La solennità del SS. Corpo e Sangue di Cristo sembra un doppione del Giovedì Santo. Infatti, per la sua vicinanza al Venerdì Santo, non permette uno spiegamento di gioia festiva. Tuttavia, fare dell’Eucaristia, quale frutto preziosissimo del mistero pasquale, l’oggetto di una rinnovata azione di grazie nel corso dell’anno, sembra conveniente e giustificabile. Per altro questo mistero pasquale, nella sua totalità, è celebrato non una sola volta l’anno, ma tutte le domeniche, senza che appaia giustificata l’obiezione di un doppione.
Man hu? Che cos’è?
Gv 6,51-58
Sessanta giorni dopo Pasqua, il giovedì dopo la Santissima Trinità, la Chiesa celebra la Solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo, chiamata pure la festa del Corpus Christi o Corpus Domini. Si tratta di uno dei tre giovedì più solenni dell’anno liturgico: Giovedì Santo, giovedì dell’Ascensione e giovedì del Corpus Christi. Per ragioni pratiche, in molti paesi, sia l’Ascensione che il Corpus Christi sono trasferiti alla domenica dopo la Santissima Trinità.
Le origini di questa festività rimontano al XIII secolo, in Belgio, ma ricevette un forte impulso dai miracoli eucaristici di Bolsena e di Lanciano. I miracoli eucaristici sono tanti, anche recenti (vedi quelli accaduti a Buenos Aires con Bergoglio): La solennità del SS. Corpo e Sangue di Cristo sembra quasi un doppione del Giovedì Santo. E, di fatto, in un certo qual modo lo è. Il Giovedì Santo la Chiesa non aveva potuto esprimere tutta la sua gioia e gratitudine per il dono supremo dell’Eucaristia, dato il contesto della passione. Ecco, quindi, la ragione profonda di questa festività.
RICÒRDATI!
La prima parola che risuona alle nostre orecchie nelle letture di oggi è RICÒRDATI: “Ricòrdati di tutto il cammino che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto” (prima lettura, Deuteronomio cap. 8). È un invito più che opportuno ed urgente per noi, donne e uomini di questa generazione propensa a dimenticare il passato, alienati nel presente, sradicati dalla storia e, quindi, incuranti del futuro che non abbia un immediato risconto.
Questa tendenza culturale rischia di minare anche l’identità cristiana. Ha detto Nelson Mandela: “il ricordo è il tessuto dell’identità”. Un cristiano e una comunità cristiana che non coltivano la memoria di Dio e delle sue opere rischiano di smarrire la propria identità, e di essere incapaci di capire il presente. Ecco perché Mosè, nel Deuteronomio, insiste così tanto sul binomio ascoltare/ricordare (vedi 6, 4-10.12; 8,2.14.18).
Il credente che non fa memoria del Dio-liberatore ricade facilmente nella schiavitù, ritorna in Egitto e dovrà rifare tutto il cammino! Il cristiano senza memoria non ha lo Spirito perché il compito dello Spirito è di insegnare e ricordare: “Il Paraclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto” (Giovanni 14,26).
Il credente senza memoria è incapace di uno vero ascolto della Bibbia che è, in effetti, la memoria della storia dell’Alleanza di Dio con il suo popolo, delle “mirabilia Dei”! Senza la memoria affettiva del cuore non possiamo fare Eucaristia, il memoriale per eccellenza: “Fate questo in memoria di me” (1Corinzi 11,23-26).
UN SOLO PANE, UN SOLO CORPO!
La seconda lettura mi è di molta consolazione: “Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane” (1Corinzi 10,16-17). Dal 13 ottobre 2020, dovuto alla malattia, non posso comunicare direttamente al Corpo e Sangue di Cristo. Devo affidarmi a quella “parola” prima della comunione: “O Signore non sono degno di partecipare alla tua mensa ma dì soltanto una parola e io sarò salvato”. Non so quale parola dica il Signore su di me, ma ad essa mi affido!
La mia condizione mi ha portato a pensare tante volte ai cristiani che non possono ricevere la santa comunione, soprattutto dovuto a problemi di convivenza matrimoniale, molto spesso senza soluzione. In qualche modo, condivido la loro pena. Trovo il nostro atteggiamento verso di loro poco evangelico, tenendo conto che la comunione non è un premio per i “giusti” o per quelli che ne sono “degni”, ma un rimedio per i peccatori che siamo tutti quanti.
Il celebrare ogni giorno l’Eucaristia con i miei confratelli mi ha portato soprattutto a riflettere sulla dimensione comunitaria dell’Eucaristia: un solo Pane per un solo Corpo! Questo corpo è la Chiesa, è la comunità. Il Cristo si dona a tutto il corpo. I miei confratelli sono il mio corpo che comunica, tramite loro, al Corpo di Cristo. Questo vale per me e per tutti i cristiani che celebrano l’Eucaristia!
MANNA, MAN HU? CHE COS’È?
La Manna che nutrì il popolo d’Israele nel deserto è figura dell’Eucaristia, il Pane essenziale per la nostra sopravvivenza. Tradizionalmente si pensa che il vocabolario Manna provenga dalla domanda Man hu? ovvero ‘Che cos’è? ‘, che gli Ebrei si posero, con sorpresa, vedendola scendere dal cielo. Ebbene, Gesù oggi ci dice: “Questo è il pane disceso dal cielo” (Giovanni 6,51-58). La vera Manna. I Giudei che lo ascoltavano ne rimasero scandalizzati. Noi no, purtroppo! Diamo questo per scontato, ma quanto lo prendiamo sul serio? Gli occhi del corpo vedono un… insignificante pezzetto di pane, ma gli occhi del cuore, della fede, vedono altro? o sono ciechi anche loro?
Esercizio spirituale per la settimana
1. Prima di fare la comunione, guarda con stupore e meraviglia il Pane deposto sulla tua mano e chiediti: Man hu? Che cos’è? E il Signore ti risponderà: È il mio corpo!
