Era nato per fare il missionario. Né fame, né freddo, né umiliazioni, né fatiche d'ogni genere potevano dissuaderlo dalla sua idea
Sant'Eufemia di Borgoricco (PD - Italia)
Mirador (Brasile)
Marco Ruben Vedovato è nato a Sant’Eufemia di Borgoricco (Padova) il 25 aprile 1930, terz’ultimo di quattro fratelli.
Il 15 giugno 1957 fu ordinato sacerdote nel duomo di Milano e il 30 novembre 1957 era già a Juba (Sudan), appena in tempo per assistere alla nazionalizzazione di tutte le scuole cattoliche da parte del governo musulmano di Khartoum. Era il segno di una sorda persecuzione che si andava preparando contro i cristiani e contro i missionari.
In una delle sue prime lettere, il nuovo arrivato scrisse: “Sono giunto qui come messaggero di pace. Credo che in questa terra ci sia grande bisogno di pace”.
Padre Marco fu uno degli ultimi missionari che ebbero il permesso dal governo di entrare in Sudan. Poco dopo sarebbero cominciate le espulsioni dei missionari e il martirio di tanti cristiani.
La prova suprema per Marco e per tutti i missionari del Sudan meridionale si avvicinava. La descrive egli stesso in una lettera, riservata, al fratello missionario. “L’ora di Dio è suonata per il nostro caro Sudan, per il quale noi abbiamo consacrato le nostra vita e speso le migliori energie. Ma il Signore sa quello che fa e dove vuole arrivare: per questo, noi che stiamo ancora sul posto, soffriamo con gioia e fiducia.
Il 30 dicembre scorso (1962) mi trovavo nella missione di Kadulé. Ero indisposto con la febbre, alle otto e mezza di sera (che qui vuol dire notte da tre ore) arriva una camionetta con cinque poliziotti per prelevarmi e tradurmi al commissariato di distretto… Chiedo di attendere fino all’indomani… ma non c’è niente da fare: bisogna partire subito: la meta dista un centinaio di chilometri. Chi mi ha denunciato è un giovane cristiano che io ho aiutato molto… Sottoposto all’interrogatorio, mi vennero contestati vari crimini: insulto alle autorità, minacce, incitamenti di folle e altre cose del genere. Pensavo tra me: che politica posso aver fatto tra quella gente, in mezzo a quelle foreste dove non ci sono altro che zanzare, mosche e insetti di ogni genere? L’interrogatorio fu una vera farsa… Risultato: contro ogni evidenza, fui condannato a due giorni di prigione e a 100 giorni di “buona condotta” a domicilio coatto…”.
Così si arrivò al 27 febbraio 1964, data dell’ordine di espulsione di tutti i missionari, suore e vescovi dal Sudan meridionale.
Una nuova terra
Il 3 dicembre 1965 padre Marco arrivò a Rio de Janeiro. Il Brasile era la sua nuova terra, quella che avrebbe raccolto anche il suo sangue.
“Le difficoltà non mancano -Marco scrive ai genitori- ma la gente è ben disposta nei nostri confronti e noi siamo liberi nel nostro ministero apostolico. Un grave pericolo è rappresentato dai protestanti che in questa zona sono assai fanatici ed hanno buon gioco. Essi non mancano di mezzi, mentre noi, alle volte, dobbiamo tirarla anche per il vitto. Anche qui come in Africa dobbiamo preparare catechisti che siano presenti in ogni villaggio. Le vie di comunicazione sono ancora difficili. Solo la jeep può superare le grandi distanze e le strade disagiate…”
Nel marzo del 1968 padre Marco passa a Pastos Bons da cui dipendono le missioni di Sucupira e Mirador. Prendiamo alcuni stralci da una lettera al fratello missionario: “Il vescovo mi ha assegnato una parrocchia di 15.000 chilometri quadrati di superficie con zone molto abitate. Per visitare tutti i villaggi una volta ogni due mesi, bisognerebbe essere in sei.
Ho visitato alcune località dove la presenza del sacerdote risale a quindici anni fa. Ho battezzato giovani, bambini e vecchi. Tutti si dicono cattolici, però molti vivono come i pagani e anche peggio… Il mio sarà un lavoro di molta pazienza e di altrettanta fatica. Ma noi missionari siamo solo strumenti della grazia di Dio, che è quella che opera. Miseria, malattie, ignoranza fanno da contorno a questa situazione. Ho programmato la costruzione di 12 cappelle-scuole. Sto interessando le autorità civili per avere un assistente sanitario. Cerco di preparare e organizzare un gruppo di maestre e catechiste, come ho fatto nelle altre parrocchie. Ho organizzato corsi di cucito e di igiene. Ho fondato la lega delle madri cristiane per venire incontro alla mamme più bisognose. Altre iniziative sono in cantiere. Tu siimi vicino con la preghiera perché tutto vada a buon fine”.
Fu proprio rientrando a Mirador, il 19 ottobre di quell’anno, verso le otto di sera, che la morte lo aspettava. Essendo quel giorno sabato, padre Marco si affrettò ad entrare in chiesa per celebrare la messa prefestiva, alla quale prese parte uno sparuto numero di persone.
Oltre alla stanchezza dovuta al suo stato fisico, il missionario era molto triste perché aveva ricevuto la notizia del ricovero di sua madre all’ospedale.
Intanto tre giovani si posero sul sagrato della chiesa suonando la fisarmonica e sbraitando. Verso mezzanotte il padre uscì di casa e delicatamente chiese ai tre se potevano sospendere la musica per lasciarlo riposare. I tre accettarono, ma quando Marco si girò e fece pochi passi, il giovane che suonava la fisarmonica gli sparò tre colpi con una pistola calibro 38.
Il padre cadde a terra, ma riuscì a chiamare aiuto. Poi, dichiarò un testimone “Padre Marco stesso si rese conto che non c’era più niente da fare. Allora cominciò a pregare a voce alta, chiedendo perdono a Dio dei propri peccati e perdonando al suo assassino. Disse che offriva la propria vita per la gente di Mirador e poi continuò a pregare in una lingua che non si capiva (evidentemente in italiano). Con un ultimo sforzo padre Marco impose ai presenti di non vendicarsi contro colui che lo aveva colpito. ‘Come gli ho perdonato io, perdonategli anche voi’. Dopo circa 15 minuti spirò”.
Padre Marco ora riposa nel cimitero di Balsas, e la sua tomba è continuamente meta di pellegrinaggi da parte della gente che lo ricorda come il fratello buono che ha dato la vita per il suo popolo.