Continuiamo la lettura e la meditazione del Vangelo secondo Luca. Troviamo Gesù ancora a Nazareth, che si confronta con i suoi concittadini riguardo il titolo di profeta, questa figura che può sembrare a noi un fenomeno di tempi ormai passati. Invece, con una riflessione più attenta, scopriamo che il ruolo di profeta è ancora attuale.

L'oggi di Dio va accolto con un sì qui e adesso

Ger 1,4-5.17-19; Salmo 70; 1Cor 12,31 - 13,13; Lc 4,21-30

Continuiamo la lettura e la meditazione del Vangelo secondo Luca. Troviamo Gesù ancora a Nazareth, che si confronta con i suoi concittadini riguardo il titolo di profeta, questa figura che può sembrare a noi un fenomeno di tempi ormai passati. Invece, con una riflessione più attenta, scopriamo che il ruolo di profeta è ancora attuale. Il concilio Vaticano II ha in questa prospettiva riconosciuto alla Chiesa una missione profetica nel mondo. Ed ogni cristiano è chiamato ad essere profeta e testimone.

Gesù fallisce nel proprio paese. Il suo manifesto suscita dapprima stupore, per scatenare poi una reazione violenta. Perché quest’atteggiamento? Perché questa crisi di rigetto? Due elementi possono spiegarlo. L’oggi, prima di tutto «oggi si è adempiuta questa scrittura». La liberazione e la salvezza non sono per domani ma per oggi. Il regno di Dio è ormai qui, ora. E l’uomo deve prendere posizione, decidersi e convertirsi. E’ ciò che spesso pure noi, non vogliamo realizzare. Molto meglio una liberazione e una salvezza per domani e più tardi. E’ più facile coltivare l’attesa del regno di Dio, che accorgersi che è già iniziato ed attende che lo realizziamo e lo rendiamo manifesto. L’oggi di Dio deve giudicare i nostri pensieri e le nostre azioni, deve denunciare la fragilità dei nostri progetti, come pure la precarietà dei valori che guidano la nostra vita, e condannare l’inconsistenza dei nostri ideali. L’oggi di Dio va, quindi, accolto con un sì; pronunciato qui ed adesso, non differito a più tardi.

L’altro elemento fastidioso nel messaggio di Gesù è la scelta, da lui fatta, di quelli di fuori: «nessun profeta è bene accetto in patria. Vi dico anche: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elia… ma a nessuna di esse fu mandato Elia, se non a una vedova in Sarepta» L’oggi di salvezza per quelli di Nazareth vuol dire miracoli, guarigioni a favore dei malati di Nazareth. Gesù invece, parla della sua missione in termini universalistici. Non esiste alcuna limitazione alla salvezza di Dio. «Lo condussero fin sul ciglio del monte… per gettarlo giù dal precipizio. Ma egli passando in mezzo a loro, se ne andò». La buona Novella segue la strada tracciata da Dio. Niente può fermarla o neutralizzare la sua forza.

La prima lettura presenta la figura di un grande profeta dell’AT, Geremia. Egli riceve la sua investitura dall’iniziativa libera e gratuita di Dio. Anche lui si scontra con la resistenza dei suoi compaesani. Non deve spaventarsi né temere i suoi avversari, perché il Signore che lo ha mandato è al suo fianco per difenderlo.

La seconda lettura propone un tema diverso. Ci presenta il celebre testo noto come inno o elogio alla carità (agapè). L’assenza della carità toglie ogni valore a tutti i doni spirituali (profezia, conoscenza, scienza, taumaturgia...). Un gesto eroico a favore degli altri, senza amore, rimane sterile agli effetti della salvezza.