2. “Ognuno di noi, oggi, può domandarsi: e io? Dove voglio mangiare? A quale tavola voglio nutrirmi? Alla tavola del Signore? O sogno di mangiare cibi gustosi, ma nella schiavitù? Inoltre, ognuno di noi può domandarsi: qual è la mia memoria? Quella del Signore che mi salva, o quella dell’aglio e delle cipolle della schiavitù? Con quale memoria io sazio la mia anima?” (Papa Francesco, 19 giugno 2014)
P. Manuel João, comboniano
Città di Castel d’Azzano (Verona), giugno 2023
L’Eucaristia, viatico per la Missione nel deserto del mondo
Dt 8,2-3.14-16; Sl 147; 1Cor 10,16-17; Gv 6,51-58
Riflessioni
Nel deserto del mondo (I lettura), Gesù Cristo nell’Eucaristia è il viatico, il Pane di vita (Vangelo), perché la Chiesa viva e annunci la comunione e la fraternità (II lettura). Il linguaggio di Gesù nella sinagoga di Cafarnao (Vangelo) è realista e insistente: il suo corpo e il suo sangue non sono soltanto ‘cose sacre’, sono Cristo stesso. Egli è il Pane di vita da accogliere e ricevere con fede, per vivere in questa vita e nella futura. Ce lo assicura Colui che ha parole di vita eterna (cfr. Gv 6,68).
Appena liberato dalla schiavitù d’Egitto, il popolo dovette affrontare il deserto (I lettura) “grande e spaventoso, luogo di serpenti velenosi e di scorpioni, terra assetata, senz’acqua” (v. 15). Nel duro cammino verso la libertà, il Signore accompagna il popolo con i suoi doni, la sua parola e i suoi interventi: in particolare il regalo della manna e dell’acqua dalla roccia durissima (v. 16). Sono doni da ricordare e non dimenticare! (v. 2.14).
Gesù promette un dono superiore alla manna (Vangelo, v. 58). Un dono da scoprire e condividere con altri: “Se tu conoscessi il dono di Dio!” diceva Gesù alla donna samaritana (Gv 4,10). L’Eucaristia è il dono nuovo e definitivo che Cristo affida alla Chiesa pellegrina e missionaria attraverso il deserto del mondo. È molto più del semplice ricordo di una bella vicenda passata: è, nell’oggi, il dono del Vivente! “Il ricordo biblico introduce nuovamente il fedele nella vicenda della salvezza riattualizzando nell’oggi gli eventi del passato. È questo appunto il valore della parola memoriale che è applicata nel Nuovo Testamento anche all’Eucaristia… L’Eucaristia è ricordo della morte e risurrezione del Cristo, ma è certezza della sua continua presenza come cibo dell’uomo pellegrino, nell’attesa della Sua venuta” (G. Ravasi).
L’Eucaristia è fonte e sigillo di unità (II lettura): essendo comunione con il sangue e il corpo di Cristo, deve portare coloro che vi partecipano a vivere la comunione fraterna. Dall’Eucaristia nasce necessariamente una generosa spinta all’incontro ecumenico e all’attività missionaria, “perché una sola fede illumini e una sola carità riunisca l’umanità diffusa su tutta la terra” (Prefazio). La persona e la comunità che fanno l’esperienza viva di Cristo nell’Eucaristia si sentono motivate a condividere con gli altri il dono ricevuto nella Parola e nel Sacramento: la missione nasce dall’Eucaristia e riconduce ad essa.
Il missionario porta nel deserto del mondo l’unica risposta valida, che è Cristo, buona notizia per i popoli. Cristo è sempre buona notizia nel deserto esistenziale e spirituale dell’umanità. Cristo è avvenimento di salvezza e mistero da adorare anche quando un missionario celebra l’Eucaristia nel deserto africano del Sahara, come fecero Daniele Comboni e i suoi compagni nel terribile deserto di Korosko, mentre erano in viaggio dall’Egitto a Khartoum (Sudan) nel 1857.
In tutta la sua persona (corpo, sangue, anima e divinità) Gesù si fa Pane e ci invita con insistenza a mangiare di questo Pane (Gv 6,51.53.54.56). Mangiare il Pane che è Cristo significa assumere il suo progetto, la sua missione, la sfida e la gioia del Vangelo. L’Eucaristia ci insegna ad abbattere le barriere che impediscono o mortificano lo sviluppo della vita: ci dà la forza per difendere la vita di ogni persona, nella convinzione che ‘nessuno è in più’ nel villaggio globale dell’umanità; ci dà la fiducia per vincere la spirale della violenza mediante il dialogo, il perdono e il sacrificio di se stessi; il coraggio per rompere le catene dell’accaparramento dei beni, promuovendo ovunque condivisione e solidarietà. (*)
“Per Gesù il Padre nostro e il pane nostro sono inscindibili: ogni pane che offro ad un affamato lo offro a Gesù stesso… (avevo fame…e mi hai dato … ero malato … e sei venuto a visitarmi, Mt. 25,39). Non possiamo qui in chiesa dire ‘Padre nostro’, e chiedere ‘dacci il nostro pane quotidiano’ e poi uscire e rientrare nella cultura del mio: la mia casa, la mia macchina, i miei soldi, la mia città, la mia patria… La logica dell’Eucarestia vuol dire: entrare in chiesa, ogni domenica, come mendicanti della Parola e del pane di Cristo ed uscire per diventare noi, nella vita, un pezzo di pane spezzato, per le persone che incontreremo” (R. Vinco, S. Nicolò, Verona).
Il villaggio globale non può che avere un banchetto globale, al quale tutti i popoli hanno uguale diritto di prendere parte; un banchetto dal quale nessuno può essere escluso o discriminato, per nessuna ragione. Da sempre è questo, e solo questo, il progetto del Padre comune per tutta la famiglia umana (cfr. Is 25,6-9). È il sogno che Egli affida alla comunità dei credenti perché lo portino a compimento.
