buona novella» indirizzata soprattutto ai poveri e agli infelici.
Beatitudini: ritratto di Gesù e del Missionario
Geremia 17,5-8; Salmo 1; 1Corinzi 15,12.16-20; Luca 6,17.20-26
Riflessioni
"Il discorso della Montagna è andato dritto al mio cuore. È stato grazie a questo discorso che ho imparato ad amare Gesù", affermava Gandhi, padre dell'India moderna e promotore della strategia della nonviolenza-attiva. L'ammirazione proviene in particolare dalle Beatitudini, che sono il cuore del programma di Gesù. Un chiaro messaggio sul senso dell'esistenza umana: indovinare o sbagliare, vincere o perdere, riuscire o essere sconfitti, adeguarsi o andare controcorrente, finire con un ‘benedetto’ o con un ‘maledetto’ (cfr. Mt 25). La lista di alternative opposte potrebbe continuare. Gesù aggiunge la sua alternativa nel discorso programmatico delle Beatitudini (Vangelo): “Beati voi... guai a voi...” (v. 20.24). Lo stile letterario usato da Gesù è simile a quello di Geremia (I lettura). Ammaestrare con immagini contrastanti, parallele e ripetitive, era prassi comune fra i maestri dell’epoca, allo scopo di facilitare l’apprendimento per popoli di cultura orale. È un metodo didattico che i missionari conoscono bene e lo si riscontra ancor oggi presso numerosi gruppi umani.
Più ancora dello stile letterario, è importante cogliere il messaggio delle Beatitudini: la posta in gioco fra le due alternative espresse da Geremia e da Gesù è la vita, la salvezza, e perfino la salvezza eterna. Le due opzioni sono: essere come un tamarisco nella steppa, cioè vivere in un deserto senza frutti e senza vita; oppure essere come un albero piantato lungo un corso d’acqua, impavido del caldo e ricco di frutti. Sono scelte che il profeta classifica con un verdetto contundente: maledetto... o benedetto... Per Geremia, la ragione morale di tale sentenza sta nella scelta di confidare nell’uomo (v. 5), o di confidare nel Signore (v. 7). ‘Confidare’ è il verbo della fede: cioè, fissare il punto di solidità della casa, porre il fondamento dell’edificio sulla roccia. Il salmo responsoriale riprende lo stesso tema con abbondanza di immagini prese dalla vita agricola e dalle abitudini sociali.
Gesù propone un programma identico (Vangelo): organizzare la vita, mettendo Dio al centro di ogni riferimento, porta naturalmente ad un risultato positivo, al ‘beati voi...’, e non al ‘guai a voi...’. Optare per Gesù significa lavorare a favore dei bisognosi, scoprire la beatitudine anche all’interno di realtà ritenute comunemente negative, perdenti, secondo le opinioni della maggioranza: beati voi poveri, beati voi che ora avete fame, voi che ora piangete, voi che siete insultati e respinti... Rallegratevi! (v. 20-23). Il parallelismo di Luca continua con immagini opposte, scandite dal ‘guai a voi’ (v. 24-26). Il 'guai a voi', però, non è una minaccia o un castigo, è il lamento di Gesù, l'amarezza per la situazione di quanti inseguono progetti mondani di opulenza, potere, soddisfazioni egoiste, sopraffazioni, prestigio, onori... Gesù ne è rammaricato: ahimè per voi!
Soltanto chi si fida completamente di Dio riesce a vivere la gratuità, condividere senza accumulare, gioire con poche cose, trovare ‘perfetta letizia’ anche nel ricevere insulti, rifiuti, persecuzione. La gioia spirituale delle beatitudini non ha nulla a che vedere con soddisfazioni masochiste. Tuttavia non elimina la comune sofferenza insita nelle situazioni difficili, ma sa leggervi dentro un messaggio superiore, una sapienza nuova, un cammino di salvezza, una misteriosa fecondità pasquale, un “segno dell’umanità rinnovata” (orazione colletta). Anche se non di facile comprensione.