Al centro di questa composizione dedicata alla carità, l’apostolo presenta quindici qualità che la contraddistinguono. Seguono otto caratteristiche espresse al negativo (cf. «la carità non è invidiosa, non si vanta… non adira…». L’elenco chiude con quattro qualità formulate al positivo riguardando la carità: «tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta». Più che definire l’agapè, Paolo vuole trasmetterci la passione e il desiderio per una dimensione dell’esigenza cristiana che ha a che are con la realtà stessa di Dio.
Don Joseph Ndoum

Il prezzo della fedeltà al Vangelo da annunciare

Geremia 1,4-5.17-19; Salmo 70; 1Corinzi 12,31-13,13; Luca 4,21-30

Riflessioni
Tutto era cominciato bene quella mattina a Nàzaret, nella sinagoga del villaggio natio. Gesù si era presentato bene con la sua prima predica (Lc 4,16-21) a commento del testo di Isaia, dicendo: “Oggi si è compiuta questa Scrittura” (v. 21). (*) Consacrato dallo Spirito, aveva fatto sue le parole di quel grande profeta, assumendone il programma: scelta dei poveri, liberazione da malattie e dall’oppressione, e per tutti un anno di grazia. Gli occhi e gli orecchi di tutti erano fissi su di Lui, tutti pendevano dalle sue labbra (Vangelo), meravigliati delle sue “parole di grazia” (v. 22). Con questo messaggio di speranza e di salvezza c’erano le premesse per un futuro splendido. Ma in poco tempo la scena cambia: all’ammirazione succede la tipica gelosia paesana: ma chi crede di essere questo figlio di Giuseppe? Poi vengono, sorprendentemente, le incomprensioni maggiori, gli insulti, lo sdegno (v. 28), il rifiuto, e perfino il tentativo di linciarlo (v. 29). Il brusco passaggio dal trionfo alla condanna si allaccia e preannuncia la sorte di Gesù: il passaggio dalle Palme al Venerdì Santo (cfr. Lc 19,35-38 con Lc 23,20-25).

Come spiegare questo rapido cambio di atteggiamenti opposti verso un loro compaesano, che era già famoso altrove per i miracoli e gli insegnamenti? È probabile, anzitutto, che tale cambio non sia avvenuto in una sola mattinata, nel giro di poche ore; si può pensare a momenti successivi, che poi l’evangelista ha raggruppato assieme, trattandosi di fatti successi a Nazaret. Per Luca la presentazione di Gesù a Nàzaret è un’ouverture su tutta la vita-missione-morte-risurrezione di Gesù: c’è il suo programma, la scelta dei poveri, la liberazione dal male, l’anno di misericordia; e c’è insieme la delusione del popolo e la progressiva ostilità verso Gesù, fino a cacciarlo “fuori della città... gettarlo giù”, ma Egli segue il suo cammino (v. 29-30; cfr. 9,51). Parole che alludono all’uccisione di Gesù sul Calvario e alla risurrezione.

Alla base del progressivo rifiuto di Gesù vi è la mancanza di fede in Lui da parte di parenti e compaesani, come annotano gli evangelisti (cfr. Mt 13,58; Mc 6,6; Gv 7,5). Inoltre alcuni saranno rimasti delusi, perché Gesù si è limitato a “proclamare l’anno di grazia del Signore”, senza menzionare il versetto seguente, circa il “giorno di vendetta” di Dio (cfr. Is 61,2) per sterminare gli oppressori. Ovviamente Gesù intende tale vendetta solo in termini di misericordia. Infatti, Dio non vince il male usando la violenza, ma lo vince con la misericordia. Mistero nuovo, difficile! La luce per capirlo può venire solo guardando il Dio-Crocifisso-Risorto.

Gesù non indulge alle ambizioni e ai sogni politici dei suoi compaesani, anzi prende distanza dai loro pregiudizi e dalle loro attese puramente umane. Tale è il senso dei due proverbi che cita (v. 23-24) sulla scorta dei profeti Elia ed Eliseo, i quali hanno dato la preferenza a stranieri (la vedova di Sarepta di Sidone e il siriano Naaman), gente di altre culture e religioni, invece di aiutare le vedove e i lebbrosi di Israele (v. 25-27). La gente di Nazaret già non aveva gradito che il loro illustre concittadino avesse scelto di stabilirsi a Cafarnao, cittadina commerciale e pagana (v. 23); tanto meno gradiva che nel nuovo piano di salvezza di Dio trovassero posto anche altri popoli. Lo scontro fra la mentalità aperta e generosa di Gesù versus la prospettiva egoista e meschina dei nazareni era ormai inevitabile. Ma Gesù non rinuncia al suo progetto di salvezza universale, aperta a tutti.

