P. Giuseppe Beduschi ha percorso le missioni del Sudan e dell'Uganda, ma anche i seminari d'Italia, come un fuoco di Dio che, dove passa, lascia il segno. Carattere ardente e deciso, era nato a Milano il primo novembre 1874. Da seminarista nel seminario di Milano legge la storia dei Martiri ugandesi e mentre si trova nel Santuario di Maria delle Vittorie sente l'impulso di farsi missionario. Il papà, nonostante gli undici figli, non vuol sentir parlare di missioni. Giuseppe fugge a Verona; il papà lo raggiunge e segue un incontro burrascoso. Giuseppe conclude gridando: “Se mi impedisci di seguire la mia vocazione sarò un disgraziato e tu ne sei responsabile!”. Il papà cede. A mandarlo via sono, quasi, i superiori perché Giuseppe è fragile, mingherlino, tutto ossa. “Questi non ariverà al Cairo!”, dicono i compagni.
Ordinato sacerdote nella cattedrale di Verona il 13 agosto 1899, parte subito per l'Africa. Fa una tappa di due anni alla Gesira dove impara la lingua araba e si dedica alla catechesi. Nel 1901 arriva a Lul, la missione fondata da mons. Roveggio l'anno prima, e trova che quasi tutto era stato dato alle fiamme. Senza perdersi d'animo, i missionari cominciano daccapo. Beduschi, vedendo che un ragazzo che era andato nel Nilo stava per essere aggredito da un coccodrillo, si getta in acqua e lo salva. Gli Scilluk apprezzano questo gesto e depongono un po' della loro diffidenza nei confronti dei missionari.
Siamo agli ultimi giorni di agosto del 1903. P. Beduschi si ammala gravemente. Tutti temono per la sua vita; lui stesso chiede gli ultimi sacramenti e si dispone con serenità alla morte. In missione c'è suor Giuseppa Scandola, la prima Pia Madre reclutata da Comboni, che conduce una vita da santa, tra preghiere e opere di carità. Viene a sapere che p. Beduschi è grave e lei , con sicurezza e semplicità, gli manda a dire di stare tranquillo: non sarebbe morto, perché gli Scilluk avevano bisogno di lui; in sua vece sarebbe morta lei, ormai vecchia (aveva 54 anni) e inutile. Alla sera di quel giorno una febbre la prende e, dopo aver ricevuto i conforti religiosi, spira, mentre p. Beduschi guarisce istantaneamente.
Nel 1904, in compagnia del fedele fr. Giosuè dei Cas, p. Beduschi emigra a Tonga per dare inizio ad una seconda missione tra gli Scilluk. L'ambiente è pessimo: per alcuni mesi la missione è come un'isoletta in mezzo alla palude. Per uscire, bisogna affrontare l'acqua fino al collo. P. Beduschi visita i villaggi cercando di portare il messaggio evangelico. Ma pare che gli Scilluk non capiscano niente. Quando parla di cielo, di paradiso, si mettono a ridere: “In cielo ci sono gli uccelli, ma anche loro per mangiare devono scendere a terra…”. Nel 1906 scrive: “Sono stanco, divorato dalle zanzare e non c'è neppure un cristiano”. Per creare un po' di benessere tra quella gente, dà inizio ad una colonia agricola. I suoi compagni sacerdoti di Milano gli mandano gli aiuti ed egli crea una superba struttura, ma poi si accorge che gli Scilluk non ne vogliono sapere di lavorare. E tutto si conclude in un fallimento.
In Uganda
Nel 1911 p. Beduschi raggiunge l'Uganda e va a Gulu. I missionari sono così poveri che hanno un unico paio di scarpe buone che usano a turno quando vanno a parlare con le autorità inglesi. La prima guerra mondiale (1914-18) rende la situazione ancora più disperata. P. Beduschi mira diritto all'evangelizzazione di quel popolo ben disposto e crea gruppi di catechisti ben preparati che portano il Vangelo nei villaggi più lontani. I protestanti bruciano di invidia e strappano dal collo dei ragazzi le medaglie della Madonna. P. Beduschi aggredisce il ministro inglese e lo svergogna in pubblico dicendo che “chi non ama la Madre del Capo, non può essere amico del Capo”. I Neri capiscono e applaudono al missionario. Le autorità inglesi non mandano giù il boccone amaro ed espellono dall'Uganda quel missionario troppo zelante. Mugugnando, in 21 giorni di cammino attraverso la foresta, p. Beduschi arriva a Gondokoro, in Sudan meridionale dove c'è “miseria nera”.
Dopo qualche mese è a Kitgum dove è scoppiato il vaiolo che miete tante vittime. Gli stregoni incolpano ancora una volta i missionari di quella disgrazia. La lotta con le forze del male è accanita e p. Beduschi non si tira indietro. Quando passa qualche confratello da quella solitudine, gli si fa incontro, lo accoglie e gli mette davanti quel poco che la missione possiede. E se nella dispensa non c'è più niente, imbraccia il fucile e si immerge nell'acqua della palude finché riesce a portare a casa qualche anatra selvatica.
Nel 1919 è nuovamente in Italia a rimettersi in forze. Nel terzo Capitolo della Congregazione che ha luogo in quell'anno, diventa consigliere del Superiore generale. P. Meroni (il nuovo Generale) lo incarica di visitare i seminari maggiori d'Italia per cercare vocazioni. La passione per l'Africa gli sprizza dagli occhi e incendia gli ascoltatori. Non c'è seminario che non abbia dato alle missioni un missionario o anche più di uno. Anticipando il Concilio Vaticano I dice che tutta la Chiesa è missionaria, e poi, per scendere al concreto, organizza gemellaggi tra le diocesi e le varie missioni, predica Giornate missionarie, istituisce il gruppo delle zelatrici missionarie, sostiene con lettere i giovani che recluta e, mentre è in ospedale a Verona per rimettersi in salute, scrive il libro “I martiri d'Uganda”. Nel 1920 chiede al Papa perché di istituire una Giornata Missionaria Mondiale (avrà luogo nel 1926)
Ritorno al primo amore
Nel 1923 i superiori mandano nuovamente p. Beduschi tra gli Scilluk; così si realizza la profezia di suor Scandola che gli aveva detto: “Gli Scilluk hanno bisogno di te”. Egli inizia la missione di Detwok: “Siamo tra paludi e zanzare, ma c'è tanta gente che ha bisogno del messaggio evangelico. Gli stregoni congiurano contro di noi, ci incendiano le capanne, ci vogliono mandar via perché compromettiamo i loro interessi”, scrive.
Nell'ultima lettera, scritta al Sodalizio di San Pietro, dice: “Sono sfinito, ma non stanco”. Per poter battezzare un ragazzo morente accetta la sfida dello stregone e beve una ciotola di latte mescolato ad orina di mucca. Trangugiata la pozione, battezza il ragazzo e poi stramazza a terra colpito da brividi, vomito e febbre. Portato in barella alla missione, il medico prontamente chiamato vuole portarlo al suo ospedale e fa venire un battello, ma il Padre si rifiuta di salire a bordo perché: “Voglio morire tra gli Scilluk che sono il mio popolo”. Muore dopo aver abbracciato i confratelli. Era il 10 novembre 1924. P. Giuseppe aveva 50 anni, come Comboni.
(P. Lorenzo Gaiga)