Le Beatitudini sono un autoritratto di Gesù: Lui stesso è il povero, sofferente, perseguitato... Ha scelto il cammino della passione, morte e risurrezione per dare la vita al mondo (II lettura). Il programma che Gesù affida agli apostoli -e ai missionari di ogni tempo- non può essere differente: il missionario è l’uomo/donna delle Beatitudini, come li ha definiti Giovanni Paolo II. In particolare, le Beatitudini della persecuzione e della povertà, vissute nella condivisione di vita. Lo confermano le decine di missionari che ogni anno cadono vittime della violenza. Nel 2018 sono stati 40! Alla loro testimonianza va associata quella di altri testimoni (volontari, giornalisti, forze dell’ordine...) caduti in atto di servizio. All’origine di tali uccisioni ci sono spesso banditi e rapinatori; altre volte sono più evidenti le motivazioni religiose e sociali. Optare per Cristo significa operare sempre a favore dei deboli e dei bisognosi, nei quali Egli si identifica: affamati, ignudi, ammalati, carcerati, forestieri… Ne abbiamo la certezza con le due sentenze nel giudizio finale: “venite, benedetti del Padre mio”, o “via, maledetti…” (Mt 25,34.41). Vi è coerenza fra il Vangelo delle Beatitudini e il test del giudizio finale. Il cammino delle Beatitudini porta alla Benedizione definitiva. Alla felicità vera e duratura!
Parola del Papa
“Il missionario è l'uomo delle beatitudini. Gesù istruisce i Dodici prima di mandarli a evangelizzare, indicando loro le vie della missione: povertà, mitezza, accettazione delle sofferenze e persecuzioni, desiderio di giustizia e di pace, carità, cioè proprio le beatitudini, attuate nella vita apostolica (Mt 5,1-12). Vivendo le beatitudini, il missionario sperimenta e dimostra concretamente che il Regno di Dio è già venuto e egli lo ha accolto”.
Giovanni Paolo II
Enciclica Redemptoris Missio (1990), n. 91
A cura di P. Romeo Ballan – MCCJ
Beato l’uomo che si compiace della legge del Signore
Ger 17, 5-8; Salmo 1; 1Cor 15, 12. 16-20; Lc 6, 17. 20-26
La parola di Dio di questa domenica ci fa riflettere sul problema della condotta morale del cristiano, che viene illustrato tre volte: nella prima lettura, con un oracolo del profeta Geremia; poi nel salmo responsoriale, che ci parla delle due vie; in fine nel Vangelo, con la duplice serie di «beati» e «guai». Il brano di Geremia è composto da brevi frasi di stile sapienziale, in cui sono contrapposti il destino dell'empio, che mette la sua fiducia nel sistema di valori puramente umani, e quello del giusto che si affida a Dio. Il profeta prospetta il destino di morte che attende l'empio. Le immagini accumulate (la steppa priva di frutti, il deserto arido e la terra sterile, senza vita) per esprimere la condizione di chi si allontana da Dio pongono in risalto l'esito di un esistenza senza sbocco.
A questo caso negativo viene contrapposto quello positivo del giusto «che confida nel Signore è sua fiducia». Anche in questo caso la benedizione viene esplicitata con una serie di immagini, tutte attorno al tema della vita: «Egli è come un albero piantato lungo l'acqua, verso la corrente stende le radici; non teme quando viene il caldo, le sue foglie rimangono verdi; nel anno della siccità non intristisce, non smette di produrre i suoi frutti». Nel contesto dell'alleanza la benedizione e la maledizione sono riservate rispettivamente a chi osserva o viola i dieci comandamenti. Questo aspetto etico-morale è più marcato nel salmo responsoriale (salmo 1) che afferma: «Beato l'uomo che si compiace della legge del Signore, la sua legge medita giorno e notte». Le due Vie, quella dei giusti e quella dei malvagi, sono contrassegnate dall'opposta prospettiva di una vita feconda o di un esistenza sterile.
Nel Vangelo, il solenne discorso delle Beatitudini riprende e sviluppa il tema fondamentale già annunciato nel discorso programmatico di Gesù nella sinagoga di Nazareth (cf. Terza domenica ordinaria). E' la «buona novella» indirizzata soprattutto ai poveri e agli infelici. Per contrasto, quasi il rovescio della medaglia, ci sono alcune «cattive notizie» per i ricchi, i sdazi, i soddisfatti. Quindi, Gesù annuncia la venuta del suo regno come in sua giustizia ristabilisce l'equilibrio rotto dall'egoismo umano. E' quanto proclama Maria facendo eco al cantico di Anna (1 Sam 2, 4-5), nel Magnificat: «Ha rovesciato i potenti dai troni e ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rinviato i ricchi a mani vuote».
