Cona (Venezia)
Pajule (Uganda)

Nato a Foresto di Cona (Venezia) il 22 settembre 1928, ultimo di sei tra fratelli e sorelle, crebbe dividendo il suo tempo tra la casa, la chiesa, la scuola e il lavoro dei campi. Papà Antonio era guardia campestre, ma quel lavoro non gli consentiva di mantenere la famiglia per cui, ogni mattina presto, prima del consueto giro nei campi del padrone, andava in un campicello che gli era stato assegnato e piegava la schiena sulle zolle che la sua vanga andava via via rovesciando. Da quella terra ricavava quel poco di più, che era sempre troppo scarso, per le numerose bocche da sfamare.

Bisogna emigrare
Quattro anni dopo la morte della mamma, il papà radunò i suoi figli e disse loro: "Alcuni di voi sono in età da lavoro. Ma qui, su questa terra di altri, non c'è avvenire per voi.
Mi sono consigliato con il parroco e… anche con la mamma che dal cielo ci segue e ci aiuta. Mi pare che sia venuto il momento di andare verso Milano dove c'è della buona terra a buon mercato, e poi ci sono anche le industrie. Cosa ne dite?".
"Ciò che decidi tu, va bene - rispose il maggiore -. Anzi, sono sicuro che questa è la cosa migliore che possiamo fare. Sapessi quanto mi irrita vedere il padrone che non è mai contento e sentire i brontolamenti dei contadini contro di te!".
"Se è per questo non devi illuderti. I padroni sono tutti uguali. Anche a Milano avranno sempre paura che si faccia troppo poco, e i colleghi avranno qualcosa da dire".
"A me dispiace lasciare la parrocchia e le compagne - disse Elena - ma se dobbiamo affrontare il sacrificio della partenza, è bene che lo facciamo finché siamo giovani così ci abitueremo alla nuova vita".
Nel 1937 la famiglia emigrò in quella zona del Lodigiano, a metà strada tra Crema e Milano.

Un missionario troppo piccolo
Don Domenico Locatelli, parroco del paese, accolse la nuova famiglia con sincera cordialità.
"Guai se vi considerate stranieri - disse al papà, e intanto distribuiva caramelle ai più piccoli - qui siamo tutti una famiglia e noi siamo contenti che sia cresciuta in un colpo di sette persone".
"Cercheremo di essere dei buoni parrocchiani", rispose semplicemente il signor Antonio.
"La lettera del vostro parroco mi assicura che siete anche dei buoni cristiani. Bene, bene, così ci intenderemo meglio".
La domenica seguente don Domenico volle salutare dal pulpito i nuovi venuti dopo averli presentati alla popolazione.
Egidio divenne subito chierichetto e gli altri fratelli si mostrarono assidui frequentatori dell'oratorio.
Una mattina dopo la messa Egidio, prima di andare a scuola, disse al parroco che gli sarebbe piaciuto diventare missionario.
"Da quando questa nuova idea?", rispose don Domenico. "Da quando è passato dal paese quel missionario con la barba e ci ha fatto vedere le filmine sull'Africa e sul lavoro che fanno i missionari in terra di missione. Da quel giorno sento dentro di me il desiderio di andare tra quella gente a portare il Vangelo".
"Sei così piccolo che ti sperderai tra l'erba!", sorrise il sacerdote.
"Non fa niente, don Domenico, mi farò portare in spalla dagli Africani, come faccio qualche volta col mio
papà”.

