È bello arrivare al Capitolo Generale 2009 con la gioia di poter dire: siamo stati fedeli al Vangelo di Cristo e al Vangelo di Comboni. Ogni Capitolo Generale ha sempre una domanda sulla fedeltà al carisma e sulla nostra identità come Istituto.
Morì fuori dalla sua diocesi e quasi dimenticato nel 1973, pochi mesi prima della mia ordinazione sacerdotale. Un vescovo, uno di quelli col cuore da buon pastore, lo accolse nella sua diocesi e gli fu amico sino all’ultimo giorno. Incompreso dal clero e amato dalla gente visse il suo sacerdozio con autenticità e austerità, povertà ed intelligenza evangelica. Si presentava come un burbero tagliente, poi, alla fine, tutti andavano da lui per la confessione e per consigli. Amava i seminaristi e senza tanti raggiri diceva loro: “Ricordate che il seminario è come una sala d’aspetto, spesso scomoda. La vera vita è fuori da queste mura. Là fuori c’è gente che fatica, suda e soffre in silenzio. Cristo non ha mandato i suoi discepoli in seminario. Il seminario era stare con Lui tra la gente, particolarmente la gente povera. (…) Se vi hanno detto che “là fuori c’è tutto il male e qua dentro tutto il bene… o peggio, il male sono gli altri e noi il bene” ricordate che non è così, anzi, a volte è tutto il contrario.
Chiaramente, Don Gesuino non poteva durare tanto in seminario. E neanche in diocesi. Dopo tanti anni, tutti dicono che fu un uomo di Dio incompreso, uno di quei profeti che ricevono applausi dopo la morte e sassate durante la vita. C’è una pagina del suo diario che non lascia dubbi: “Se il vangelo è povertà spinta fino alla rinuncia di tutto, se è sacrificio fino al dono di sé stessi, se è servizio fino alla lavanda dei piedi dei fratelli, se è uguaglianza fino a non ammettere sovreminenze di sorta, se è fede nell’aldilà fino al distacco assoluto delle cose di quaggiù, se è questo, noi cristiani e soprattutto noi ecclesiastici abbiamo tradito il vangelo”.
Fedeltà alla Missione
È bello arrivare al Capitolo Generale 2009 con la gioia di poter dire: siamo stati fedeli al Vangelo di Cristo e al Vangelo di Comboni. Ogni Capitolo Generale ha sempre una domanda sulla fedeltà al carisma e sulla nostra identità come Istituto.
Apriamo, allora, il Vangelo di Matteo. Giovanni Battista mandò alcuni dei suoi discepoli da Gesù con una semplice domanda da porgergli: Chi sei? Che dici di te stesso?”. E Gesù rispose: “Andate e riferite a Giovanni ciò che voi udite e vedete: i ciechi ricuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l’udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona novella” (Mt 11,1-5). Ecco la carta di identità del Cristo Gesù: il Dio-Uomo preoccupato ed occupato con gli ultimi, con i dimenticati, con chi cerca fede, speranza e amore vero.
E qual è la nostra carta di identità? Come si presenta l’Istituto agli occhi della gente, agli occhi di chi crede in noi, di chi crede nella nostra missione?
I documenti capitolari e la regola di vita presentano la nostra carta di identità: “Siamo inviati ai popoli e ai gruppi umani più poveri ed emarginati: realtà di minoranze non raggiunte dalla Chiesa e trascurate dalla società; gruppi non ancora o non sufficientemente evangelizzati che vivono alle frontiere della povertà, per cause storiche e per gli effetti negativi della globalizzazione e dell’economia di mercato. Comboni aveva identificato questi popoli con la Nigrizia del suo tempo” (AC ’03, 36).
E ancora: “Nella sua attività di evangelizzazione il missionario si impegna nella ‘liberazione dell’uomo dal peccato, dalla violenza, dall’ingiustizia, dall’egoismo’, dal bisogno e dalle strutture oppressive. Tale liberazione trova il suo compimento e consolidamento nella piena comunione con Dio Padre e tra gli uomini” (RV, 61).