Non siamo di fronte a una specie di consacrazione della povertà, quasi fosse una condizione ideale per accogliere il regno di Dio. E neppure si deve credere che dipenda dal fatto che i poveri siano moralmente migliori dei ricchi. L'ideale non è la povertà. Piuttosto per i poveri si apre una speranza meravigliosa. Dio è stanco di vederli soffrire e ha deciso di mostrare a loro che egli li ama.
La povertà rimane un male contro cui bisogna lottare senza tregua. L'ideale, quindi, è l'amore-carità che si esprime nella condivisione e della trasformazione dei beni materiali in strumento o «sacramento» di fraternità. D'altra parte, saremo giudicati proprio sul nostro atteggiamento nei confronti di quelli che malati, prigionieri (cf. Mt 25): «quello che avete fatto a costoro lo avete fatto a me», dichiara Gesù.
I quattro «guai», che fanno da contrappunto alle quattro beatitudini, sono una constatazione amara (come siete infelici, nonostante le apparenze) nei confronti dei ricchi, ed un severo ammonimento contro il pericolo delle ricchezze. I ricchi corrono il pericolo di non vedere oltre orizzonte del presente e dei beni materiali; il pericolo di rinchiudersi in se stessi e non accorgersi degli altri, specialmente di coloro che sono poveri; il pericolo di lasciarsi sequestrare il cuore dalle ricchezze che finiscono per asservirli e monopolizzare il posto che spetterebbe a Dio. I ricchi sazi, in definitiva, sono sfortunati perché hanno la vista corta, sono schiavi delle cose che diventano cose degli idoli, si preoccupano soltanto di loro stessi, e il prestigio o successo li chiudono spesso nei confronti di Dio. Essi sono chiamati disgraziati ed infelici perché la loro sorte finale sarà il rovescio di quella presente. Il migliore commento di questi quadro negativo è la parabola del ricco epulone e del povero Lazzaro. La morte cambia radicalmente la condizione dell'uno e l'altro. Tutto sembra giocarsi sull'uso saggio delle ricchezze e c'è d'altra parte l'amore preferenziale del Signore verso tutti coloro che sono privi del necessario per vivere con dignità e libertà.
Don Ndoum Joseph
In quel tempo, Gesù, disceso con i Dodici, si fermò in un luogo pianeggiante. C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidòne. Ed egli, alzàti gli occhi verso i suoi discepoli, diceva: “Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio. Beati voi, che ora avete fame, perché sarete saziati. Beati voi, che ora piangete, perché riderete. Beati voi, quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e vi insulteranno e disprezzeranno il vostro nome come infame, a causa del Figlio dell’uomo. Rallegratevi in quel giorno ed esultate perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nel cielo. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i profeti. Ma guai a voi, ricchi, perché avete già ricevuto la vostra consolazione. Guai a voi, che ora siete sazi, perché avrete fame. Guai a voi, che ora ridete, perché sarete nel dolore e piangerete. Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i falsi profeti”.