L'incontro con P. Semini
La fine delle elementari di Egidio coincise con lo scoppio della guerra per cui, invece della strada del seminario il ragazzo prese quella dei campi insieme al papà e ai fratelli.
Intanto cercava di vivere la vita cristiana meglio che poteva. Prima di recarsi in campagna, per esempio, andava in chiesa per la messa e, alla sera, non mancava mai di fare una capatina all'oratorio.
Ed ecco che un giorno passò dal paese P. Gaetano Semini, un ardente animatore missionario. Parlò ai giovani con foga della vocazione al sacerdozio e anche di quella di Fratello.
"In missione - disse l'oratore - non occorrono solamente sacerdoti, ma ci vogliono anche dei Fratelli laici che siano in grado di dare una mano al sacerdote per la costruzione delle chiese, della case, delle officine, delle scuole, degli ospedali... di tutto ciò che serve per lo sviluppo dell'Africa e della Chiesa africana. I missionari devono anche mangiare. Occorrono pertanto anche dei contadini che sappiano lavorare la terra razionalmente in modo da farla produrre...".
"Io so fare il contadino - disse tra sé Egidio -. Se non posso diventare sacerdote, posso sempre fare il Fratello. È una bella vocazione anche questa".
Alla fine dell'incontro, si avvicinò al missionario esprimendo il suo desiderio.
P. Semini convenne che, a 15 anni, era difficile iniziare la prima media, per cui gli suggerì di presentare la domanda per essere ammesso nell'Istituto come Fratello laico.
"È vero - disse il parroco interpellato poco dopo - Egidio voleva farsi sacerdote già da piccolo, ma poi, un po' per la guerra, un po' per le necessità della famiglia, un po' per la sua timidezza, tutto è caduto nell'oblio. Le assicuro, tuttavia, che si tratta di un bravo ragazzo e che farà molto bene".

Il migliore
Si era ancora in piena guerra quando, nel 1943, Egidio, accompagnato dal papà, partì per Thiene (Vicenza) dove i Comboniani preparavano coloro che sarebbero diventati Fratelli.
Nella scuola-seminario di quella cittadina, insieme allo studio tecnico si facevano esercitazioni pratiche di falegnameria, meccanica e agricoltura. Egidio mostrò subito una particolare propensione per la meccanica.
Lo scopo della sua vita, come si vede, doveva essere quello aiutare i popoli del Terzo Mondo con il lavoro delle sue mani. Il superiore del seminario di Thiene scrisse in calce alla lettera di Egidio: "A me questo giovane sembra essere il migliore di tutti: pietà soda, umiltà, obbedienza, laboriosità e capacità nel lavoro. Si è specializzato in meccanica".
Con queste credenziali, il 16 luglio 1947, Egidio entrò nel noviziato comboniano di Venegono Superiore (Varese).

Lavoro serio
In noviziato Fr. Egidio s'impegnò con tutte le sue forze per apprendere le consuetudini e regole della congregazione comboniana, ne studiò la storia e la metodologia missionaria e cercò di esercitarsi in quelle virtù che avrebbero fatto di lui un abile missionario e un perfetto religioso.
Il 7 ottobre 1947, festa della Madonna del Rosario, Egidio indossò l'abito dei missionari comboniani. Fu una cerimonia commovente che vide stretti attorno al futuro missionario i familiari, i sacerdoti che lo avevano conosciuto e aiutato e gli amici.
Il motivo di così intima e massiccia partecipazione fu determinato anche dal fatto che, dopo la vestizione, Fr. Egidio sarebbe partito per l'Inghilterra a completare i due anni di noviziato.

Finalmente missionario
Il padre maestro indugiava sulle capacità di Egidio, tanto importanti per un Fratello: "Dà prova di buon senso pratico, di amore al lavoro realmente proficuo e ordinato. Ha amore per la proprietà e la pulizia in tutto.
Per intelligenza si distingue tra gli altri ed apprende molto bene e velocemente la lingua inglese. Nel trattare è rispettoso, gentile e delicato. È un carattere veramente felice, quieto, paziente. Ama il silenzio e l'applicazione al suo lavoro.
Gode anche di una salute veramente florida. Se il tempo lo permettesse, sarebbe una cosa bella fargli frequentare dei corsi di specializzazione in qualche professione.
Riuscirebbe certamente bene in tutto. È di una grande affabilità con tutti. I membri della comunità pensano che, se continua così, sarà un Fratello veramente utile alla nostra Congregazione" .
Il 15 agosto 1949 Egidio emise i Voti di povertà, castità e obbedienza che lo consacrarono missionario dell'Africa. Il padre maestro, alla vigilia di quella data, aveva scritto sulla cartella personale di Egidio che venne poi conservata in archivio: "Se la cattiveria del mondo non muterà il suo cuore, un domani avremo un santo".