Tutto è descritto bene nei documenti. E nella realtà dell’Istituto? Il nostro Istituto ha scritto pagine di grazia, di sacrificio e di donazione nel libro della storia della missione. Il passato dell’Istituto è orgoglio di Dio e di Comboni. Il Capitolo Generale, comunque, deve rivisitare l’Istituto, rivedere la nostra azione missionaria e valutare se tutte le nostre presenze sono in sintonia con la nostra spiritualità e carisma. Inoltre è compito del Capitolo Generale ricollocare il carisma, cioè ritornare alle origini e, con realismo comboniano, riprendere il sentiero tracciato da Comboni stesso. Ricollocare il carisma significa anche ridisegnare il dove e come della nostra azione evangelizzatrice.
Sui passi di Comboni
Rifondare è un verbo che gira negli incontri tra Superiori Generali. Rifondare: forse è un termine rischioso e non adatto. E potrebbe essere sostituito da un termine più accettabile. Molti Istituti, nella loro storia, sono passati attraverso un momento e un’esperienza di rifondazione. I rifondatori avevano preso coscienza del fatto che le loro comunità o Istituti avevano perso la capacità di rispondere alle reali necessità della società e della Chiesa, oltre che alle legittime aspirazioni dei suoi membri. Anche oggi si respira aria di rifondazione, di esigenza di radicalità evangelica e di riubicazione del carisma in accordo con l’attuale momento sociale, culturale, economico ed ecclesiale.
Rifondare: la parola è valida, se con essa si vuole esprimere il bisogno di portare l’Istituto al suo fondamento che altro non è che il Signore Gesù: “Infatti nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo” (1Cor 3,11). Questo processo, inoltre, può risultare fruttuoso se con esso si vuol riportare la vita dell’Istituto al Fondatore.
Lo scopo principale del rifondare è fare quello che Comboni farebbe oggi in fedeltà allo Spirito Santo: rendere sempre nuovo e rilevante il carisma missionario da lui ereditato e trasmetterlo alle nuove generazioni. Vuol dire scoprire criticamente quale è il nostro specifico, cioè distinguere gli aspetti che sono assolutamente irrinunciabili della vita comboniana da quelli che invece non lo sono.
Siamo chiamati a rifondare, a rinnovarci nonostante le incertezze del futuro. La diminuzione numerica, la preoccupazione per nuove vocazioni, l’invecchiamento e i dolorosi abbandoni possono creare mancanza di prospettive, necessità di ridimensionamenti, ricerca di nuovi equilibri. In tali condizioni dobbiamo camminare con fiducia e speranza. La speranza va posta in Dio che crede nell’Istituto, e in noi che crediamo nella missione di Comboni per la quale siamo disposti alla conversione e al cambiamento. Abbiamo la speranza che questo Capitolo si trasformi in una Pentecoste comboniana: lo Spirito ci scuota e ci lanci fuori secondo i suoi schemi e voleri.
Voci da ascoltare
Ricordavo Don Gesuino come uno dei tanti uomini e donne nella Chiesa che hanno trasformato la loro vita in un vangelo visibile e facile da leggere. Tanti, come Don Gesuino, hanno amato la Chiesa e la missione, e il loro messaggio è stato capito troppo tardi. Così è successo anche a Comboni e a parecchi dei suoi missionari e missionarie.