Parola del Papa
(*) “L’Eucaristia, sebbene costituisca la pienezza della vita sacramentale, non è un premio per i perfetti, ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli… La Parola di Dio ascoltata e celebrata, soprattutto nell’Eucaristia, alimenta e rafforza interiormente i cristiani e li rende capaci di un’autentica testimonianza evangelica nella vita quotidiana”.
Papa Francesco
Esortazione apostolica Evangelii Gaudium (2013), n. 47, 174
P. Romeo Ballan, MCCJ
Nelle Cronache di Narnia c’è la fiala di Lucy e ne Il Signore degli Anelli abbiamo il lembas. La letteratura ci offre tanti segni che esprimono il nostro bisogno di una salvezza che vada oltre la dimensione puramente naturale/ordinaria. La fiala e il lembas sono entrambi donati agli uomini; la prima guarisce in punto di morte e il secondo nutre al di là delle possibilità umane.
Il pane degli elfi, il «lembas aveva una virtù senza la quale si sarebbero già da tempo lasciati morire. Non soddisfaceva la gola(...). Eppure quel pan di via degli Elfi aveva una potenza che aumentava quando i viaggiatori lo consumavano da solo senza mischiarlo ad altri alimenti. Nutriva la volontà e dava forza per sopportare e controllare membra e nervi in misura superiore a quella posseduta normalmente da una natura mortale» afferma il professor Tolkien ne Il Signore degli Anelli.
Annunziata Antonazzi nel libro La letteratura dimenticata. Chesterton, Lewis, Tolkien: tre scrittori per la speranza (Cooperativa S. Tom, Messina, 2007, 84) ci ricorda che il lembas «non è un nome inventato, ma tradotto da due lingue coniate da Tolkien. Esso significa “pane di viaggio” (lennmbass nella lingua Sindarin) e “pane di vita” (coimas nella lingua Quenya)». Queste due espressioni sono molto familiari per i cristiani; sono al cuore della liturgia eucaristica.
Nel Vangelo di Giovanni troviamo l’origine e la spiegazione di tutti questi richiami letterari: il vero cibo e la vera bevanda. Senza di essi «non abbiamo in noi la vita». Il corpo e il sangue di Cristo ci sostengono nel viaggio e ci uniscono a Lui che è la Vita. Infatti, «chi mangia questo pane vivrà in eterno». Qui il brano non sta dicendo che accostarsi alla mensa di Cristo ci dota di superpoteri e di una vita senza fine su questa terra, ma che l’Eucaristia ci unisce a Dio e alla sua vita divina. Questa è la vera salvezza. Essa è un dono che è offerto a tutti: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo». Come ogni dono non basta che venga offerto, ma trova compimento nell’essere accolto.
[Briana Santiago - L'Osservatore Romano]
LUI IN ME, IO IN LUI
“Prendete e mangiate“, “prendete e bevete“: c’è un dono da accogliere, un cibo da mangiare. Questo verbo semplice e concreto (“mangiare”) è ripetuto per sette volte e ribadito per altre tre insieme a “bere”. Gesù sta parlando del sacramento della sua esistenza, che diventa mio pane vivo quando la prendo come misura, energia, seme, lievito della mia umanità. Vuole che nelle nostre vene scorra il flusso caldo della sua vita, e nel cuore metta radici il suo coraggio, perché ci incamminiamo a vivere l’esistenza umana come l’ha vissuta lui.
Mangiare e bere la vita di Cristo non è un gesto solo liturgico, ma si dissemina sul grande altare del pianeta, nella “messa sul mondo” (Theilard de Chardin). Io mangio e bevo la vita di Cristo quando cerco di assimilare il nocciolo vivo e appassionato della sua esistenza, quando mi prendo cura con combattiva tenerezza degli altri, del creato e anche di me stesso. Faccio mio il segreto di Cristo e allora trovo il segreto della vita. “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui“.
Determinante è la preposizione: “in”. Che crea legame, unione, intimità, innesto. La ricchezza della fede è di una semplicità abbagliante: Cristo che vive in me, io che vivo in Lui. «Il Verbo che ha preso carne nel grembo di Maria continua, ostinato, ad incarnarsi in noi, ci fa tutti gravidi di Vangelo, incinti di luce» (Ermes Ronchi).
Oltre alla fame fisica l’uomo ne porta in sé un’altra che non può essere saziata con il cibo ordinario. È fame di vita, di amore, di eternità. Gesù è Lui stesso il pane vivo che dà la vita al mondo. Non è un semplice alimento con cui saziare i nostri corpi, come la manna; il Corpo di Cristo è il pane degli ultimi tempi, capace di dare vita eterna, perché la sostanza di questo pane è l’Amore.
Nell’Eucaristia si comunica l’amore del Signore per noi: un amore così grande che ci nutre con Sé stesso; un amore gratuito, sempre a disposizione di ogni persona affamata e bisognosa di rigenerare le proprie forze. Se ci guardiamo attorno, ci accorgiamo che ci sono tante offerte di cibo che non vengono dal Signore e che apparentemente soddisfano di più.