(Letture: Geremia 17,5-8; Salmo 1; 1 Corinzi 15,12.16-20; Luca 6,17.20-26)
L’essere umano è un mendicante di felicità, ad essa soltanto vorrebbe obbedire. Gesù lo sa, incontra il nostro desiderio più profondo e risponde. Per quattro volte annuncia: beati voi, e significa: in piedi voi che piangete, avanti, in cammino, non lasciatevi cadere le braccia, siete la carovana di Dio. Nella Bibbia Dio conosce solo uomini in cammino: verso terra nuova e cieli nuovi, verso un altro modo di essere liberi, cittadini di un regno che viene. Gli uomini e le donne delle beatitudini sono le feritoie per cui passa il mondo nuovo. Beati voi, poveri! Certo, il pensiero dubita. Beati voi che avete fame, ma nessuna garanzia ci è data. Beati voi che ora piangete, e non sono lacrime di gioia, ma gocce di dolore. Beati quelli che sentono come ferita il disamore del mondo. Beati, perché? Perché povero è bello, perché è buona cosa soffrire? No, ma per un altro motivo, per la risposta di Dio. La bella notizia è che Dio ha un debole per i deboli, li raccoglie dal fossato della vita, si prende cura di loro, fa avanzare la storia non con la forza, la ricchezza, la sazietà, ma per seminagioni di giustizia e condivisione, per raccolti di pace e lacrime asciugate. E ci saremmo aspettati: beati perché ci sarà un capovolgimento, una alternanza, perché i poveri diventeranno ricchi. No. Il progetto di Dio è più profondo e più delicato. Beati voi, poveri, perché vostro è il Regno, qui e adesso, perché avete più spazio per Dio, perché avete il cuore libero, al di là delle cose, affamato di un oltre, perché c’è più futuro in voi. I poveri sono il grembo dove è in gestazione il Regno di Dio, non una categoria assistenziale, ma il laboratorio dove si plasma una nuova architettura del mondo e dei rapporti umani, una categoria generativa e rivelativa. Beati i poveri, che di nulla sono proprietari se non del cuore, che non avendo cose da donare hanno se stessi da dare, che sono al tempo stesso mano protesa che chiede, e mano tesa che dona, che tutto ricevono e tutto donano. Ci sorprende forse il guai. Ma Dio non maledice, Dio è incapace di augurare il male o di desiderarlo. Si tratta non di una minaccia, ma di un avvertimento: se ti riempi di cose, se sazi tutti gli appetiti, se cerchi applausi e il consenso, non sarai mai felice. I guai sono un lamento, anzi il compianto di Gesù su quelli che confondono superfluo ed essenziale, che sono pieni di sé, che si aggrappano alle cose, e non c’è spazio per l’eterno e per l’infinito, non hanno strade nel cuore, come fossero già morti. Le beatitudini sono la bella notizia che Dio regala vita a chi produce amore, che se uno si fa carico della felicità di qualcuno il Padre si fa carico della sua felicità.
Avvenire
Quando Gesù aveva ormai discepoli che lo seguivano e stavano accanto a lui nel suo peregrinare sulle strade della Galilea per annunciare la venuta del Regno, ecco imporsi una scelta, un’elezione. Gesù non è solo ma ha una comunità che deve apparire come una personalità corporativa, capace di rappresentare il popolo di Israele, il popolo delle dodici tribù in alleanza con il Signore.
Per operare questo discernimento, Gesù sale sul monte come un tempo aveva fatto Mosè (cf. Es 32,30-34,2), e in quel luogo solitario ma propizio all’ascolto del Padre prega. Secondo Luca nei momenti decisivi della sua missione Gesù entra sempre in preghiera, cerca la comunione con il Padre e cerca di discernere la sua volontà. Da questa intensa esperienza di ascolto egli matura la sua decisione di chiamare a sé e dunque di scegliere tra i suoi seguaci dodici uomini che saranno da lui inviati (apóstoloi) e avranno come compito la missione di annunciare il regno di Dio insieme a Gesù stesso.
Ecco dunque Gesù scendere dal monte con la sua comunità “istituita”e raggiungere una pianura dove trova molti ascoltatori, tra i quali numerosi malati che chiedono la guarigione e la liberazione dal potere del male (cf. Lc 6,18-20). Gesù è un vero rabbi, un vero profeta, e molti percepiscono che è abitato da una forza (dýnamis) portatrice di vita. In questo contesto Gesù vede attorno a sé i suoi discepoli e indirizza loro le beatitudini. Si tratta di un modo di esprimersi ben attestato in Israele (cf. Is 30,18; 32,20; Sal 1,1; ecc.): esclamazioni, grida cariche di forza e speranza, indirizzate a qualcuno per attestargli che ciò che lui vive o compie è benedetto da Dio, il quale porterà a termine l’opera in modo imprevedibile. In ogni beatitudine è pertanto implicata una promessa di intervento da parte di Dio.
