“I miei cinquant’anni di sacerdozio e di vita missionaria sono stati anni molto pieni e belli e di essi voglio veramente ringraziare di cuore il buon Dio che mi ha dato davvero tanto nei ventitré anni passati in missione, in Uganda e in Etiopia, nei diciassette in Inghilterra, a Londra e a Elstree, e nei dieci anni a Roma come procuratore generale… Cinquant’anni di sacerdozio non sono pochi e di tutto ringraziamo il Signore, proprio di tutto, senza lasciar fuori niente! Cinquant’anni di vita missionaria ci hanno imbiancato i capelli, ma spero che ci abbiano lasciati pieni di gratitudine e di gioia e fatti tutti quanti più saggi, più buoni e misericordiosi” (da alcune riflessioni scritte nel 2002, in occasione del suo cinquantesimo di sacerdozio).
Gli anni della formazione
P. Antonio Valdameri era nato a Pieranica, in provincia di Cremona, il 30 gennaio 1928. Entrato da ragazzo nei seminari comboniani di Crema e di Brescia, continuò il suo percorso nel noviziato di Venegono, dove emise i primi voti il 15 agosto 1946. Dopo lo scolasticato a Rebbio, Sulmona e Crema (dove era anche “prefetto” dei ragazzi) e, l’ultimo anno, a Venegono, fu ordinato sacerdote il 7 giugno 1952. “Ho un ricordo indelebile dell’ordinazione nel duomo di Milano dalle mani del beato Cardinale Schuster; le sue parole nell’omelia – Posui vos ut eatis... Vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto (Gv 15,16) – mi hanno accompagnato in questi 50 anni”, scriveva in occasione del cinquantesimo di sacerdozio.
Completò la sua preparazione nel campo della formazione nel 1971, con l’anno di specializzazione a Roma, dove frequentò l’Istituto Superiore di Teologia presso l’Università Pontificia Salesiana (UPS) laureandosi a pieni voti (magna cum laude).
Prima destinazione in Inghilterra
Nel 1952 ricevette la sua prima – inaspettata – destinazione, la London Province, dove ebbe la fortuna – come disse lui stesso – di incontrare e conoscere, proprio nei primi anni di sacerdozio, P. Ugo Toninello, “una persona di profonda umanità e bontà, un’umanità che si sentiva sempre un po’ stretta nelle rigide regole e strutture clericali di allora! Da lui ho certamente imparato ‘la misericordia’ e forse anche a essere un po’ libero da schemi troppo stretti!”. “La gente va aiutata quando ne ha bisogno, non quando pare a te”, ripeteva spesso P. Antonio. In Inghilterra fu anche economo provinciale.
Uganda
Nel 1961 fu destinato all’Uganda, a Padibe, sua prima esperienza di missione, ma nel gennaio del 1967 fu espulso con altri dieci Comboniani. “Avevo dato forse troppo nell’occhio e fastidio a qualcuno col mio darmi da fare per aiutare in tutti i modi i rifugiati del Sud Sudan che, passando da Padibe, mi chiedevano aiuto. Nella mia vita non ho mai detto di no a nessuno e non me ne pento, anche se a volte ho avuto qualche grana”.
Formatore nello scolasticato di Elstree
Destinato all’Etiopia, s’impegnò per circa due anni nella parrocchia di Fullasa, ma dopo questo breve periodo fu chiamato a Roma per un anno di specializzazione e mandato poi come padre maestro in Inghilterra. “Ricordo che P. Bartolucci commentò al riguardo: ‘Ora, certamente, l’Istituto cambierà!’. Siccome poi, per vari motivi, il padre maestro non l’ho fatto, mi resta almeno la consolazione di aver ritardato di qualche anno i traumatici cambiamenti dell’Istituto. Sono però andato a fare il formatore nello scolasticato di Elstree con P. Poda”.