Questo scontro è sempre in agguato. Gli evangelizzatori sanno di avere a che fare spesso con persone di mentalità gretta e litigiosa. Annunciare il Vangelo vuol dire andare contro corrente e perciò rischiare di non essere capito e dover pagare di persona. Di rifiuti e incomprensioni del genere è piena la storia delle missioni e l'esperienza personale di tanti missionari, coscienti di aver ricevuto una vocazione specifica. Fu questa l’esperienza di Geremia (I lettura), che sapeva di essere stato conosciuto e chiamato da Dio fin dal grembo materno (v. 5). Perciò il giovane profeta si sente investito della forza di Dio “come un muro di bronzo contro tutto il paese, contro i re... contro i sacerdoti” (v. 18); “ti faranno guerra”, ma Dio lo rassicura: “io sono con te per salvarti” (v. 19). L’esperienza di sentirsi scelti, amati, chiamati e mandati a vivere nell’amore è in linea con i “carismi più grandi”, dei quali parla san Paolo (II lettura), il quale conclude che la virtù “più grande di tutte è la carità” (v. 13).

È una sfida permanente - quella dell’amore - da vivere con coerenza e tenacia, fino a soffrire anche persecuzione e morte. Come Gesù, come gli Apostoli, come tanti missionari e missionarie. Come i leader della nonviolenza-attiva: per es. Gandhi, della cui morte si fa memoria il 30/1; Martin Luther King, del quale abbiamo appena ricordato il compleanno il 15/1; Raoul Follereau, fondatore della Giornata mondiale dei malati di lebbra (che si celebra oggi); e tanti altri profeti del nostro tempo. Oggi preghiamo, perché nella Chiesa non venga meno il coraggio dell’annuncio missionario del Vangelo (Colletta). Annuncio che si riassume nell’amore, come affermava san Josef Freinademetz, missionario del Verbo Divino, che partì dalla Val Badia (Bolzano) per la Cina, ove morì (1908): “Il linguaggio dell’amore è l’unica lingua che tutti gli uomini comprendono”.

Parola del Papa

(*) «Finita la lettura, “gli occhi di tutti erano fissi su di lui” (v. 20). E Gesù esordisce dicendo: “Oggi si è compiuta questa Scrittura” (v. 21). Soffermiamoci su questo oggi. È la prima parola della predicazione di Gesù riportata dal Vangelo di Luca. Pronunciata dal Signore, indica un “oggi” che attraversa ogni epoca e rimane sempre valido. La Parola di Dio sempre è “oggi”. Incomincia un “oggi”: quando tu leggi la Parola di Dio, nella tua anima incomincia un “oggi”, se tu la intendi bene. Oggi. La profezia di Isaia risaliva a secoli prima, ma Gesù, “con la potenza dello Spirito” (v. 14), la rende attuale e, soprattutto, la porta a compimento e indica il modo di ricevere la Parola di Dio: oggi. Non come una storia antica, no: oggi. Oggi parla al tuo cuore».
Papa Francesco
Angelus domenicale (23 gennaio 2022)

P. Romeo Ballan, mccj

L’unica parola che resta

Impleta est. La scrittura è compiuta. Oggi. In auribus vestris. Nei vostri orecchi. Come la figura nell’interpretazione allegorica. Quando è impleta raccoglie, riunisce, ricompone e rinnova tutti i livelli di significato a partire da quello storico-letterale e li porta a compimento. E Cristo è figura impleta di tutta la Scrittura. In lui il cammino scritto da Dio nei secoli si realizza, legato con amore in un volume, direbbe Dante.