Nel vangelo secondo Luca le beatitudini sono quattro e risultano differenti dalla versione di Matteo, che ne contiene nove (cf. Mt 5,1-11). In Luca sono espresse alla seconda persona plurale, indirizzate direttamente ad ascoltatori presenti nell’uditorio di Gesù e indicano una situazione concreta come la povertà, la fame, il pianto, la persecuzione; le beatitudini secondo Matteo mettono invece in risalto le condizioni spirituali dei beati, quali la povertà di spirito, la mitezza, la fame e sete di giustizia, la misericordia, la purezza di cuore…
Abbiamo dunque due testimonianze, due interpretazioni delle beatitudini pronunciate da Gesù, che sono complementari e ci permettono di conoscere in modo più ricco e profondo il messaggio che dà forza, convinzione e speranza ai discepoli. Certo, nell’ascoltare queste beatitudini e ancor più nell’annunciarle mi bruciano le labbra: Gesù, infatti, si rivolge a poveri, affamati di pane, piangenti e perseguitati, mentre io non posso collocarmi tra questi destinatari del Regno. Ascoltiamole dunque ancora una volta, lasciamo che ci interroghino, che ci feriscano al cuore e cerchiamo di non essere scandalizzati dal loro radicalismo: le beatitudini non sono etica e morale, ma sono rivelazione, sono annuncio da accogliere o rigettare, esprimono la logica e la dinamica del regno di Dio. Quel Regno che noi dobbiamo cercare per prima cosa (cf. Lc 6,31; Mt 6,33) nella consapevolezza che Gesù è la buona notizia, il Vangelo di Dio per noi.
La prima beatitudine è indirizzata a “voi che siete poveri”, cioè ai discepoli di Gesù che in tutto il vangelo appaiono come poveri: essi hanno abbandonato tutto, si sono spogliati addirittura della famiglia e, fatti poveri, seguono il Messia povero. Certo, le parole di Gesù trascendono i suoi discepoli storici e sono indirizzate alla chiesa, costituendo un principio di krísis, di giudizio: questi poveri reali, concreti, ai quali Gesù ha rivolto la beatitudine-felicità, sono nella chiesa? La chiesa è la comunità dei poveri ed è povera? Domande che, significativamente, Luca si pone nella seconda parte della sua opera, gli Atti degli apostoli, dove la povertà e i poveri sono creditori della condivisione, della koinonía, affinché “nessuno di loro fosse povero” (cf. At 4,34).
Questa prima beatitudine – va ammesso – è paradossale. Com’è possibile affermare: “Beati i poveri”? Eppure essa risuona in questo modo perché vuole indicare che non è la povertà a rendere beati i poveri, ma la condizione della povertà permette loro di invocare, desiderare, discernere il regno di Dio. I poveri sono quelli che invocano che a regnare su di loro sia Dio, non il denaro, non i potenti di questo mondo. In tal modo diventano “significanti”, fanno segno verso il regno di Dio con una forza più efficace di quella di ogni possibile comunicazione verbale. I poveri sono segno dell’ingiustizia del mondo e, insieme, sacramento del Signore Gesù, il quale “da ricco che era si fece povero per noi, per farci ricchi della sua povertà” (cf. 2Cor 8,9). I poveri – e bisogna renderli vicini, ascoltarli e conoscerli per poterli interpretare – sanno riconoscere che il regno di Dio è per loro e questa è la beatitudine che nessuno potrà mai strappare dal loro cuore. Verrà il regno di Dio con l’instaurazione della giustizia, e allora la koinonía sarà piena.
Come i poveri reali e concreti, anche quelli che hanno fame e conoscono la minaccia della morte per mancanza di cibo e di acqua sono beati. Perché? Perché ora sono in questa condizione, ma il Dio liberatore agisce in loro favore. Come Luca ha attestato nel Magnificat cantato da Maria (cf. Lc 1,46-55), donna umile, povera e credente, Dio con la forza del suo braccio disperde i potenti e annulla i loro piani, rovescia i potenti dai troni e innalza gli umili, ricolma di beni gli affamati e rimanda i ricchi a mani vuote. Ci sarà una sazietà per chi ora soffre la fame! Questa è la giustizia che si esprimerà nel giudizio di Dio, un giudizio che ci dovrebbe avvertire, perché sarà nella misericordia se avremo avuto misericordia di chi soffre accanto a noi. Non possiamo pensare che le omissioni siano meno gravi di un’azione che provoca morte: chi vede l’affamato e non lo sazia è come uno che gli dà la morte, è un assassino del fratello!