Meccanico specializzato
Egidio, con l'entusiasmo dei suoi 22 anni, bruciava dal desiderio di partire per l'Africa. Invece i superiori, dietro il suggerimento del padre maestro, lo fermarono in Inghilterra per dargli la possibilità di frequentare un corso di meccanica. In Uganda, dove era destinato, c'era bisogno di validi meccanici perché ormai le macchine vi avevano fatto il loro ingresso da lungo tempo e la categoria dei meccanici era molto occupata. Egidio obbedì con l'entusiasmo di sempre e, dopo sei mesi, con il suo diploma in tasca, poté salpare per le coste d'Africa.
Prima, però, passò dal paese dove il parroco e i giovani dell'oratorio gli si strinsero intorno ricordando il tempo passato, le prime avventure della nuova famiglia in quella nuova terra e la sincera amicizia che aveva intrecciato con tutti.

Doppia benedizione
La sera dell'addio, il papà lo chiamò in disparte e gli disse: "Pensare che il figlio mio più piccolo è stato scelto dal Signore per diventare un suo operaio mi rende tanto felice, anche perché, con la mamma abbiamo più volte pregato il Signore perché si degnasse di chiamare al sacerdozio qualcuno dei nei nostri figli. Non sei sacerdote, ma lavori accanto a loro e per lo stesso scopo.
Cerca di amarli sempre, di vedere in loro dei fratelli e tu considerati sempre il più piccolo della famiglia, come hai fatto con noi... Il più piccolo per servire, non per essere servito".
Dopo un lungo silenzio, il papà s'inginocchiò per terra e chiese al figlio la benedizione: "Non sono un prete, per darti la benedizione, papà".
"Non sei un prete, ma sei un uomo consacrato a Dio, quindi una persona sacra... Su, dammi la benedizione, anche perché ho il presentimento che non ci vedremo più su questa terra" .
"Cosa dici mai, papà - esclamò Egidio inginocchiandosi a sua volta davanti al genitore - ricordi quando mi dicevi che eri sano e forte e mi prendevi sulle spalle dopo una giornata di lavoro?".
"Eh sì! ma da quei giorni è passato molto tempo, troppo tempo. E poi, queste mani hanno consumato troppi manici di zappe... Ma non ho rimpianti, sai, penso alla mamma che mi aspetta, che aspetta tutti lassù dove non ci sarà più da tribolare".
I due stettero per un lungo tratto uno nelle braccia dell'altro e poi, insieme, pregarono e si benedissero a vicenda.
Confortato dalle parole del padre e fortificato dalla sua preghiera che - ne era sicuro - non sarebbe mai mancata, Egidio salì sul treno che lo avrebbe portato a Verona dove altri compagni lo attendevano per il balzo verso l'Africa.

Tra carriole e motori
Fr. Egidio, fu destinato subito alla grande officina di Gulu dove affluivano non solo le auto delle missioni del circondario, ma anche quelle della gente.
Tuttavia il Fratello non disdegnava di passare dall'officina all'orto, dal cantiere alla falegnameria, dalla cucina alla stalla, quando si trattava di dare una mano dove maggiore era la necessità.
"È indiscutibilmente un caro Fratello - scrisse di lui P. Santi -. Mostra un carattere paziente e docile. Se ha un difetto è quello di fidarsi troppo della gente, per cui alle volte viene ingannato. Ha l'anima del fanciullo nel quale non c'è malizia".
Egidio, scrivendo ai familiari, disse: "Mi trovo nella missione più bella del mondo. La vita del missionario è un'avventura che merita di essere vissuta. Mi auguro che altri giovani dell'oratorio vengano presto con me a esperimentare cosa vuol dire lavorare per il Signore e per gli Africani”.