Un volume nuovo, in cui abita tutta la pienezza della divinità, che chiude quello antico e lo riconsegna al tempo, affidandolo alle mani dell’inserviente, per rimanere unica parola nell’eternità. È Gesù il nutrimento della vedova di Sarepta di Sidone. Lui la purificazione di Naaman il Siro. Lui l’ardore infuocato di Elia, la tenacia di Eliseo, la forza creatrice della Genesi. Lui il compimento di tutte le parole dei profeti. Come aveva promesso ai nostri padri. La parola è mantenuta.

Maria lo aveva detto. Anche lei era di Nazareth, ma aveva lasciato che la lampada dei profeti ardesse in lei in tutto il suo splendore. Aveva creduto. E la parola si era compiuta nel suo grembo. Come negli orecchi degli israeliti. Eppure nella sinagoga non si eleva nessun Magnificat, non si vede nessuno correre a proclamare: Vi annunziamo ciò che noi abbiamo udito. La vita eterna si è resa visibile a noi.

Il seminatore uscì a seminare. Maria era piena di grazia, gli israeliti pieni di sdegno (thumòs). Ne andava del prestigio della città. Se era un impostore bisognava smascherarlo, se era un uomo mandato da Dio doveva guadagnarsi l’approvazione dei suoi concittadini. Doveva dare ampio riconoscimento alla comunità da cui aveva ricevuto insegnamenti ed educazione religiosa. Ossequiarli, per ottenere dai suoi maestri la licenza di profeta. Thumòs. Fumo. Pensieri torbidi. Oscurità. Nei quali la parola chiara e luminosa torna a velarsi e a parlare per traslati e sottintesi. Si oscura perché non trova luce nella quale risplendere.

Parole di grazia uscivano dalla sua bocca. Ma non trovano orecchi pieni di grazia. Né cuori. E così nessuna anima esulta, ma tutte si agitano tumultuosamente. Nessuna nuova vita è generata. Nascono solo progetti di morte. Dove c’è fumo c’è sempre una vittima. Il fumo delle passioni si confonde con quello dell’olocausto.

Il legame è svelato. Thumòs affonda le radici in thùo, il verbo dell’immolazione e dell’offerta del sacrificio. La Parola passa in mezzo al furore e si compie nel suo significato più profondo. Amore che si offre. Le torbide fumosità del male immolano, il fuoco d’amore della vittima le brucia. E vince. Impleta est. C’è un potere più grande. Se il male «potesse penetrare nelle tenebre profonde e nell’assoluta immobilità che erano prima del tempo vedrebbe che c’è un magia più grande. E saprebbe che quando al posto di un traditore viene immolata una vittima innocente e volontaria la Tavola di Pietra si spezza e al sorgere del sole la morte stessa torna indietro». È Aslan a parlare. Il leone creato dalla luminosa penna di C. S. Lewis. Nell’alba della sua risurrezione ci svela la misteriosa forza che regge il mondo. E ne rivela la maestosa regalità.

La stessa con cui Gesù passa tra coloro che credono di poterlo trascinare nel loro baratro di morte. Non hanno nessun potere le passioni. Fumo. Solo la parola regge il mondo. Amore. Ma deve passare in mezzo a loro. Come il cavaliere bianco dell’Apocalisse che esce vittorioso per cavalcare insieme al male fino al culmine della sua corsa. La morte. E in quel limite estremo vincere ancora.

Tornerà a passare in mezzo a loro, in mezzo a quello sdegno, in mezzo a quel clamore. Tornerà a dare loro potere su di lui. Perché lo vuole il Padre. Perché lo ha scelto. Perché ha desiderato ardentemente mangiare questa Pasqua con noi. Tornerà a passare in mezzo a loro, portando la croce che fa di lui l’unica parola che resta nell’eternità: Amore.
[Enza Ricciardi - L'Osservatore Romano]

Lectio
Luca (4,21-30)

Famiglia di Nazareth.