Alcuni si nutrono con il denaro, altri con il successo e la vanità, altri con il potere e l’orgoglio. Ma il cibo che ci nutre veramente e che ci sazia è soltanto quello che ci dà il Signore! Il cibo che ci dà il Signore è diverso dagli altri, e forse non ci sembra così gustoso come quello che ci offre il mondo. Allora sogniamo altri pasti, come gli ebrei nel deserto, che rimpiangevano la carne e le cipolle d’Egitto, ma dimenticavano di aver mangiato alla tavola della schiavitù. Ognuno di noi può domandarsi: e io dove voglio mangiare? A quale tavola voglio nutrirmi?” (Papa Francesco)
Don Erminio Villa
Nell’Eucarestia il dono di un amore perfetto
Deut. 8,2-3.14b-16; Sl 147; 1Cor 10,16-17; Gv 6,51-58
L’origine di questa solennità è da considerarsi in connessione con il possente risveglio della devozione eucaristica che dal secolo XII in poi si sviluppò, con un accento particolare sulla presenza reale dell’“intero Cristo” nel pane consacrato, e quindi sulla sua adorazione. Con questo “movimento” eucaristico si collegò un grande desiderio di vedere l’ostia; desiderio che portò tra l’altro alla elevazione dell’ostia dopo la consacrazione e alla processione con il SS. Sacramento.
Tutto questo è detto e fatto nel linguaggio della celebrazione che attende di essere costantemente tradotto nell’esistenza. Furono le visioni di una monaca agostiniana, Giuliana di Liegi, nell’anno 1209, a dare un impulso decisivo all’introduzione di questa festività, che si celebrò per la prima volta nella diocesi di Liegi nel 1247.
A Giuliana apparve infatti, più volte, il disco lunare luminoso con una zona oscura: il che le venne spiegato come la mancanza di una festa eucaristica nel ciclo annuale delle altre feste. Nell’anno 1264 il papa Urbano IV, già arcidiacono di Liegi e confessore di Giuliana, la prescrisse per tutta la Chiesa nella bolla Transiturus. Il formulario del Messale tridentino utilizza come letture bibliche 1 Cor 11, 23-29 e Gv 6, 56-59. Le tre orazioni del formulario della messa, rimaste immutate nel Messale del 1970, hanno una presentazione perfettamente unitaria; e se non sono opera di Tommaso d’Aquino (che avrebbe la paternità esclusiva della Liturgia delle Ore di questa solennità, con i suoi splendidi inni), certamente ne riecheggiano la dottrina riguardante l’Eucaristia. Nella Summa theologica (III, q. 73, a. 4.) egli caratterizza il significato del sacramento eucaristico dal punto di vista del passato come memoriale della Passione di Cristo (che è un vero sacrificio); dal punto di vista del presente come sacramento dell’unità dei fedeli con Cristo e tra loro; e dal punto di vista del futuro come prefigurazione della fruizione della vita divina nel convito eterno.
Questo triplice significato emerge con parole pressoché uguali nelle preghiere presidenziali. La novità del Messale del 1970 appare soprattutto nei prefazi dell’Eucaristia, due a scelta, quello del Giovedì Santo e un altro di nuova composizione. Costituiscono una sintesi riuscita dei diversi aspetti dell’Eucaristia, illustrati dalle letture bibliche, cioè i nove brani distribuiti in tre anni.
La solennità del SS. Corpo e Sangue di Cristo sembra un doppione del Giovedì Santo. Infatti, per la sua vicinanza al Venerdì Santo, non permette uno spiegamento di gioia festiva. Tuttavia, fare dell’Eucaristia, quale frutto preziosissimo del mistero pasquale, l’oggetto di una rinnovata azione di grazie nel corso dell’anno, sembra conveniente e giustificabile. Per altro questo mistero pasquale, nella sua totalità, è celebrato non una sola volta l’anno, ma tutte le domeniche, senza che appaia giustificata l’obiezione di un doppione.
Al tema pasquale rimanda la prima lettura dal Deuteronomio, che offre una riflessione sul cammino del popolo di Dio attraverso il deserto, dove il Signore gli dona la manna, prefigurazione del “pane vivo” di cui parla il brano evangelico, che è un tratto del grande discorso in cui Gesù promette l’Eucaristia.
La seconda lettura parla della fede eucaristica della comunità dei Corinzi: il significato dell’avvenimento eucaristico è la comunione al Corpo e al Sangue di Cristo e la crescita comune come suo corpo.
La processione del Corpus Domini che segue non deve porsi in seconda linea. È un corteo trionfale, in un giorno solenne, una grande comunità con Cristo e tra di loro. Si tratta della manifestazione della Chiesa come popolo di Dio in cammino verso l’unione eterna con Cristo, e che può superare i molteplici pericoli solo con l’aiuto della presenza del suo Signore.
Don Joseph Ndoum
Sono lontani gli anni in cui da ragazzini eravamo più che disposti ad accordare un certo credito di fiducia alla suora o alla catechista che tentava di spiegare quanto era “bello accogliere Gesù nel cuore”. E poi, ahimè – non so per voi – la delusione di scoprire che quel pane, almeno al gusto, non aveva nulla di eccezionale. Non sapeva nemmanco di pane. Ma non si poteva contraddire la suora e perciò ci ritrovavamo a confermare che era davvero bello accogliere Gesù nel cuore.
Ho sempre intuito che di questo sacramento ci sfuggivano molte cose. Mistero, l’Eucaristia, da accostare come stando sulla soglia. Soglia troppe volte varcata con la pretesa di essere già entrati in intimità con Dio.
Forse – oggi più che mai – abbiamo bisogno di abbandonare quelle immagini stucchevoli che ci siamo fatti di Dio se vogliamo accostarci al Dio vivo e vero.
L’Eucaristia, infatti, narra chi è Dio, quale volto ha, con quale nome lo si può chiamare.
Nato in una religione dominata dalla legge, fortemente segnata dalla distinzione tra sacro e profano, adoratrice di un Dio geloso che con mano forte aveva assicurato al suo popolo il diritto di uccidere pur di mantenere la sua identità, Gesù vedeva sfigurato il volto del Padre in quella maschera di un Dio garante dell’ordine costituito. Non poteva fare a meno di essere altro e quindi di essere ritenuto lui stesso peccato, fatto maledizione. Non poteva tollerare una religione che chiamava peccatore un cieco, inutile una bambina solo perché femmina, impura una donna mestruata, popolo maledetto chi era colpevole di limitarsi a vivere la legge pur senza averla studiata. E poco alla volta aveva accolto tutti quegli emarginati facendoli sentire preziosi ai suoi occhi e a quelli del Padre rimandandoli nel mondo ad annunciare la tenerezza di Dio.
