Roma, mercoledì 1 agosto 2012
Si chiamo Paolo Rizzetto, 34 anni. È nato a San Donà di Piave (Venezia/Italia). È l’ultimo dei sei figli di Alberto Rizzetto e Rosa Cerchier. Ha sempre vissuto nella sua città natale, fino al momento degli studi universitari. Ha partecipato ai gruppi giovanili nel movimento dell’Azione Cattolica, nell’Oratorio dei Salesiani di Don Bosco. Per l’università si è mosso a Padova, dove, da allievo interno del Collegio “Don Mazza”, ha studiato medicina e chirurgia. Oggi è nel Sudsudan. Fratello Paolo è stato intervistato da P. Jorge Garcia Castillo.
La prima cosa che ti chiedo è come sei entrato in contatto con i comboniani, perché hai scelto di diventare medico e poi comboniano e fratello.
Durante il secondo anno di studi universitari ho conosciuto i Missionari Comboniani ed in particolare i candidati postulanti della comunità di Padova. Ho partecipato al gruppo di spiritualità missionaria e discernimento vocazionale, durante il quale ho maturato la decisione di diventare Religioso. Mi attirò subito la vocazione di Fratello Missionario. Sono entrato in Postulato nel settembre del 2000 ed ho continuato gli studi di medicina, che ho terminato nel 2004 con la laurea e l’esame di stato nel 2005. In quell’anno vissi anche la mia prima esperienza di lavoro, in un ospedale missionario in Uganda. Il posto si chiama Matany e si trova tra i pastori semi-nomadi Karimojong. Sono rientrato nello stesso anno per il noviziato a Venegono Superiore (Varese). Dal maggio 2007 sono un Fratello Missionario Comboniano. La mia prima destinazione fu ritornare nella prima missione africana che avevo conosciuto: Matany. Ho vissuto lì due 2 anni di servizio missionario e ho praticato la professione medica.
Quando e per quale motivo sei stato inviato al CIF di Nairobi?
Alla fine di questo primo servizio missionario la Direzione Generale mi ha inviato a Nairobi, al Centro Internazionale Fratelli, dove i Fratelli Missionari Comboniani, nel periodo dei Voti Temporanei sono chiamati a seguire un programma formativo particolare che integra la loro professione nel campo della promozione umana. Questo periodo formativo viene a costruire l’integrazione ministeriale della nostra vocazione religiosa e missionaria. La comunità comboniana è costituita prevalentemente da Fratelli che studiano al Tangaza College nell’Istituto di Social Ministry, con la possibilità di ottenere un diploma, un baccalaureato o un Master in materie concernenti la promozione umana, i diritti umani, i temi della giustizia e della pace e la Dottrina Sociale della Chiesa. Allo stesso tempo, con la vita comunitaria e lo studio, si cerca di vivere un’esperienza di servizio in realtà di marginalizzazione. Io ho svolto un servizio in un progetto di terapia domiciliare, per persone con HIV/AIDS, nella baraccopoli di Korogocho. Il progetto è gestito dalle Suore Missionarie Comboniane. I comboniani sono presenti con una comunità dentro la baraccopoli e seguono il progetto pastoralmente.
Quali sono stati i momenti più belli e significativi nel tuo cammino formativo e pastorale in quella situazione disagiata e per tanti versi di povertà estrema?
La Comunità del CIF è molto accogliente ed ognuno di noi è stato invitato a scoprire i propri doni e a metterli a disposizione degli altri. L’equipe formativa è sempre stata molto attenta alle esigenze del gruppo e degli individui. Ho respirato un’area di famiglia ed un clima di rispetto e fiducia. Il percorso studi mi ha aiutato a sviluppare una mentalità analitica dei problemi sociali oltre a fornirmi le risorse della conoscenza dei diritti umani e la Dottrina Sociale della Chiesa. Accompagnare le persone con HIV/AIDS è stato un privilegio ed una lezione di vita.