La misura del vivere

Continuiamo in questa quarta domenica il nostro cammino con il capitolo 4 dell’evangelo di Luca e dopo aver ascoltato nella scorsa domenica l’annuncio di liberazione, assistiamo oggi a tutto quello che questo annuncio mette in moto nel cuore degli abitanti di Nazareth.

Cosa avviene infatti nei versetti dell’evangelo che la liturgia ci fa leggere oggi? Un passaggio che sembra brusco e ingiustificato dalla meraviglia per le parole di grazia ( vv. 22), all’ira per le stesse parole (vv. 28). L’annuncio della salvezza viene riletto da Gesù chiamando in causa la storia, quella vera; i poveri, i prigionieri, i ciechi, gli oppressi prendono un volto e questo volto è più grande del solo Israele. E’ il volto della vedova di Zarepta di Sidone e quello di Naaman di Siria. E’ un annuncio che scavalca i confini di Israele, che chiama a spalancare le porte e ad “allargare gli spazi della nostra tenda” (Is 63). E questo non perché Israele non è salvato, ma perché la salvezza è più grande ed è per tutti. La profezia, spinge sempre fuori dai confini e se non ci lasciamo condurre “oltre”, inevitabilmente ci ritroviamo a vivere il rifiuto.

Davanti all’ “oltre” dell’Amore fino alla croce anche i discepoli e anche Pietro si sono trovati a dire: “non conosco quell’uomo”. Quello che accade nella sinagoga di Nazareth è quello che accade alla vigilia della passione del Signore ed è quello che accade nella nostra vita quando la parola di grazia o, come direbbe Paolo, la “Parola della croce”, diventa scomoda e scomodante, quando ci chiede di uscire, di cambiare i nostri criteri di discernimento da esclusivi ad inclusivi, quando trasforma le nostre logiche di vita, quando ci invita ad allargare le misure piccole del nostro quotidiano agire, del nostro giudicare e a volte persino del nostro attendere. Quando avviene tutto questo la Parola la respingiamo, la cacciamo fuori di noi con forza, rifiutando di obbedire a misure troppo grandi. Perché rimane sempre vero che “la lunghezza, la larghezza, l’altezza e la profondità dell’Amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza”, non ci appartiene, dobbiamo umilmente imparare a conoscerla, giorno dopo giorno. Queste misure non ci sono connaturali e ci spaventano. Davanti ad esse spesso siamo come quel terreno sassoso che accoglie la parola di grazia con gioia , ma non ha radice in sé, ed è incostante e di fronte alla misura a cui questa parola chiama preferisce rimanere dove è. E ciò che era stato accolto, si respinge.

Colui che era stato proclamato solennemente qualche versetto prima il “Figlio amatissimo del Padre”, diventa il “figlio di Giuseppe” e viene cacciato via. Un rifiuto che si consuma in poco tempo, proprio come avverrà alla vigilia della passione e come continuerà ad avvenire nella storia della chiesa, come ci testimonia il martirio di stefano raccontato al capitolo 7 degli Atti degli Apostoli. La storia si ripete e la dinamica è la stessa, forse anche nelle nostre vite.

Gesù però attraversa questo rifiuto e riprende il suo cammino e il suo annuncio, recandosi in altri luoghi. E continua ad attraversare ogni nostro rifiuto, cercando altre regioni del nostro cuore dove annunciare la parola di grazia perché si dilatino in noi gli spazi della vita. Egli non desiste né si tira indietro, nella certezza che la Parola che il Padre gli ha consegnato è per l’uomo, per ogni uomo.

Ci conceda il Signore di accogliere questa parola e di permetterle di trasformare le misure piccole del nostro vivere nel respiro grande dello Spirito che crea anche in noi una vita donata per sempre e per tutti.

Sorelle Povere di Santa Chiara - Monastero Santa Maria Maddalena