Aveva avuto gesti di attenzione – unilaterali e incondizionati – per chi di umanità aveva solo brandelli, per soggetti che agli occhi dei più erano ritenuti inaffidabili e impuri, senza alcuna possibilità di avere accesso a Dio. A loro aveva annunciato e fatto sperimentare che ci si può fidare del Padre il quale abbraccia il figlio perduto quando è ancora sporco e maleodorante.
Comprendiamo come questo non poteva che essere parlare di un Dio altro, irriconoscibile per chi aveva passato tutta la vita nella casa paterna senza mai pretendere “un capretto per far festa con gli amici”. Con questo Dio altro, al centro c’è l’uomo, così com’è. Al centro c’è l’amore. A salvarci non sarà una legge ma la fiducia incondizionata nel Padre.
E così a Cafarnao e nell’ultima cena Gesù attesta che Dio è solo ed esclusivamente un pezzo di pane e un sorso di vino. Il pane, lo sappiamo, ha un solo senso: far vivere, nutrire, sostenere. Che Dio si riveli in un pezzo di pane sta a significare che la passione che lo abita è quella di far vivere. Il pane è dono per la vita di chi se ne ciba. Chiunque esso sia! Il solo luogo dove possiamo fare esperienza di Dio è l’uomo che spezza la sua vita per gli altri, per la vita degli altri. Chi vive la sua vita come dono non afferra mai l’altro con violenza, non se ne appropria.
Il vino ha, poi, una sola funzione: rallegrare il cuore dell’uomo. Segno della gioia che si espande, il vino è capace di trasformare un gruppo di uomini in una fraternità in cui ci si fida gli uni degli altri. Che Dio si riveli in un sorso di vino sta a significare che il suo desiderio più vivo è la gioia dell’uomo.
Pane spezzato, vino versato anche quando incontra la misteriosa resistenza degli uomini. Anche allora Dio scende negli inferi della nostra debolezza e si lascia spezzare e versare fino all’estremo. Un amore che per non dissociarsi mai dall’uomo può tutto, anche consegnarsi alla morte. Dio che muore.
Chi si nutre di quel pane e beve di quel vino da creatura amata diventa creatura in grado di amare, capace di diventare a sua volta pane-per-gli-altri, esistenza donata fino alle estreme conseguenze, pur di non spegnere mai la passione della vita nei fratelli.
Il pane spezzato e il vino versato segno di un Dio che vuole stabilire comunione: un Dio che gioisce con chi gioisce, un Dio che si fa povero con i poveri, profugo con chi è straniero, partecipe intimamente della sorte di ogni uomo.
L’Eucaristia è lì a ricordarci che Dio si affida a noi, alle nostre mani, mani di tradimento. Le parti sono rovesciate: questo ci rammenta ogni volta il sacramento che celebriamo. Del resto già Gesù ci aveva abituati a questa inversione di parti quando si identificava con il bisognoso che fatica a vivere e attende aiuto. Un Dio che attende il pane, il vestito, la visita, la liberazione, lo sguardo, l’acqua… L’Eucaristia proclama questa follia di Dio.
Dio nelle mani dell’uomo. Senza uscite di sicurezza e senza corsie preferenziali. Nessuno interviene in suo favore quando Giuda lo consegna e Pietro lo rinnega. E in più non fa nulla per divincolarsi da quelle mani di tradimento. E proprio mentre viene eliminato rivela il senso del suo essere venuto in mezzo agli uomini. L’Eucaristia: il segno di un Dio che sceglie di abitare tra gli uomini. Un Dio di casa con loro e tra loro. Così come sono.
Don Antonio Savone
http://acasadicornelio.wordpress.com/
La chiesa celebra oggi la festa del Corpus Domini, un’altra festa teologico-dogmatica, istituita nel XIII secolo per affermare la dottrina eucaristica contro quanti la interpretavano in modo non conforme alla chiesa romana. Il nuovo ordo liturgico ha mantenuto questa festa, che diventa così l’occasione per comprendere maggiormente il mistero grande dell’eucaristia e per adorare il corpo e il sangue del Signore, quel corpo che egli ha dato e quel sangue che ha versato per tutta l’umanità, avendola amata fino all’estremo (cf. Gv 13,1).
Il brano del vangelo secondo Giovanni proclamato nella liturgia è tratto dal capitolo 6, un intero capitolo dedicato al racconto della moltiplicazione dei pani, alle parole di Gesù che spiegano quell’evento e rispondono alle domande e alle contestazioni dei suoi ascoltatori. La pericope è breve ma densa, come emerge dalle cinque parole che in essa ricorrono a più riprese: mangiare (8 volte), bere/bevanda (4 volte), carne (6 volte), sangue (4 volte), vita/vivere (9 volte).
Ascoltiamo innanzitutto una dichiarazione di Gesù: “Io sono il pane vivo, disceso dal cielo”. Gli ascoltatori sono rimandati da Gesù non a qualcuno o a qualcosa con carattere di grandezza, forza, sapienza, ma all’umile realtà del pane che ognuno mangia quotidianamente per sostentarsi e che molti devono cercare, a volte addirittura mendicare nella loro povertà. Il pane, questo cibo umile e semplice, ma che è il simbolo della vita, del cibo “necessario” per vivere: Gesù va proprio a questa realtà necessaria all’uomo, ma semplice e umile, per rivelare qualcosa di sé. Gesù dice che lui stesso è pane, un pane per la vita, un pane che non viene dagli uomini, che gli uomini non possono darsi, ma viene dal cielo, da Dio.