Istruttore
Dopo tre anni di lavoro a Gulu, passò a Layibi dove un'altra officina meccanica aveva bisogno di un valido meccanico.
Fr. Egidio non si limitava a lavorare ma, fedele al mandato di mons. Comboni, si preoccupava di insegnare il mestiere agli Africani. Scrive un confratello: "Egidio aveva un'arte tutta particolare nell'insegnare il mestiere ai giovani che frequentavano l'officina. Il segreto della sua riuscita consisteva nel grande amore e nella profonda stima che aveva per gli Africani. Non l'ho mai visto una volta perdere la pazienza.
Spiegava prima di eseguire un determinato lavoro, poi invitava l'apprendista a cominciare ed egli seguiva incoraggiando e intervenendo solo quando l'altro stava sbagliando".
I superiori volevano che prendesse in mano anche la scuola, oltre che l'officina. Per far questo gli occorreva un ulteriore diploma che poteva conseguire a Londra.
"Se è per il bene degli Africani, vado anche al Polo Nord", rispose. Dal 1958 al 1959 lo troviamo in Inghilterra presso il Paddington Technical College. Diplomatosi, ritornò a Layibi come istruttore.

E catechista
Alla domenica si recava in qualche missione in compagnia del confratello sacerdote e s'intratteneva con i ragazzi spiegando il catechismo o qualche episodio della sacra scrittura.
Tra il 1963 e il 1964 fu in Italia per le vacanze. La prima cosa che fece fu di andare sulla tomba del papà a pregare. Ricordò una ad una le parole che gli aveva dette prima di partire tredici anni addietro. Il genitore era stato buon profeta, forse perché già sentiva la morte nelle ossa. Era infatti morto poco dopo la partenza del figlio per la missione.
Dopo tre mesi Egidio era nuovamente a Layibi. Ormai questa sembrava essere diventata la sua missione. Il lavoro non mancava e la gente gli voleva bene. Fu nominato responsabile della locale scuola tecnica e, qualche tempo dopo, di quella di Ombaci.

L'incalzare degli avvenimenti
Fr. Egidio era stato testimone del passaggio dell'Uganda da colonia britannica a nazione indipendente (1962); aveva assistito alla presa del potere del presidente Milton Obote, un protestante che procurò qualche sofferenza ai missionari, vide l'Uganda incamminarsi sulla strada per diventare un paese progredito, quasi all'avanguardia tra le nazioni africane. Le grandi tribolazioni con l'ondata di martiri e di sangue, tuttavia, erano alle porte e qualcuno già le intravedeva.
In quegli anni la Chiesa fece passi da gigante in Uganda. Si moltiplicavano le diocesi, i seminari e molte missioni passavano al clero indigeno che era numeroso e, in genere, ben preparato.
Tra le riforme conciliari, ci fu anche quella che riguardava la rivalutazione del Diaconato.
"Se non ho potuto diventare sacerdote - disse Fr. Egidio - perché non potrei diventare diacono? A quanto pare possono diventare diaconi anche laici che non hanno emesso i Voti religiosi o, addirittura persone sposate". L'antico sogno che aveva sempre custodito nel segreto del suo cuore, riappariva.

Di più e di meglio
Non solo il Fratello missionario aveva la possibilità di diventare diacono, ma poteva anche aspirare al sacerdozio.
Egidio fece un salto di gioia. Dunque il Signore non lo aveva rifiutato! Sì, lo aveva fatto attendere un po', ma la sua ora era finalmente arrivata. Dopo alcuni giorni di intensa preghiera, scrisse al Superiore Generale:
"Ho lavorato per circa 20 anni in missione quasi sempre addetto all'insegnamento nelle scuole tecniche. Da anni sento una certa attrattiva verso il sacerdozio.
A dire il vero l'ho sempre occultata e ho sempre cercato di distrarmi, tenendomi più occupato nel lavoro materiale e tralasciando volontariamente l'apostolato diretto, sperando che questo - usando una parola un po' forte - tormento si sarebbe attutito.
Con sincerità riconosco di non avere le qualità richieste per un sacerdote dei nostri tempi, ma confido nella grazia divina e nella protezione della Madonna... Ringrazio il Signore di aver speso i miei anni migliori nel campo del lavoro sociale. Ciò di cui dovrei rammaricarmi è di aver fatto poco".