In un Capitolo Generale è giusto e necessario ascoltare tutti e particolarmente quelle voci profetiche che, senz’altro, lo Spirito susciterà. Nella vita religiosa, è facile che radichi quel pregiudizio: rinnovarsi = ribellarsi, cambiare = distruggere, carisma personale = stranezza, popolarità = orgoglio. “Il pensare con la propria testa è peccato per i cattolici - scriveva con amarezza Giovanni Papini - il nuovo spaventa sempre, mentre la tradizione non spaventa ed incoraggia il quaeta non movere”. Non muovere le acque non è stato il vivere di Gesù e lo Spirito Santo ha creato un’esplosione nel Cenacolo e ha spinto quegli uomini paurosi verso un mondo con un pensare e vivere opposto al loro. Guai a privare il Capitolo Generale di quelle voci carismatiche ed anche scomode espresse da confratelli o da comunità o da intere province. E se sbagliano? Meglio lo sbaglio umano che l’aridità di chi non ascolta lo Spirito.
Non sono tempi facili per nessuno. Però non sono tempi per scoraggiarsi, ma per rinnovare la nostra fiducia in Colui che ha creduto nella nostra storia, in Colui che ha guidato l’Istituto in questi 150 anni. È bene ascoltare la voce dell’ottimismo: “Voi non avete solo una gloriosa storia da ricordare e da raccontare, ci insegna Giovanni Paolo II, ma una grande storia da costruire! Guardate al futuro nel quale lo Spirito vi proietta per fare con voi ancora cose grandi” (Vita consecrata, 110).
Bisogna rischiare e fidarsi dello Spirito di Dio che “produce l’effetto sveglia, che ci fa uscire dal sonno della notte, ci provoca e ci chiama ad iniziare una giornata nuova. Lo Spirito ci ricorda che per iniziare bene la giornata bisogna rimanere in Lui e seguirlo fedelmente… bisogna vestirsi con abiti del giorno, sapere dove posare i nostri piedi e per chi sarà il sudore e la fatica dell’intero giorno” (P. J. M. Arnaiz).
Sfide da affrontare
Masse di gente sempre in aumento si muovono, fuggendo da realtà di sofferenza e tragedia. Si muovono disperate in cerca di fortuna. Ogni Istituto missionario è chiamato ad andare incontro a queste masse di sofferenza e a essere presente in quell’ammucchiarsi doloroso. Essere presenti in queste giungle urbane e disumanizzanti delle grandi città; essere presenti in questi deserti urbani segnati dal crimine, dalla violenza e dall’immensa solitudine, anche se circondati da milioni di persone e cumuli di ricchezza. Come possiamo trovare una via per entrare in queste realtà e predicare il vangelo della speranza e della fraternità?
In modo particolare, come potremo essere seminatori di speranza in questi rifugi umani sovente segnati dalla disperazione, dal fatalismo e afflitti da un sistema economico schiavizzante?
Nonostante i nostri numerosi impegni in 35 nazioni, abbiamo dato delle risposte modeste ma generose in varie parti: Nairobi, Città del Messico, Lima, San Paolo, San Luis, Napoli, Chicago, Johannesburg, Roma ed altre città e nazioni.
Possiamo continuare a rispondere a queste sfide di ogni giorno se saremo uomini coraggiosi, che osano rinunciare ai vecchi impegni per essere liberi di prendere nuove iniziative, che osano tentare il nuovo e rischiare l’insuccesso. Non potremo mai dare risposte soddisfacenti se non ci diamo reciproca fiducia e se non ci facciamo coraggio reciprocamente. Nessun Istituto missionario deve arrendersi e perdersi nel pessimismo e nel senso di sconfitta. Deve invece essere sempre fonte di speranza che incoraggia a immaginare, a creare il nuovo.
Un’altra domanda: osiamo accogliere e seguire confratelli, spesso giovani, che hanno l’ardire di affrontare queste nuove sfide, con coraggio e spirito di iniziativa, sapendo che possono ben mettere in discussione molto di quello che siamo stati e abbiamo fatto? Oppure preferiamo essere lasciati in pace, non correre rischi e vivere il nostro carisma al sicuro… da addomesticati?
