Lunedì 10 marzo 2025
L’Etiopia è un paese caratterizzato da una grande diversità culturale, linguistica e religiosa. Nel tempo, il rafforzarsi del senso di identità, alimentato anche dalla definizione costituzionale di “Repubblica federale”, ha contribuito all’acuirsi delle tensioni tra i vari gruppi, sia nei rapporti interni che nelle relazioni tra gli stati regionali e il governo centrale. [Nella foto, padre Isaias Sangwera, comboniano con gente gumuz, ringrazia la ong Cnewa]
Lo stato regionale di Benishangul-Gumuz si trova nella parte occidentale del paese, nell’area di Metekel, al confine con la regione Amhara a nord e nordest, con le regioni di Oromia e Gambella a sud e sudest e con il Sudan a ovest. Il capoluogo regionale Assosa si trova a circa 680 chilometri a ovest di Addis Abeba. La maggioranza degli abitanti è di etnia gumuz, un popolo di origine nilotica, poco numeroso (circa 200.000) ma che copre un vasto territorio ed oggi abita sia in Etiopia che in Sudan. I gumuz in Etiopia sono rimasti ai margini della società etiopica per molti secoli. Negli ultimi decenni hanno conquistato i propri diritti e il controllo della loro terra e la responsabilità politica in seguito alla promozione di una propria élite nella gestione del potere. Dal punto di vista agro-climatico, la maggior parte della regione si trova tra i 580 e i 2730 metri sul livello del mare. È dotata di enormi risorse naturali, tra cui foreste, terreni agricoli e acqua.
La Chiesa cattolica
La prima missione cattolica nella regione venne aperta nel 2000 dalle suore missionarie comboniane a Mandura. I comboniani le seguirono e aprirono due comunità apostoliche a Gilgel Beles nel 2003 e a Gublak nel 2011. Il Benishangul-Gumuz è un’area di prima evangelizzazione e di impegno nella promozione umana e nello sviluppo, portati avanti soprattutto nel settore educativo e sanitario. Per circa quattro anni, purtroppo, la zona – come diverse altre regioni dell’Etiopia – è stata teatro di combattimenti che hanno messo a dura prova la vita della popolazione.
La missione cattolica di Gublak è stata la più colpita e ha subito le conseguenze più gravi del conflitto. Allo scoppio degli scontri la gente è stata costretta a mettersi in salvo fuggendo. Noi missionari avevamo scelto di rimanere da soli sul posto, ma di fronte all’aggravarsi della situazione siamo stati costretti noi pure a lasciare la zona. La gente in generale, ma anche le nostre comunità cristiane, ha sperimentato insicurezza, instabilità, saccheggi, uccisioni, e diversi giovani cattolici si sono tra l’altro uniti a gruppi di milizie ribelli.
Al nostro ritorno nel 2022 insieme a migliaia di persone pure rientrate, avevamo celebrato con i fedeli la grande solennità del Mesqel (la Croce) con una messa solenne nella vigilia, accendendo il tradizionale grande fuoco di augurio (demerà), un falò liturgico, con danze, canti e grida di gioia. Negli scontri interetnici avvenuti intorno alle missioni di Gilgel Beles e Gublak negli ultimi anni siamo stati motivo di incoraggiamento per tutti i gumuz. Visti alle volte con sospetto dal governo, siamo stati convocati talvolta dagli organi di intelligence della sicurezza.
Qualche missionario a Gublak è stato anche arrestato per un po’ e sono stati confiscati temporaneamente i nostri mezzi di trasporto col sospetto che servissero a contrabbandare beni rubati o, peggio, a comunicare segretamente con i ribelli.
Anni di conflitto
Negli ultimi anni, dunque, le nostre attività e la fede delle comunità cristiane sono state messe alla prova. Come missionari, uomini e donne, in questa zona, abbiamo scelto di rimanere con la gente nonostante i pericoli. Abbiamo sopportato le conseguenze delle nostre scelte missionarie. Dopo il ritorno abbiamo concentrato il nostro lavoro nell’incoraggiare gli appartenenti ai vari gruppi etnici a vivere in unità e coesistenza pacifica. Ancor più in questo anno di giubileo incentrato sulla speranza. Abbiamo ripreso a organizzare iniziative di formazione cristiano-umana a tutti i livelli, incoraggiando leader ecclesiali e fedeli ad approfondire la loro fede, la conoscenza della parola di Dio e l’identità della Chiesa cattolica, della sua struttura e tradizione. Essere profetici oggi in Etiopia, infatti, richiede un impegno serio nei campi della giustizia, della pace e della promozione dei diritti umani.
L'impegno di lunga data della Chiesa nell'ambito dello sviluppo umano integrale va di pari passo con la formazione sulla Dottrina sociale della Chiesa per promuovere collaboratori laici in grado di contribuire a creare una cultura di vita, pace, giustizia, sviluppo sostenibile e rispetto del creato. Dopo oltre vent’anni di presenza siamo consapevoli che il vangelo che abbiamo cercato di comunicare non ha raggiunto in profondità il tessuto culturale dei gumuz e sono prevalsi in questo tempo scarso rispetto per la vita umana e forte senso di vendetta. Come ci hanno confermato giovani cattolici tornati a casa dopo aver fatto parte di gruppi di combattenti.
Centinaia di persone innocenti hanno perso la vita, come la madre di un catechista uccisa con il veleno dai ribelli perché sospettata di esercitare il malocchio, o l’esecuzione sommaria di alcune giovani infermiere rapite e giustiziate a sangue freddo solo perché di etnia non gumuz da ribelli tra cui alcuni giovani cattolici che hanno confessato. Episodi di questo genere non possono non lasciare una profonda ferita in chi ne ha subito le conseguenze.