Sacerdote
Nel 1971 Fr. Egidio Biscaro fu ammesso al Pontificio Collegio Beda di Roma per gli studi teologici. Piegare la schiena sui libri non fu facile per un uomo di 41 anni e per di più abituato alle scienze sperimentali, ma l'entusiasmo e l'amore che lo spingevano gli facevano sentire le ore di studio come una "piacevole ricreazione".
Accanto allo studio, Egidio mise tanta preghiera. Sapeva che diventare sacerdote in una società sconquassata dai fermenti del "68" in Europa e da innumerevoli sconvolgimenti politici nei territori di missione, non era impresa facile.
Fu ordinato a Milano il 6 aprile 1974. Dal cuore del novello sacerdote scaturì un "Magnificat" che non finiva più. Scrisse a un confratello: "È veramente mirabile il Signore. Tira la corda, ti fa penare e quando sembra che tutto ormai sia finito, interviene con la sua potenza divina. Davvero vuole che crediamo in lui, nella sua bontà e misericordia, nella sua onnipotenza, come hanno creduto Abramo e la Madonna".

La grande tribolazione
Ritornato in Uganda, esercitò il ministero sacerdotale nelle missioni di Alito e di Aber. Il sorriso, che aveva sempre accompagnato il suo lavoro di tecnico, non lo abbandonò neppure nell'esercizio del ministero sacerdotale. La sua bassa statura e i suoi modi gentili gli attiravano le simpatie della gente.
In Uganda, intanto, avvenivano cose veramente tristi. Sotto la dittatura di Amin Dada, alcuni missionari furono espulsi, altri minacciati.
Varie missioni furono devastate, alcuni missionari uccisi, altri gravemente feriti da raffiche di mitra, e "i coccodrilli del Nilo erano sazi di carne umana". Carne di africani per lo più innocenti, naturalmente.
Un giorno P. Egidio percorreva a bordo della sua moto una strada quando fu fatto segno a colpi di arma da fuoco. Si buttò prontamente nell'erba e riuscì a salvarsi, ma lo spavento fu tale da procurargli, in seguito, un paio di infarti che, tuttavia, superò brillantemente.
Dopo quell'esperienza lasciò definitivamente la motocicletta e cominciò ad usare l'auto, una Fiat 127. Mentre si recava a Lira, gli spararono addosso. Pur con le gomme bucate, riuscì a fuggire e a raggiungere la
missione.
Il confratello che lo accolse si accorse che aveva un braccio sporco di sangue. "Cos'è successo?" gli chiese.
"Mi hanno sparato, ma non è niente. Dammi un po' di alcol per disinfettare la ferita".
Dalla sua bocca, intanto, uscivano parole di comprensione e di perdono per coloro che lo avevano preso di mira. Alla fine aggiunse: "Poverelli, se hanno tentato di assalirmi in un modo così violento, significa che avevano una gran fame, ma non avevo proprio niente da offrire".