Ricordo con grande affetto il volto di Winnie, una ragazzina fragile, talvolta debole, spesso “testona” (più volte l’ho chiamata così) ma dolcissima. È difficile sganciare la malattia da quel certo alone di condanna che l’accompagna, “perché è una malattia del vizio, del cattivo comportamento…”. Per la persona stessa, scoprire la propria sieropositività è una verità dura. Per Winnie questo è sempre stato un peso molto grande. Per noi è stato difficile farle capire che non ci interessava come l’avesse presa (e chi può giudicare, dopo tutto?) ma che il nostro desiderio era aiutarla a prendersi cura di sé stessa.
Ripenso al Volto di Faith, dodicenne, probabilmente ammalatasi durante la gravidanza della mamma. Ora è orfana e ha trovato un opportunità di inserirsi nel progetto Bomas Rescue, per ragazzi e ragazze a rischio. È stata affidata a noi per le cure mediche e ho mostrato da subito grande fiducia e pazienza. Penso che tutto lo staff le si sia affezionato. Quando fummo costretti a ricoverarla in un centro più attrezzato, non è passata settimana senza chiederci l’un l’altro informazioni sul suo stato di salute, e se avesse avuto problemi con le medicine… Finalmente, Faith ha trovato anche una mamma: Pamela, una giovane donna che si è fatta carico di lei, offrendole un tetto ed una famiglia. È migliorata tantissimo, ha ripreso peso e sta crescendo. È stata la prima della sua classe. Ha un sorriso bellissimo. Penso sia stato soprattutto l’Amore a fare il miracolo.
E poi il Volto di Jackline, che ha ritrovato la gioia dopo aver sbattuto contro la dura realtà di essere ammalata. Piangeva disperata il giorno del test: forse non era la prima volta che lo faceva… altre volte in passato, prima di venire da noi. Non lo aveva ancora accettato, forse perché la malattia aveva spazzato via altri nella sua famiglia. Ma non si poteva più negare la realtà. In quel momento l’abbiamo accolta semplicemente tra le nostre braccia e l’abbiamo lasciata sfogare. Era di questo che aveva bisogno, più che delle medicine: un abbraccio amico e la promessa di non essere abbandonata. L’abbiamo rivista pochi giorni dopo. Era raggiante. Mi resi conto, di quanto fosse bella. Il suo stupendo sorriso fu il dono più bello! Purtroppo, Jachie era anche molto fragile. Ci chiese di poter andare a casa (a Korogocho, molte persone mantengono importanti relazioni nella provincia d’origine: fuori Nairobi ma ancora casa per loro). Accettammo, certo dopo aver lasciato le raccomandazioni del caso, ma abbastanza fiduciosi. Purtroppo Jackline non ritornò indietro. Si ammalò, lì dov’era e non ce la fece. Mi domando spesso se avessimo fatto bene a lasciarla partire. Voglio credere, che nel poco tempo trascorso con noi, siamo riusciti a mostrarle, con tutti i nostri limiti, un po’del volto amorevole di Dio, nella sua vita. E sono convinto, che Jackie è per noi un dolcissimo angelo che ci protegge dal grembo di Dio.
Come era la realtà con la quale eri in contatto in Kenya?
Non ho conosciuto molto del Kenya se non la realtà complessa e variegata della sua capitale, Nairobi, una città con quasi 4 milioni di abitanti di cui almeno 2 milioni vivono in baraccopoli. Ce ne sono 200 in tutta Nairobi. Esiste un grande problema di disoccupazione e l’inflazione è molto lata. Questo ha creato un grande divario tra i più ricchi (pochissimi) e coloro che vivono in condizioni di povertà estrema. C’è il problema della corruzione a vari livelli, ma anche tanta voglia di riscatto da parte della popolazione, che nel 2010 ha ottenuto una nuova Costituzione.
La realtà dello slum è ricca di contraddizioni e purtroppo è un ambiente dove la comparsa di nuove infezioni, per quanto riguarda l’HIV, è più frequente e la progressione della malattia verso i suoi stadi più avanzati (AIDS) è più rapida. Tutto questo va a braccetto con povertà (non solo materiale) e violenza. Una stima di questo a Korogocho viene data dai risultati delle campagne di “screening” della popolazione su base volontaria: viene chiamato “test porta-a-porta”. I villaggi dove si sa esistere più violenza o più alcolismo sono quelli con la più alta prevalenza di infezione, tra quelli che formano Korogocho: talvolta le stime raggiungono il 16-20% della popolazione visitata. Oltre alla provvisione di servizi di diagnosi cura e prevenzione, una componente importante del progetto è quella formativa.