Sono parole che dobbiamo contemplare, non spiegare, perché non riusciamo ad accoglierle in pienezza. Se noi vogliamo vivere della vita vera, non solo della nostra vita biologica che va verso la morte, dobbiamo mangiare il pane che Gesù ci offre, se stesso. Tutta la sua vita, tutta la sua azione, tutte le sue parole, dalla nascita a Betlemme fino alla morte di croce, tutto è innestato nella vita del Figlio da sempre e per sempre nel seno del Padre, e perciò è vita eterna che viene offerta a noi, se siamo in ricerca, affamati di questa vita. Attenzione: questa vita non è solo vita divina, in vista di una divinizzazione, ma è anche la vita umana di Gesù, la vita da lui vissuta nella carne fragile e mortale che aveva assunto nascendo dalla vergine Maria. Quella vita umana vissuta per amore di noi uomini in questo mondo, vita di un uomo che l’ha spesa, consumata fino alla morte di croce, è per noi cibo di vita per sempre.
Anche noi, come quegli ascoltatori giudei, siamo perlomeno turbati di fronte a una tale affermazione: come è possibile che un uomo ci dia la sua carne come cibo? Questa è una follia! Eppure Gesù non ha paura di scandalizzare con un’affermazione così forte; anzi, commentandola la rende ancor più scandalosa: “Se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita”. Linguaggio duro, ma con il quale cerca di rivelarci che mangiare il pane eucaristico e bere al calice della benedizione è ricevere la realtà misteriosa (cioè nel mistero, nel sacramento) di Cristo, umanità trasfigurata nella resurrezione e vita divina del Figlio nel seno del Padre. Così nell’eucaristia la vita di Cristo diventa nostra vita e noi diventiamo corpo di Cristo, sue membra viventi, per lo stesso soffio che è lo Spirito santo. Questo è il “pane” che non si corrompe e che ci fa vivere per la vita eterna.
Non dobbiamo però dimenticarlo: tutto questo lo viviamo sacramentalmente, avendo davanti a noi pane spezzato e vino da bere. Ma il nostro occhio, se è abilitato dallo Spirito santo, discerne in quel pane e in quel vino il corpo e il sangue di Cristo. Noi ce ne cibiamo ed essi, entrati in noi, nel metabolismo eucaristico ci fanno diventare corpo del Signore. Questo è il grande mistero che noi innanzitutto adoriamo:
“la Parola si è fatta carne” (Gv 1,14) in Gesù;
la carne di Gesù si è fatta pane (cf. Gv 6,51);
il pane ci dà la vita eterna (cf. Gv 6,58).
Letture: Dt 8,2-3.14-16; 1Cor 10,16-17; Gv 6,51-59
Il libro del Deuteronomio -libro affascinante che evoca la marcia faticosa nel deserto e il dono inatteso di un’acqua da roccia durissima, di una manna sconosciuta ai padri- e la parola di Gesù: “Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”, ci salvano da un rischio che non è teorico: quello di ridurre la festa del Corpus Domini all’adorazione di un oggetto: una cosa da guardare estatici e immobili, quasi un reperto archeologico.
A volte ripenso a quella parola, piccola parola, con cui gli Ebrei hanno chiamato quel cibo inatteso dal cielo: Manna, manhu, che significa: che cos’è? E penso che era come una domanda iscritta per sempre, quasi non ci fosse fine alle risposte, alla sorpresa: che cos’è?
E penso anche che la stessa domanda dovrebbe essere iscritta per sempre nell’Eucaristia. E ogni volta che la prendiamo nelle mani e ne mangiamo, chiederci: che cos’è? Ripercorrendo la lettura del libro del Deuteronomio, potremmo innanzitutto dire che l’Eucarestia, come la manna, è dentro un cammino e dentro un ricordare. Non è primariamente -voi mi capite- non è primariamente un fatto di tabernacoli, tabernacoli della chiesa. O sì, se tabernacolo significasse tenda, la tenda della sua presenza, che si alza e si sposta più in là, quando si parte -e ogni giorno si parte-. Allora sì: Eucarestia nella tenda, nel tabernacolo della vita.
Dunque l’Eucarestia è legata, come la manna, alla storia della nostra vita, storia di traversate; si esce ma non si entra subito. Si esce dall’Egitto, ma non è subito Terra Promessa. E che cosa ti ricorda la manna? Che cosa ti ricorda l’Eucarestia? Ti ricorda che se vivi, se non sei morto di fame lungo i deserti della vita, se non ti sei fatto tu deserto, se non sei diventato tu terra inospitale, è perché è sceso qualcosa dall’alto.
È come riconoscere, confessare apertamente, pubblicamente, che se siamo vivi è per un Altro. È come riconoscere e confessare apertamente, pubblicamente, che se siamo sopravvissuti è per questo dono inatteso, che non è semplicemente un’ostia bianca, ma la presenza di Dio, di cui questa piccola ostia bianca è segno e tramite. Voi mi capite: questo riconoscimento della nostra pochezza, questa confessione di umiltà: viviamo, sopravviviamo per un Altro. E superiamo così un fraintendimento -ancora molto diffuso- che oggi scandalizza alcuni cristiani e li fa critici: critici nei confronti della lunga fila di coloro che la domenica si accostano alla comunione. E dicono: Ma che? Si sentono tutti santi? Tutti senza peccato? tutti degni?
Ma l’Eucarestia non è per chi è degno: “Signore, non sono degno”: diciamo. L’Eucarestia è una confessione di debolezza e di umiltà. Non è sbandieramento di una virtù, è riconoscimento della nostra pochezza. Qualcuno dall’esterno potrebbe prenderlo come un gesto magico: ma come, tu, uomo moderno, uomo evoluto, uomo disincantato, vai a prendere un piccolo pezzo di pane bianco? Sì, sei uomo moderno, evoluto, disincantato e riconosci che vivi in forza di un dono che viene dall’alto. Faccio un passo avanti: ma anche questa piccolezza insegna: una presenza, quella di Dio, legata a cose quotidiane, il pane, il vino, la tavola.
