Giovedì 27 febbraio 2020
Padre Antonio Dolzan è deceduto a Castel D’Azzano sabato scorso, 22 febbraio, all’età di 76 anni. Nato il 15 aprile 1943 a Rossano Veneto, ha speso la sua vita in missione in Africa, concretamente in Uganda e Kenya, in tutto 43 anni. Nel 2012 è rientrato definitivamente in Italia dovuto alle sue precarie condizioni di salute. Ieri 25 febbraio abbiamo celebrato il suo funerale. Le restrizioni imposte dal coronavirus non hanno permesso la solita partecipazione di familiari e confratelli.
“La vita è bella”
Omelia di P. Renzo Piazza
Questa mattina nell’ufficio delle letture S. Gregorio di Nissa ci ha detto: “Vi è un tempo per nascere e un tempo per morire”. Voglia il cielo che sia concesso anche a me di nascere al tempo giusto e di morire al momento più opportuno.
In quale momento il P. Antonio ha lasciato questo mondo? Mentre eravamo riuniti in salone per festeggiare il carnevale e la tromba del Coro AUSER, eseguiva le note de “La vita è bella”. Ironia della sorte… morire mentre la gente attorno a te inneggia alla vita! Sembra una contraddizione, ma in realtà è in linea con lo stile del P. Antonio. Quando gli si diceva una frase gentile o una parola di incoraggiamento, immancabilmente ti smontava, ricordandoti il cimitero, la tomba, la morte o il diavolo… Era il suo modo normale di reagire.
“Premesso che P. Antonio era di carattere apparentemente pessimista, è stato un grande uomo”, scrive il P. Giancarlo Guiducci che è stato suo compagno di comunità per tanti anni in Kenya a Kacheliba e Amakuriat. Toccava a lui ricordare il P. Antonio quest’oggi, ma le restrizioni a proposito del Coronavirus non gli hanno permesso di essere tra di noi per l’ultimo saluto a un caro compagno di viaggio e di missione.
La vita missionaria di P. Antonio, ci scrive, si è svolta inizialmente in Uganda per 5 anni e quindi in Kenya per 38 anni. È stato lui la mente dello sviluppo fra i Pokot nel Kenya. Sembra che la missione dell’Uganda dove era stato inviato inizialmente fosse considerata da lui come già troppo evangelizzata, e ha preferito andare in Kenya, dove si apriva una nuova missione tra i Pokot, che all’epoca era vera missione di frontiera. In seguito è andato ad Amakuriat, nata dalla divisione di Kacheliba. P. Antonio ha passato la sua vita missionaria in questi due luoghi. La maggior parte delle scuole nella zona di Kacheliba e Amakuriat debbono a lui il loro inizio, come le cappelle delle due missioni.
Prima pensava in quale area poteva iniziare, sempre dove c’era possibilità di trovare l’acqua, poi invitava gli anziani, parlava con loro e concordava il modo e il luogo dove incominciare un piccolo asilo. Quindi indicava qualche giovanotto che era stato a scuola, possibilmente del luogo, che potesse iniziare a radunare i bambini.
Si iniziava all’ombra di un albero, poi si costruiva un’aula che serviva anche da cappella in fango e pali. Se l’iniziativa prendeva piede da asilo si passava a scuola e si interpellava il governo locale che interveniva mandando i maestri.
Così sono nate e sono prosperate la maggior parte delle scuole primarie in quella zona. A P. Antonio si deve anche la prima scuola secondaria: la volle fortemente. Parlava correttamente il Kiswaili e si preparava per ogni tipo di discorso o lezione che doveva fare.
Con il confratello con cui condivideva la missione si lamentava spesso dei maestri e dei catechisti ma quando era di fronte a loro era sereno e gentile. Chissà dove prendeva la forza per controllarsi in quel modo.
A modo suo era umile. Non ha mai voluto essere nominato superiore, anche se di fatto ha dovuto prendersi la responsabilità in varie circostanze. Un giorno aveva confidato con rammarico: “Quando mi rendo conto di aver sbagliato, io non sono capace di fare retromarcia…” In realtà poi si faceva perdonare ed era capace di smussare le angolature e ricomporre le buone relazioni.
Questo è quanto il confratello ha scritto di lui.
Ritorniamo alla tromba, evocata da Paolo nella prima lettura: “Al suono dell’ultima tromba – essa infatti suonerà – i morti risorgeranno e noi saremo trasformati. Questo corpo corruttibile e mortale si vestirà di incorruttibilità e immortalità”. Parole forse un po’ difficili, ma esprimono la nostra fede nella risurrezione.
Antonio, da quando era tornato dalla missione, portava nel suo corpo indebolito i segni della fragilità e della fatica esteriore ed interiore. Alcuni suoi commenti negativi e persistenti lasciavano trasparire ferite, amarezze e delusioni. Ma sappiamo che solo uno che ama molto può essere molto deluso.
“Io sono qui esposto alla morte per servire il mio Gesù, – diceva Comboni – fra le pene e le croci, contento di morire per salvare i poveri neri, e per essere fedele alla mia vocazione ardua, difficile e santa. Io sono stupito nel vedermi trattato così… in mezzo a tante croci, che mi pare in coscienza di non meritare…”
Forse P. Antonio si rispecchiava in queste espressioni del nostro Santo fondatore, esperto in croci, incomprensioni e contrarietà. Noi oggi siamo convinti che tutto questo è passato ed è stato vinto da Gesù Crocifisso, morto, risorto e vivo nella sua Chiesa e nella testimonianza del suo discepolo che lo ha amato e servito.
In questi ultimi mesi siamo stati tutti testimoni della “passione” di P. Antonio, del degradarsi del suo corpo, dalla crescita della sua debolezza, e l’aumento delle fragilità. Chi non ricorda il suo vestirsi da inverno in piena estate, con i guanti di lana, il suo piegarsi sulla carrozzina con il “volto chinato a terra”, le sue posizioni strane nel letto, con le gambe a cavalcioni sulle spondine… Quello era il corpo del missionario del vangelo, coraggioso e intrepido, iniziatore della missione tra i Pokot?
Vogliamo oggi rendere omaggio a quel corpo che è stato consacrato con l’unzione, offerto a Dio per l’annuncio del vangelo, ai “piedi belli” di colui che ha annunciato la pace, al cuore che ha amato, alle mani che hanno servito. Lo vogliamo mettere nelle mani del Padre, che hanno accolto lo spirito di Gesù e che oggi possono accogliere la vita intera di P. Antonio.
Giuseppe d’Arimatea ha chiesto e ottenuto da Pilato il corpo di Gesù crocifisso per onorarlo con una degna sepoltura. Anche P. Antonio ha diritto ad una sepoltura degna e siamo contenti di poter incensare il suo corpo prima di consegnarlo alla terra e alle mani del Padre. Il suo è il corpo del discepolo che non si è risparmiato, che si è speso per i piccoli e i poveri e che ora spera nella ricompensa del “servo inutile”: poter stare con Gesù per sempre e riposarsi contemplando il volto di Colui che lo ha amato e ha dato se stesso per lui, prima di inviarlo ad annunciare il suo nome alle genti.
Riposa in pace, P. Antonio.
[Combonianum]