Tutti ai loro posti
Data la situazione, i superiori dissero ai missionari che, se non se la sentivano, potevano tornare in patria. Nessuno si mosse. Chi aveva il coraggio di abbandonare il popolo nel momento del pericolo?
"Un tempo erano le malattie che uccidevano i missionari - scrisse uno - ora sono le pallottole, ma noi non abbandoniamo i nostri posti, non lasciamo sola la gente in un momento di tanta disperazione".
E continuarono a lavorare vivendo in una costante situazione di pericolo di vita "mossi unicamente dall'amore verso Dio e verso i fratelli, in ossequio alla fedeltà alla loro scelta missionaria”.
In questo contesto anche l'esercizio del ministero diventava difficile. Se si aiutava uno, si diventava nemico dell'altro e viceversa.
I missionari cercavano di non guardare in faccia nessuno e di aiutare chiunque fosse nella necessità indipendentemente dalla tribù o dalla religione.
In una lettera P. Egidio scrisse: "Il Signore vuole che ci doniamo agli altri, che lavoriamo, che mettiamo in comune i nostri beni con i bisognosi, che usiamo le nostre facoltà intellettuali e il nostro lavoro per il bene di tutti".
Coerente a questo principio, si buttò in mezzo ai più poveri, ai più perseguitati, mettendo a disposizione tutto ciò che aveva.

Gli ultimi avvenimenti in Uganda
Nonostante gli sforzi per la pace messi in atto dal governo dell'attuale presidente Museveni, la ripresa di alcune industrie e una stagione agricola particolarmente favorevole, gli ultimi mesi del 1989 sono stati carichi di tensione e di eventi imprevisti e piuttosto preoccupanti.
Gli incidenti per banditismo, non più contro il governo ma contro la popolazione inerme, si moltiplicavano specialmente nella zona di Kitgum e nella zona Est dell'Uganda. Quasi ovunque i dissidenti sconfitti sul piano militare si nascondevano nei boschi trasformandosi in banditi che, per sopravvivere, attaccavano i villaggi nelle zone rurali e saccheggiavano i mercati.
Ci sono stati attentati alla vita a P. Rossi, P. Fortuna, P. Simeoni, P. Mantovani, P. Bernareggi, P. Maffeis, P. La Braca, P. McGinley, P. Novelli, P. Ambrosi, P. Cristoforetti... Alcuni hanno dovuto essere rimpatriati per guarire; altri, appena guariti, sono ritornati ai loro posti, incuranti del pericolo.
In questo clima i Comboniani si accingevano a celebrare l'ottantesimo anniversario del loro arrivo in Uganda. La missione di Pakwach, derivata da Omach, che fu appunto la prima missione comboniana in Uganda, è stata ceduta a una congregazione religiosa africana, fondata da un comboniano.
Ciò è un segno evidente del cammino che la Chiesa ha compiuto sotto la spinta dei seguaci del Comboni.
Nel 1989 P. Egidio venne in Italia per un corso di aggiornamento a Roma, che concluse con un pellegrinaggio in Terra Santa. Naturalmente andò anche al suo paese a salutare i parenti e gli amici. Uno di questi ha detto: "P. Egidio sprizzava missionarietà da tutti i pori. Era entusiasta della missione; un entusiasmo che coinvolgeva, che contagiava".

Per un atto di carità
P. Egidio Biscaro si trovava nella missione di Pajule (diocesi di Gulu) quando lunedì 29 gennaio 1990 decise di compiere un atto di carità nei confronti di una donna che aveva urgente bisogno di essere ricoverata all'ospedale di Kitgum.
Il confratello, P. Aldo Pieragostini, consapevole del pericolo cui si esponeva chi usciva dalla missione, si offrì di accompagnarlo.
"Speriamo che i banditi non ci vedano o, almeno, prima di spararci addosso, ci fermino. Noi siamo disposti a dare loro tutto ciò che abbiamo", si dissero prima di salire a bordo della Land Rover.
Questo, del resto, era l'ordine dei superiori: non discutere con i ladri, ma consegnare tutto ciò che chiedono, anche i vestiti. E ben lo sapeva un confratello che dovette tornarsene alla missione in mutande. Gliele lasciarono solo perché era un sacerdote, mentre il suo amico medico venne privato anche di quelle. Cose che succedono dove si vive nella disperazione.