Ci ricorda, l’Eucarestia, che Dio non appare nei segni di una gloria sfolgorante, ma nella semplicità e nella povertà dell’incarnazione. È come se Dio, ogni volta che prendiamo l’Eucarestia, venisse a riabilitare le cose quotidiane, a dare senso alle cose quotidiane. Come dare senso? Col senso che Gesù ha iscritto, iscritto per sempre nell’Eucarestia, nel corpo dato, nel sangue versato. In questo pane, piccolo pane, splende, sì, splende, ogni volta che lo prendiamo e ne mangiamo, un segno: il segno di un Dio che si dona per la vita del mondo. Un Dio che fa vivere e non distrugge. E anche tu, nella vita quotidiana, sii tra coloro che fanno vivere, danno segni positivi, non tra gente che distrugge. Un Dio che si offre liberamente “offrendosi liberamente” -è scritto-: liberamente, per la gioia di farlo.
E se imparassimo anche noi da questo pane la gioia di fare il bene, ogni giorno, unicamente per questo, per la bellezza di farlo?
don Angelo Casati
http://www.sullasoglia.it
Lectio della domenica
SANTISSIMO CORPO E SANGUE DI CRISTO
Giovanni 6, 51-58
Nell’accettare Gesù, nell’assimilare la sua vita e la sua morte, come avviene nell’Eucarestia, noi assimiliamo la sua persona, la sua vita, il suo dono e così arriviamo alla terra promessa: la nostra realizzazione finale nella vita definitiva.
In quel tempo, Gesù disse alla folla: 51 «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».
Siamo al cap. 6° del Vangelo di Giovanni e a Cafarnao viene ambientata una profonda catechesi sul pane di vita (che noi cristiani interpretiamo naturalmente in chiave eucaristica). Gesù si è presentato come l’Uomo e come il Pane disceso dal cielo. Gesù è il pane disceso (katabás) con riferimento al momento iniziale della sua storica presenza nel mondo; apre così un periodo di tempo che terminerà con il dono di se stesso, (“il pane che io darò…”) come pane e come carne nella sua morte. Con questa frase Gesù riassume tutto il suo pensiero precedente prima di precisare in che modo egli sarà alimento. È importante cogliere questo darsi di Lui, l’Uomo Gesù, la Parola diventata carne. In Lui Dio si esprime nella storia in modo unico. È nell’uomo e nel tempo che si trova Dio, che lo si vede e lo si accetta o si rifiuta. Insieme con Lui si procede verso la piena e definitiva rivelazione di Dio che secondo il Nuovo Testamento, sarà al compimento di questo tempo. Dio non è nell’“aldilà”, si è reso presente in Gesù. I Giudei che pensano al Dio dell’“aldilà”, sono scandalizzati dalla carne. Non credono che Dio possa essere visto e toccato.
52 Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?».
È chiaro perché gli ascoltatori di Gesù, una moltitudine proveniente dal giudaismo, rimangono fortemente perplessi di fronte alle sue parole al punto di litigare tra loro (emáchonto). Alla loro precedente domanda: “Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?” (Gv. 6,28) non viene risposto che: “si convertano a Dio” (risposta logica da parte di ogni profeta) ma che diano adesione alla persona di Gesù. Questa è l’opera di Dio: Gesù il pane disceso! La menzione della carne li ha disorientati e al tempo stesso ha tolto loro sicurezza. Finché Gesù si è mantenuto nell’immagine del pane, potevano ancora interpretare che egli si presentava come un maestro di sapienza inviato da Dio. Ma Gesù ha precisato che questo pane è la sua stessa realtà umana, non una dottrina. Essi non comprendono che cosa possa significare “mangiare la sua carne”.
53 Gesù disse: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. 54 Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno.
Gesù non è per nulla conciliante nelle risposte. All’angosciato interrogativo: “come può costui darci da mangiare la sua carne?” Gesù risponde aggiungendo a “carne” l’elemento “sangue”. La separazione di carne e sangue esprime la morte: Gesù darà la sua carne morendo. Il linguaggio usato da Gesù se interpretato con la nostra mentalità, sarebbe stato di una violenza-pazzia estrema; invece la moltitudine di provenienza giudaica comprende che è un linguaggio duro per tutto quello che occorre per metterlo in pratica, non per la comprensione di ordine intellettivo. Hanno capito che il programma di donazione di sé estrema che Gesù propone è duro. È duro (sklērós=è troppo gravoso) perché rigido, aspro, esigente per la pratica.
55 Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda.
Il contesto eucaristico in cui Giovanni si muove sta per essere formulato con maggiore chiarezza. L’Eucarestia apparirà sotto un duplice aspetto: come nuova manna, alimento che dà forza e vita, veicolo dello spirito, e come nuova legge, che è realtà non per mezzo di un codice esterno, ma per l’identificazione con Gesù che porta ad una dedizione simile alla Sua.
56 Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui.
Gesù è una realtà interiorizzata (mangiata). La comunione intima del discepolo con Lui cambia la propria realtà interiore. Appare per la prima volta l’espressione: “rimanere con me/in me” che costituirà uno dei motivi principali dell’immagine della vite come nuova comunità umana (Gv. 15,4.5.7). Restare nella vite equivale a restare nell’amore.
57 Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me.
La vita che Gesù possiede procede dal Padre (1,32: “Ho contemplato lo Spirito discendere come colomba dal cielo e rimanere su di Lui”) ed Egli vive per il Padre, vale a dire in totale dedizione al disegno di Dio (4,34) che è dare la vita al mondo. Disponendo Egli stesso della vita, la comunica ai suoi; l’atteggiamento di questi ultimi deve essere la dedizione allo stesso disegno. Lo stesso vincolo di vita che esiste fra Gesù e il Padre si ripropone tra i discepoli e Gesù, come dono di vita ricevuta e ridonata.
58Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno”.
Si chiude il tema della manna, cominciato nella pericope precedente (6,31). Esistono due pani: la manna e la sua persona. Il primo: la manna non poté completare l’esodo, non condusse quelli che la mangiarono fino alla terra promessa (6,49); il secondo: Gesù invece conduce fino al compimento: “chi mangia questo pane vivrà in eterno”.
“Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna ed io lo risusciterò nell’ultimo giorno”
La “carne” (sárx=equivalente greco del termine ebraico basâr) ha una connotazione più storica (indica la vita storica e mortale di Gesù). “Mangiare la sua carne” è fare propria la vita mortale di Gesù e “bere il suo sangue” è assomigliare tanto a Gesù da arrivare alla sua stessa totale offerta di sé, amare cioè fino alla morte che è la manifestazione massima dell’amore.
Pertanto l’unica linea per lo sviluppo umano è seguire la linea di Gesù, la linea dell’amore. Questo amore non si scoraggia mai, non si ritrae, esso è l’amore fedele ed arriva fino a dare la vita. Questo principio che l’evangelista pone in termini cristiani è valido per tutti. Una persona qualsiasi, cristiana o no, mussulmana, buddista o di altre religioni o filosofie, si svilupperà come persona se segue la linea dell’amore come indicato e vissuto da Gesù. Crescere noi stessi e far crescere gli altri è il lavoro cristiano e umano. La crescita di ogni uomo è assicurata: basta fare l’opzione per Gesù e seguire la linea dell’amore. Se si desidera approfondire quello che Gesù propone, allora si crescerà: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue” (v.56) quello è colui che cresce fino ad arrivare alla pienezza di Figlio di Dio, fino ad assomigliargli. “E il Verbo si fece carne”(Gv 1,14), cioè il progetto di Dio si è realizzato in un essere umano mortale.
La “carne” è ciò che di transitorio, debole e passeggero c’è nell’essere umano. La grande debolezza della carne è quella di subire la morte. Per questo motivo dopo la “risurrezione” si parla di “corpo” in quanto presenza, attività, identità e di “anima” in quanto essere conscio e consapevole, ma la “carne” non c’è più (parliamo del vangelo di Giovanni). “Questo è il mio corpo”, cioè questa è la mia persona in quanto presenza ed attività. E siccome l’attività che ha svolto lungo il suo ministero è stato il servizio, la donazione agli altri, questo si applica al suo “corpo” che è la sua vita nel mondo, una vita di donazione che si è manifestata nel servizio.
La “Legge” non ha più posto alcuno: il pane che dà la vita, che permette all’uomo di vivere è Gesù stesso (Gv. 6,48). Gesù si sostituisce alla “Legge” si converte nella nostra norma di vita. Quando Gesù offre del pane ai suoi perché lo mangino, intende dire di accettare Lui e il suo modo di comportarsi. La nuova norma per l’uomo non è più un codice scritto, ma una persona viva: la persona di Gesù. Così come Gesù si è comportato durante la sua vita, tale è la norma per noi! E questo è anche il pane: la norma per noi.
Il “sangue” come il “corpo” significa la persona viva e attiva, il “sangue” significa la persona in quanto si consegna alla morte. Il sangue versato ha sempre il significato di morte violenta. I discepoli, se bevono dal calice accettano la morte di Gesù = non si può ignorare che il significato del calice va unito a quello del pane. Non è possibile seguire Gesù nella sua vita se non lo si segue fino alla morte. Il discepolo non può dire: io pongo un limite alla mia donazione verso gli altri; bisogna saper donarsi, come Gesù, fino in fondo accettando anche di perdere la propria vita.
“Corpo e sangue”: non si può prendere il pane senza anche bere dal calice; non si può accettare la vita di Gesù se non si accetta anche la morte. La morte di Gesù è il coronamento della sua vita, il dono totale di sé che si manifesta con lo stesso spirito con il quale ha prestato servizio durante la sua vita. Questo è il nuovo codice normativo per l’uomo non un codice imposto dall’esterno ma dal di dentro, come diceva Geremia: “porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore” (Ger. 31,33). La comunità non è più retta da un codice di pietra, né da un libro, ma da una forza vitale che procede dal profondo del cuore.
Ad una folla indistinta, il Maestro annuncia, propone e dona la certezza di una presenza, un programma di vita ed un nuovo destino, per divenire persone, care ed amate. Un’immagine dei tempi antichi, di una storia di tutti, che rievoca una manna che discende, si trasforma ora in pane, di sapore che tutti conoscono, ma vivo e perenne. E anch’esso discende per donarsi agli uomini tutti, pronto per essere mangiato e assimilato, fino a farsi carne.
Esso è donato, per garantire la vita, per perpetuarla, per storicizzare relazioni tra donante e vivente, tra il Dio dell’amore e l’uomo della storia, tra l’Eterno e il tempo che va. Esso diviene l’incontro tra il Creatore, il Salvatore e il Santificatore e la creatura salvata nell’amore. È l’indice dell’azione divina e la risposta d’amore, della passione gioiosa dell’uomo.
Come è possibile? È la perenne azione creatrice divina che con il suo sangue dà energia alla carne/pane, cibo per l’uomo che mangiandone costruisce la sua risurrezione. È l’universale azione d’amore per tutti che possono, in ogni momento, attingere ed assaporare il sapore della salvezza, la novità della speranza, la comunione di desideri infiniti, rimanendo connessi al flusso di vita.
Date voi stessi da mangiare, aveva detto un giorno, a proposito di pani che crescevano e figuravano questo pane/carne di oggi, che Egli stesso dona e gratuitamente offre, così come offre perdono, amicizie, amore di Padre, di Fratello e di Amico divino.
http://www.ilfilo.org