Un’importante risorsa è rappresentata dall’impegno degli Agenti di Salute volontari. Sono loro l’anello di congiunzione tra i servizi del Progetto e le persone infette ed affette. Senza di loro non si potrebbe fare niente. Essi sono gli artefici del primo contatto: sono loro a stabilire ed accrescere la fiducia e la speranza della nostra gente. Queste persone ricevono una formazione che li permette di riconoscere i principali sintomi delle affezioni della gente e quindi di offrire un primo supporto. Essi imparano come riconoscere situazioni che richiedono l’attenzione di un professionale e stabiliscono il necessario contatto.
Un altro aspetto del Progetto è la formazione degli agenti di salute “familiari”. Parlando di una malattia cronica, è necessario, soprattutto in un ambiente come Korogocho, poter garantire che le persone ammalate siano seguite a casa, riducendo i ricoveri in ospedale, che comunque sarebbero un peso per la famiglia. Con mio grande stupore ho scoperto che nella maggior parte dei casi, chi si prende cura dei malati a casa sono… i bambini! Bambini/e dagli otto ai sedici anni sono accolti nel progetto e ricevono un minimo di formazione infermieristica che permette loro di provvedere, nei limiti del possibile ai bisogni degli ammalati o almeno di riconoscere quando è necessario riferire l’ ammalato all’attenzione di mani più esperte o all’ospedale. Ciò che colpisce è vedere bambini/e e ragazzi/e prendersi cura dei propri genitori, con grande amore e spirito di servizio.
Una grande attenzione è posta sull’aspetto spirituale: un equipe è incaricata di accompagnare pastoralmente gli ammalati e mettersi in contatto con la Comunità dei Missionari o delle guide spirituali di altre denominazioni per assistere gli ammalati con la preghiera ed i sacramenti.
Cosa hai potuto fare come medico e come missionario in Kenya? Dove? Con chi?
Quando sono entrato nel progetto, mi è stato chiesto in quale settore volessi operare. Ho scelto di stare nel Programma dei bambini (Huduma ya Afya) e di visitare i pazienti a casa accompagnando gli Agenti di salute. Queste due attività danno la possibilità di comprendere la realtà dello slum da una prospettiva unica: quella del cammino, fianco a fianco.
Condividere le conoscenze ricevute dagli studi medici con dei bambini, persone, che notoriamente non avrebbero accesso ad esse (o non dovrebbero avere accesso), è stato per me un privilegio. In questo tempo ho cercato di dare il mio contributo alle loro “lezioni”, cercando di utilizzare un linguaggio semplice e… di non essere noioso! Comunque sono sempre rimasto molto colpito dalla loro intelligenza e dalla prontezza nel rispondere. Un semplice manuale di “Assistenza Domiciliare” è stato messo insieme grazie al loro contributo ed ai loro disegni.
Dall’inizio del 2010, sono stato più coinvolto nelle visite a domicilio. Forse sono l’aspetto del nostro servizio che mi appassiona di più. Ci danno la possibilità di incontrare la nostra Gente in maniera molto familiare. Per me è anche un occasione per camminare con qualcuno dei nostri infermieri, lavorare fianco a fianco con loro e imparare a conoscerli più a fondo. Sono sempre più convinto che il nuovo nome della Missione sia un NOI sincero. Oggi più che mai siamo chiamati a lavorare in rete, in collaborazione. Lo sento molto nell’ambiente dove lavoro. Anche perché non sono in grado di comunicare nella lingua locale. La presenza dello staff e degli Agenti di Salute mi aiuta molto. In più mi piace l’idea di camminare come una piccola comunità itinerante per i viottoli di Korogocho.
Molti di noi missionari diciamo tante volte che sono più le cose che riceviamo dalla gente di quelle che noi li diamo. E’ stato così nel tuo caso? Raccontaci concretamente qualche esempio.
Sono entrato in un progetto sanitario già ben avviato e il mio contributo è stato piccolo, rispetto all’impegno di tanti agenti di salute volontari e professionali che stanno con i malati nella baraccopoli tutti i giorni.