La forza della credibilità
La missione ha bisogno di spingersi con maggior audacia sulle frontiere della povertà e dell’evangelizzazione. Accanto allo slancio vitale, capace di testimonianza e di donazione fino al martirio, è sempre in agguato pure “l’insidia della mediocrità nella vita spirituale, dell’imborghesimento progressivo e della mentalità consumistica” (Ripartire da Cristo, 12). Quando cominciano le comodità o le agiatezze, comincia al tempo stesso la decadenza di un Istituto e il fallimento della missione.
La vita missionaria e consacrata deve essere segno profetico e credibile, ossia deve continuare la ricerca per trovare forme di profezia e credibilità, non solo personali ma anche istituzionali. Deve tornare ad uno stile di vita più semplice e povero, sobrio ed essenziale.
Non c’è missione senza povertà, quella povertà che diventa solidarietà con gli ultimi e i dimenticati, e denuncia in difesa dei diritti umani più elementari.
La povertà è un voto per il quale è più difficile trovare parole che suonino vere. Donne e uomini impegnati con la Chiesa missionaria che si sono accostati maggiormente alla vera povertà sono a volte i più critici a questo riguardo. Essi sanno che quanto noi diciamo sulla povertà e sulla “opzione per i poveri” potrebbe essere solo retorica. Sanno e sappiamo bene quanto sia terribile la vita del povero, spesso privo di speranza, con la quotidiana e logorante violenza, il tedio e l’incertezza.
La povertà è terribile e crea sofferenze, lacrime e disperazione. La povertà del consacrato è valida se serve al bene dei poveri, se crea speranza nei poveri e se è presenza significativa per i nostri fratelli e sorelle che respirano degradazione, insicurezza e disperazione. Una delle più fondamentali esigenze del voto di povertà è certamente quella di vivere in tale semplicità da vedere il mondo in modo differente. Il mondo, infatti, appare diverso se visto dal tavolo del ricco epulone o dalla ciotola del povero Lazzaro.
Formati dalla missione
“Un carisma – scrisse Paolo VI – non può contentarsi di persone mediocri, non può essere vissuto in maniera qualunque: o lo si vive in pienezza, o lo si tradisce”. Anche Don Gesuino Mulas scrisse nel suo diario: “Davvero, a Cristo o si dà tutto, o non si dà nulla”. Un carisma vissuto fedelmente e con credibilità è grazia per tutti, particolarmente per i giovani in formazione. È stata una delle nostre priorità accompagnare i nostri candidati nelle diverse tappe per prepararli adeguatamente alla missione.
Formazione significa dare una forma, formazione è trasformazione perché uno sia poi presenza di vita tra la gente in missione. Comboni era stato chiaro: formare significa aiutare il candidato ad entrare nella logica evangelica del chicco di grano: morire, scomparire, consumarsi per essere vita per gli altri. Senza mezzi termini, Comboni aveva stabilito che non venisse accettato nessun candidato nell’Istituto che non avesse la volontà e determinazione di consacrarsi e dare la vita per la missione. Comboni non voleva nel suo Istituto anime morte in corpi ben alimentati. Voleva gente santa e capace di farsi “tutto a tutti” e di vivere nelle situazioni più ardue e difficili.
Non è facile trovare il sistema giusto per una formazione alla missione idonea. Sogno che un giorno finalmente si trovi la risposta giusta, la formula giusta per formare per la missione, in missione, con la missione.
Ma c’è un’altra virtù insostituibile che è forza nel formare i nostri candidati: la nostra testimonianza personale e comunitaria. Più di prima siamo chiamati a testimoniare con entusiasmo evangelico la missione e a rendere il nostro carisma attraente, giovane ed autentico. I giovani, e i non giovani, si allontanano da ciò che è abitudinario, stanco, vecchio ed incapace di dire qualcosa di nuovo.