Consideriamo la terza beatitudine, quella relativa a chi piange, forse in modo meno temibile, perché prima o poi piangiamo tutti. Qui però la contrapposizione va letta tra chi trascorre la vita nel lamento e chi invece vive da gaudente; tra chi conosce solo il duro mestiere di vivere e chi è esente da fatiche, pesi e sofferenze, perché carica gli altri dei suoi pesi delle sue fatiche. In sostanza, tra oppressi e oppressori. La gioia e il canto sono dunque la promessa di Dio anche per quanti sono oppressi.
Infine, l’ultima beatitudine lucana è indirizzata ai perseguitati a causa di Cristo e del suo messaggio. Sì, ci sarà persecuzione per chi porta il nome di cristiano, ci sarà ostilità, disprezzo e insulto: se infatti è avvenuto così per Gesù, il maestro, potrà forse avvenire diversamente per i discepoli? Con questa beatitudine Gesù intravede il futuro e noi sappiamo come ciò è sempre accaduto e accade oggi più che mai, per molti cristiani sparsi nel mondo. Costoro possono esultare ed essere gioiosi, perché la persecuzione testimonia l’appartenenza a Cristo di chi è osteggiato e gli assicura la ricompensa del regno dei cieli.
In Luca alle beatitudini seguono i “guai” (Ouaì hymîn!), grida di avvertimento per quanti si sentono autosufficienti. Si faccia però attenzione: non si tratta di maledizione, come spesso si dice o si traduce, ma di constatazione e lamento! Constatazione che chi è ricco, sazio e gaudente non capisce, non comprende (cf. Sal 49,13.21), non sa di andare verso la rovina e la morte, una morte che vive già nel rapporto con i propri fratelli e le proprie sorelle. Questi “guai” sono eco degli avvertimenti dei profeti di Israele (cf. Is 5,8-25; Ab 2,6-20), sono un richiamo a mutare strada, a cambiare mentalità e comportamenti, sono un vero invito alla vita autentica e piena.
Se ha una vita fedele e conforme a Cristo, il cristiano non si attenda che gli vengano tolti i sassi dal cammino. Al contrario, facilmente gli verranno scagliati addosso: se infatti è “giusto”, sarà odiato e non si sopporterà neppure la sua vista (cf. Sap 1,16-2,20). Ricordiamo infine anche il “guai, quando tutti diranno bene di voi”, perché come Gesù è stato “segno di contraddizione” (Lc 2,34), così lo è il cristiano, se è conforme a lui.
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Dopo le parole pronunciate da Gesù nella sinagoga di Nazareth, l’evangelista Luca pone sulle labbra di Gesù questa parola così concreta, rivolta ai “suoi discepoli”. Non si tratta del discorso programmatico di Matteo, il cosiddetto “discorso della montagna”, ma di un più breve annuncio che Gesù pronuncia in un “luogo pianeggiante”, là dove è possibile il radunarsi di una grande folla. Ma, in mezzo ad essa, Gesù parla solo ai “suoi discepoli”, a quelli che, nel vasto orizzonte della vita, chiama a seguirlo, ad assumere il suo “punto di vista” (inteso come punto di osservazione della realtà!).
Partiamo da qui: le beatitudini di Luca sono la parola che illumina “dal basso” la condizione della vita “pianeggiante” del discepolo, la sua sequela ordinaria, il luogo dove è più difficile riconoscere la rivelazione di Dio (Dio solitamente nella Scrittura si rivela “sul monte”: qui colloca le beatitudini l’evangelista Matteo!). Ma scoprire di essere “beati” o “infelici” in questo orizzonte è tanto più vitale quanto più scopriamo che c’è un crinale molto sottile fra la beatitudine e il suo contrario.