Riprendere il cammino
Dalla cessazione dei maggiori scontri, d’altro canto, il governo regionale ha lanciato un appello alle famiglie gumuz affinché abbandonassero i loro nascondigli stabilendosi in alcuni luoghi preparati apposta. Molte famiglie hanno accolto l’invito nonostante i disagi per l’assenza di servizi di base nelle località stabilite, mentre al tempo stesso molti aderenti ai gruppi armati sono stati convinti a sedersi al tavolo delle trattative. In realtà, nell’area in cui operiamo e nei distretti di Pawi, Dangur e Mandura, nonostante un accordo di massima, finora le autorità hanno tralasciato di indagare sulle responsabilità per i crimini verificatisi. La fiducia della gente verso le autorità regionali, verso il posto di comando di Meketel e le istituzioni governative di Addis Abeba è andata pertanto diminuendo. La conseguenza è che alcune frange dei gruppi ribelli stanno rafforzando la propria presenza in alcuni villaggi intorno al distretto di Mandura, e lanciano attacchi sporadici contro le milizie governative. A metà gennaio l’esercito ha risposto avviando un'operazione speciale che ha portato all’uccisione del capo dei ribelli. Qualche giorno dopo, in ritorsione, un mezzo pubblico che viaggiava tra le città di Gilgel Beles e Chagni è stato assaltato provocando decine di vittime. Un segnale concreto che non si è ancora raggiunta una vera pacificazione. In questa cornice, siamo convinti che gli sforzi e le risorse della Chiesa devono essere impiegati nel preparare operatori laici attraverso una seria istruzione e una formazione permanente in una Chiesa locale da trasformare in autentica “scuola di educazione alla pace”.
Ci proponiamo quindi di fare in modo che i programmi di istruzione, formazione e iniziazione sacramentale trovino un collegamento con il grande tema della pace ogniqualvolta possibile, sottolineando le modalità concrete per tutti i fedeli, dai bambini ai giovani agli adulti, di incarnare questi insegnamenti nelle relazioni tra loro e nella società di cui fanno parte. Saranno loro, infatti, a operare nel governo, negli affari, nel sistema giudiziario, nella vita familiare, nella società civile e nell'esercito.
Se è vero, infatti, che sacerdoti e religiosi sono chiamati, istruiti, formati spiritualmente e incaricati anzitutto di rispondere alle necessità di crescita spirituale dei fedeli, il ruolo specifico dei laici, come ha esortato il Vaticano II, è “il rinnovamento dell'intero ordine temporale”.
Dialogo interreligioso e inculturazione
Un ulteriore tema prioritario per la nostra attività pastorale è il dialogo interreligioso. Dal punto di vista geografico, i nostri centri missionari nel Benshangul-Gumuz confinano con il Sudan. Di conseguenza, la religione islamica ha un grande influsso nella vita delle nostre popolazioni. Il conflitto di questi ultimi anni ha portato alla luce il fatto che la religione può a volte essere una fonte di conflitto e divisione. Abbiamo notato dopo il nostro ritorno che si stanno moltiplicando le costruzioni di nuove moschee nei villaggi dei gumuz.
Si tratta spesso di operatori musulmani anche provenienti da altri paesi con evidenti intenti proselitistici e atteggiamenti radicali e aggressivi. Si servono in molti casi della distribuzione di aiuti materiali o di soldi per attirare le persone, in contrasto con quanto si fa nelle nostre missioni dove anche gli aiuti umanitari sono sempre stati e sono tuttora dati incondizionatamente e indipendentemente a tutti, senza badare ad appartenenze religiose o etniche. Siamo convinti che la pratica religiosa nelle sue varie espressioni possa svolgere un compito importante nella promozione dell’incontro, dell’accoglienza reciproca e della pace.
Per quanto riguarda l’urgenza pastorale di inculturare il vangelo esprimendolo attraverso i valori tradizionali dei gumuz, siamo molto grati ai primi missionari che hanno compiuto passi positivi in questo ambito. Intendiamo continuare a collaborare con la Chiesa locale nella produzione di materiale liturgico e catechetico, adottando la grammatica ufficiale proposta dal governo, al fine di approfondire l'incontro del vangelo con la cultura locale.
Conclusione
Siamo consapevoli di quanto l’evangelizzazione sia una realtà complessa e dinamica. Il che si è reso ancor più evidente per noi della famiglia comboniana in Etiopia tra i gumuz, in questo periodo di ripresa pastorale nel post-conflitto. Abbiamo avuto la conferma che l’autentica evangelizzazione deve partire non da noi stessi ma dalla contemplazione dell’opera dello Spirito, il vero protagonista dell'attività apostolica, che soffia e agisce in modalità sempre nuove.
Impegno di ogni evangelizzatore è pertanto di porre la preghiera e l’incontro con Cristo alla base di ogni iniziativa. Questo ci aiuta a discernere come il Signore ci chiede di agire credendo nella forza del vangelo testimoniato e dell’azione dello Spirito. È, infatti, lo Spirito che ispira in noi gli stessi sentimenti di san Paolo: “Infatti annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché è una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo! Se lo faccio di mia iniziativa, ho diritto alla ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato” (1 Co 9,16-17). Le parole di Luca 5,4 ci incoraggiano: “Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca” un’esortazione significativa per noi comboniani del Gumuz oggi e che ci invita a ricordare il passato con gratitudine, a vivere il presente con entusiasmo e a guardare al futuro con fiducia.
Il nostro lavoro, il nostro impegno, il nostro cammino di discepolato come “pellegrini di speranza” proseguono in questo anno di giubileo nella ricerca di nuove vie di evangelizzazione.
P. Isaiah Sangwera Nyakundi,
missionario comboniano