Vocazioni da curare
La preoccupazione per le vocazioni è di ogni Istituto, congregazione e diocesi. E l’antifona è la stessa per tutti: preghiamo per le vocazioni, sapendo che il lago è piccolo, i pesci sono pochi e i pescatori molti. E Dio guarda e va avanti con i suoi piani e metodi. Dio ha anche una risposta: prega anche per la tua vocazione, apprezzala e seguimi. Come numero nel nostro Istituto andiamo bene. A volte per il numero scarso in Europa non badiamo o non ci accorgiamo che Dio sta cambiando l’Istituto, gli sta dando altra forma, cioè lo sta formando con una visione tutta sua. Comboni sognava un Istituto multiculturale, un cenacolo ricco di diversità e unito dalla stessa vocazione per la missione. Ora stiamo vivendo il sogno di Comboni, grazie alle vocazioni provenienti da tutti i continenti.
Nell’Istituto siamo 1740, cioè abbiamo 1740 vocazioni comboniane che possono e vogliono collaborare per Cristo Gesù alla missio Dei.
Credo anche che Dio continua a insegnarci qualcosa di prioritario ed evangelico: la vocazione ed il ruolo dei laici. I laici sono una forza immensa e potente ancora tutta da sfruttare. Quando preghiamo per le vocazioni chiediamo a Dio anche la saggezza per accorgerci dei tanti laici che vogliono partecipare alla missio Dei con il carisma comboniano. E continuiamo a pregare per la nostra vocazione. Ogni giorno Dio ci chiama. C’è una sola risposta: Hineni, Eccomi. Manda me.
Rimanendo in Lui
Il vino buono alla fine! La spiritualità è un tema che ci sta a cuore, perché tutti sappiamo che non c’è missione senza contemplazione, che non c’è vocazione senza orazione. Se non si lavora con Dio la nostra azione sarà sempre “cosa umana”. “Se il Signore non costruisce la casa, invano vi faticano i costruttori”, ricorda il salmista. Sappiamo anche che “Il missionario riconosce che non può far nulla senza Cristo che lo manda e che la diffusione del Vangelo è legata alla preghiera: senza di questa gli mancherebbe un’insostituibile forza interiore e la sua attività sarebbe presto pervasa da una visuale puramente umana” (RV, 46.1).
Comboni ci ha insegnato che la missione parte da Cristo. È lo stesso Cristo che ci porta in missione. “Chi ha scoperto Cristo – ci ricorda Benedetto XVI – deve portare altri verso di Lui. Una grande gioia non si può tenere per sé. Bisogna trasmetterla. In vaste parti del mondo esiste oggi una strana dimenticanza di Dio. Sembra che tutto vada ugualmente anche senza di Lui. Vostro primo e supremo anelito sia testimoniare che Dio va ascoltato e amato con tutto il cuore” (Giornata Mondiale della Gioventù, 21 agosto 2005; Ai Religiosi, 10 dicembre 2005).
L’evangelizzazione è la nostra missione prioritaria e, come missionari, non possiamo non parlare di “quello che abbiamo visto ed ascoltato” (At 4,20). Il missionario, quindi, comunica un’esperienza vissuta, non solo dottrina. Con una spiritualità insufficiente il vangelo della missione rimane ferito.
Confidando in Dio
Tutti gli Istituti vivono un’ora pasquale, un momento di diminuzione numerica e anche di attesa. Questa, però, non è un’ora di decadenza spirituale: è un’ora di povertà e la povertà è una virtù pasquale.
Anche se rimaniamo in pochi, abbiamo il compito di essere un seme fecondo, un pizzico di lievito capace di fermentare lentamente e pazientemente nel terreno del mondo, della storia e della Chiesa.
E quando abbiamo fatto tutto ciò che dovevamo fare, ringraziamo Dio riconoscendoci servi suoi. L’importante è “non mettere ostacoli a Dio”, ci insegna Comboni.
P. Teresino Serra mccj, Superiore Generale
31 maggio 2009, Pentecoste
Foto Comboni Press. Roma Eur, Festa del Sacro Cuore 2009
31 maggio 2009, Pentecoste