Tuttavia, la differenza fra chi è beato e chi non lo è la si può vedere solo dalla posizione che assume Gesù all’inizio del suo discorso: “disceso… con loro si fermò in un luogo pianeggiante”. Gesù sta “in basso” là dove l’Amore ha scelto di scendere per essere con l’uomo, oggetto del suo amore. “Umiliò se stesso assumendo la condizione di servo” (cfr. Fil 2), uomo fra gli uomini, ultimo di tutti (come lo abbiamo visto in fila con i peccatori ricevere il battesimo di Giovanni). Da questa posizione, Gesù “solleva lo sguardo” sul suo uditorio, dal luogo dove la condiscendenza di Dio lo ha posto per essere là dove si dispiega la vita dell’uomo. Questa è la kenosi di Dio che percorre tutta la parabola della esistenza umana di Gesù, dall’incarnazione fino alla morte di croce.
È da qui che si può discernere cosa fa la differenza fra l’essere beati e il non esserlo. Non può mai essere la stessa cosa essere felici e il trovarsi nei “guai”, l’essere vivi o il sembrare di esserlo!
Come mostra bene il profeta Geremia nella prima lettura: sia il “tamerisco nella steppa” che “l’albero piantato lungo un corso d’acqua” appaiono vivi e vegeti agli occhi di chi li osserva. Ma la differenza fra i due sta nel luogo dove questi alberi hanno piantato le loro radici.
La differenza fra l’essere “beati” e il non esserlo dipende da dove stiamo “radicando” la nostra vita: se sul “terreno arido” di una realtà che pone sulla terra il suo orizzonte ultimo, dove la ricerca della ricchezza, della sazietà e di una soddisfazione gaudente di sé ci fanno apparire come “fortunati” ed “esaltati dagli uomini”; oppure se stiamo affondando le nostre radici alla ricerca di quella corrente sotterranea di vita che viene da Dio e che sa che la povertà, la fame e il pianto di oggi non sono la realtà definitiva della vita. Solo questo radicamento profondo in Dio dona uno sguardo “alternativo” che ci fa interpretare la storia e le situazioni in modo capovolto.
Mi piace pensare che Gesù sia “disceso” là dove l’albero “stende le sue radici” per proclamare “beati” coloro che sono nella povertà, nella fame, nel pianto, nel disprezzo dei fratelli. Da qui, per contro, Gesù può vedere quanto sia effimera la condizione di chi ora è sicuro nella sua ricchezza, nella sazietà, nel gaudio e nel consenso generale. Gesù quindi dischiude ai suoi discepoli il “segreto” di un modo diverso di giudicare il reale, e di viverci dentro.
Anche noi ne abbiamo urgentemente bisogno. Per non confondere il valore delle cose e per “piantare” la nostra esistenza là dove può trovare “acqua”/vita non solo oggi, ma per sempre, in ogni stagione della vita, quando le condizioni sono favorevoli e quando non lo sono (“non teme quando viene il caldo, nell’anno della siccità non si da pena, non smette di produrre i suoi frutti”). Il segreto delle “beatitudini” sta nell’apertura a Colui che è più grande dell’uomo, a Colui che è oltre lui, ma che, al tempo stesso, è con lui e per lui.
Continuando a leggere insieme la prima lettura e il vangelo, potremmo dire che è beato chi è in cammino sulla via della vita (la parola “beati” contiene nell’originale ebraico l’accezione di “movimento verso”), consapevole della propria condizione di “indigenza”: il “povero” è colui che manca di un bene necessario; l’“affamato” manca di ciò che lo può saziare; “colui che piange” anela ad una consolazione non effimera; chi è “disprezzato” ed emarginato a causa di Gesù manca del rispetto dovuto ad ogni essere umano. Ma, al tempo stesso, costui sa bene in Chi porre la propria fiducia. Non nell’uomo o nelle realtà che oggi possono apparentemente colmare la sua mancanza (ricchezza, sazietà, piacere, riconoscimento), ma in Colui che ha promesso di essere con noi in ogni situazione della vita, nella nostra condizione di “indigenza”.
Allora potremo anche rimanere poveri, affamati o piangenti, ma scopriremo al cuore della nostra “mancanza” l’amore di Colui che non ci abbandona. La sua promessa oggi porta il pegno di un compimento proprio perché Lui è per noi “tesoro” incomparabile nella nostra povertà (“Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova, poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo”, Mt 13,44), mano che asciuga le nostre lacrime (“e asciugherà ogni lacrima dai loro occhi”, Ap 21,4), pane che sazia ogni nostra fame (“Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame”, cfr. Gv 6,35).
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