Il martirio
P. Egidio, P. Aldo e la donna partirono alle 8,45. P. Aldo si mise al volante. A Porogali, dieci chilometri dopo Pajule, l'auto fu colpita da alcune raffiche di mitra sparate da gente nascosta nell'erba. Alcuni proiettili colpirono la parte anteriore, molti di più il lato sinistro, proprio dove sedeva P. Egidio. Irene, la donna che viaggiava con loro, fu colpita ai polmoni e morì quasi subito.
A P. Egidio un proiettile spappolò la gamba destra, altre pallottole lo ferirono sulle spalle, ad un orecchio e sulla fronte. Anche P. Aldo fu ferito a una gamba, a un braccio e sulla faccia dove una pallottola, dopo avergli tranciato un'arteria e strappato il labbro fin quasi all'orecchio, si fermò nella mandibola.
Il motore dell'auto, pure colpito, si bloccò da solo. P. Aldo capì subito la gravità della situazione in cui si trovava il confratello, ma non era in grado di fare nulla perché stava perdendo sangue dalla bocca e dalle altre ferite.
Qualche istante dopo alcuni individui si avvicinarono alla vettura. Erano i briganti che avevano teso l'agguato. Guardarono un po’, parlottarono tra loro e poi, invece di prestare qualche aiuto, si allontanarono in fretta. Un abitante della zona, allarmato dalla sparatoria, andò ad avvertire i militari di Pajule. Ma prima del loro arrivo, trascorse un'ora e mezza. I due missionari, intanto, si erano preparati a morire.
P. Egidio agonizzava e, di tanto in tanto, ripeteva: "Mamma, mamma aiutami; Signore, abbi pietà di me; Madonna santa proteggimi; perdono i miei uccisori; offro la mia vita per la pace in Uganda", ed espressioni simili. P. Pieragostini pronunciò a fatica la formula della assoluzione senza tuttavia riuscire a tracciare il segno della croce essendo praticamente immobilizzato. Ad un certo punto P. Egidio trasse un respiro, più lungo degli altri poi reclinò il capo e non disse più niente. Era morto. I soldati caricarono i tre sul loro veicolo e li portarono all'ospedale di Kitgum. P. Aldo, l'unico superstite, era in stato di shock, con pressione a 60. Immediatamente gli vennero praticate alcune trasfusioni. Un poco alla volta si riprese.

Riposa vicino alla statua della Madonna
La salma di P. Egidio fu esposta nella chiesa di Kitgum fino al pomeriggio del giorno 30. Al funerale partecipò una grande folla, anche se da alcune settimane la popolazione della zona si trovava nell'occhio del ciclone causa i ladri e i guerriglieri che erano tornati in circolazione con incredibile ferocia.
P. Egidio è stato sepolto nel cimitero di Kitgum, vicino alla statua della Madonna che aveva invocato prima di morire.
Il vescovo ha detto: "Tanta gente benedice questo missionario perché ha capito che le voleva bene. La sua è stata una vita ben spesa, ed ora è giusto che riposi in mezzo a noi come un dono di Dio agli Africani".
P. Riccardo Bolzanella, commentando la morte del confratello, dice: "Egidio era timido all'eccesso eppure, quando si trattava di aiutare gli altri, diventava coraggiosissimo. Nelle missioni di Aber e di Aboke fu più volte assalito e derubato dai ladri, rischiò molte volte la vita, eppure riuscì sempre a cavarsela".
La notizia dell'assassinio di questo missionario comboniano fece molto scalpore anche in Italia. Ai superiori arrivarono partecipazioni e condoglianze da semplici cittadini e da autorità religiose e civili. In tutti c'era la consapevolezza che il sangue di questo nuovo martire, caduto per essere solidale con il popolo che aveva scelto come proprio, gridava pace, riconciliazione e concordia in un mondo dilaniato da troppe violenze e ingiustizie. Siamo certi che il piccolo P. Egidio, dagli occhi e dal cuore sempre pronti a donare un sorriso, intercederà dal cielo per le missioni che da ormai troppo tempo conoscono solo il pianto.

P. L. G.

Pajule (Uganda) 29 gennaio 1990 - anni 61