In particolare, sono stati proprio i volontari – solitamente “mandati” dalle piccole comunità cristiane a prendersi cura dei malati – a colpire di più la mia attenzione. Alcuni di loro sono malati essi stessi. Ciò che mi ha stupito è stata la compassione mostrata, l’intensità dei momenti di spiritualità vissuti assieme alle persone ammalate e la bellezza di un contatto umano, una carezza o un abbraccio a chi e da chi per tanti versi è stato emarginato, lasciato ai bordi della società.
Una nostra volontaria, di nome Marren, ha testimoniato di essere stata motivata a divenire agente di salute quando lei stessa, così ammalata da non potersi alzare dal letto, fu accudita dai volontari. “In quel momento – ci disse – decisi di diventare anch’io un’agente di salute: volevo essere anch’io come le persone che mi avevano curato!”
Fr. Paolo Rizzetto e Fr. Daniele Giusti, entrambi medici.
Ora vai in una realtà molto diversa (Sudsudan) ma ugualmente povera e difficile. Cosa speri di poter fare?
La Direzione Generale mi invia in Sudsudan. Sono molto eccitato ed onorato di andare nella terra dove la missione comboniana è cominciata, anche se sono anche un po’ preoccupato della difficile situazione sociale che si sta vivendo all’indomani dell’indipendenza del nuovo Stato, la Repubblica del Sudsudan.
Mi è stato chiesto un servizio di accompagnamento nella formazione di infermieri, in un progetto gestito in cooperazione con diverse congregazioni religiose. Rimango nel campo della salute ma più nel ramo della formazione. Formare agenti di evangelizzazione e promozione umana nella chiesa e società locali, faceva parte del piano di San Daniele Comboni, come anche l’interessamento di diversi agenti di pastorale missionaria. È tutto molto entusiasmante ma rimane l’incognita di quello che potrò fare concretamente. Credo molto in questo aspetto di formazione. Spero di fare la mia parte e di imparare ancora. So che non sarò da solo come sempre è stato nella mia seppur breve esperienza missionaria.
Sei felice della tua vocazione? Per quali motivi?
Sono molto felice di essere Fratello missionario comboniano. Al di là dei normali limiti ed ostacoli che vivo quotidianamente, cercando di essere fedele alla vocazione ricevuta – molti dei quali derivano dal semplice fatto di essere umani e talvolta dall’ostinazione di voler essere perfetti a tutti i costi –, sono felice dell’opportunità di poter condividere la fede e la fratellanza con altre persone e altri popoli. È un’esperienza che apre molti orizzonti e mi ha aiutato a conoscermi meglio.
Essere Fratello vuol dire per me stare con la gente nella quotidianità fatta di gesti, processi e anche di lavoro e trovare in essi la presenza del Regno di Dio. È scoprire una Parola viva, che libera nella quotidianità. È la bellezza di appartenere a qualcosa di grande, anche se il mio contributo non è che una infinitesima parte di questo tutto. Eppure sono chiamato a credere che anche questo contributo è importante.
Questo cammino mi ha aiutato a guardare con più misericordia a me stesso ed ad imparare spesso dagli altri a perdonare ed ad essere vicini a chi è rimasto indietro. Spero che tutto questo mi porti a capire e a vivere sempre di più quel “fare causa comune” che San Daniele Comboni ci ha lasciato come viva eredità.
Se un giovane (ragazzo/ragazza) ti chiede se vale la pena consacrare tutta la vita alla missione, cosa le risponderesti?
C’è una Parola che da un po’ di tempo mi accompagna. È un passo del Profeta Michea (6,8) dove si dice “Ti è stato insegnato ciò che è bene e ciò che il Signore vuole da te: praticare la giustizia, amare con tenerezza e camminare umilmente con il tuo Dio.” Credo che queste parole si possano applicare tanto alla vita religiosa che a quella laicale. Queste parole possono essere lette e vissute dal singolo e da una comunità. Nella prospettiva missionaria esse richiedono di mettersi in dialogo con un “Tu” che è altro, rispetto alla nostra esperienza. Questo può essere il cammino di una vita. Tutti siamo chiamati a scoprire la strada. Credo che Dio non ci lascia soli se lo cerchiamo come compagno di viaggio.
Jorge Garcia Castillo, mccj