Di questo periodo abbiamo la testimonianza di P. Paul Felix. “P. Antonio era un uomo buono, generoso e gentile con un grande, grande cuore. E questo, credo, è quello che aveva scelto consapevolmente di essere, in quanto rispecchiava fedelmente la sua comprensione dell’amore di Dio vissuto nella propria vita. Lo incontrai per la prima volta nello scolasticato di Elstree, nel 1975. Lui e P. Giuseppe Frigerio sarebbero stati i miei due formatori per due anni. Mi ritengo davvero fortunato di essere stato guidato da loro, due persone dotate e motivate. Si completavano a vicenda molto bene come formatori, come confratelli e come personalità: P. Antonio più impulsivo e intuitivo e P. Giuseppe più deliberativo e riflessivo. Entrambi, tuttavia, sapevano concentrarsi su ciò che era meglio per gli studenti e si preoccupavano di far emergere in loro ciò che avevano dentro, piuttosto che cercare di far apparire un modello predeterminato. L’atmosfera che avevano creato nello scolasticato era allo stesso tempo matura, calda, impegnativa, incoraggiante, appagante e... felice. Niente era di troppo disturbo per loro e qualunque fossero i problemi che riscontravano negli scolastici, meritavano sempre la loro attenzione individuale o congiunta. Le decisioni prese non erano sempre facili e spesso richiedevano grande coraggio e grande fede per essere messe in atto. Avranno anche commesso degli sbagli, ma posso dire che il loro rispetto incondizionato e la preoccupazione per il bene degli studenti hanno permesso a quegli errori di essere ‘redenti’ da Dio. Sono vissuti e hanno compiuto un servizio nella consapevolezza di quanto Dio ami ciascuno di noi. Questo ha fatto emergere la loro vera identità missionaria”.
“Nel 1977 – continua P. Paul – P. Antonio fu assegnato all’Etiopia e, prima di partire, mi lasciò scritto, sul primo foglio che gli era capitato in mano, la sua valutazione su di me, una sorta di correzione fraterna. Ancora oggi conservo quel foglio e devo dire che ciò che aveva scritto nel 1977 è altrettanto valido anche oggi! Le nostre strade si sono poi incrociate varie volte nel corso degli anni e ogni volta che accadeva c’era sempre qualche piccola lezione da imparare: la gentilezza di P. Antonio verso i confratelli in difficoltà, la sua generosità verso i poveri, il suo rispetto per gli altri, il suo impegno per il Vangelo, la sua umiltà, il suo entusiasmo nel condividere l’amore di Dio, il suo attaccamento alla preghiera e alla Messa, la sua ‘necessità’ di mettere la scure alla radice dell’albero – sia materialmente che metaforicamente –, la sua disponibilità a non aver paura di sporcarsi le mani”.
Secondo periodo in Etiopia
Ritornato in Etiopia, P. Antonio vi rimase per quindici anni. “Anche questi sono stati anni bellissimi. Ho fatto di tutto. Nel tempo libero ho persino costruito un seminario e ho avuto la consolazione di partecipare alla sua apertura ufficiale quando ormai ero già a Roma come procuratore. Mons. Gasparini mi aveva invitato perché – diceva – era più che giusto che fossi presente: senza il mio darmi da fare, infatti, quel seminario non sarebbe mai nato. Sono stato felice di partecipare al battesimo del ‘figlio della mia vecchiaia’!”.
P. Pietro Ravasio, nella sua testimonianza per il periodo 1968-1970 in Etiopia, nel Sidamo, e poi, per il periodo 1993-2000, a Roma, scrive: “Sia nella missione come nell’ufficio di procuratore presso la S. Sede qui a Roma, la sua apertura e la sua disponibilità erano caratteristiche che tutti hanno ammirato. Già da questo, comincia a delinearsi la sua fisionomia spirituale, una fisionomia com’era stata sognata da Comboni che voleva che i suoi fossero ‘un cenacolo di apostoli’. Pensando alle molte comunità in cui sono passato, se i confratelli avessero avuto l’uno per l’altro la stessa carità, generosità e preoccupazione che aveva P. Antonio, certamente le comunità sarebbero state più coese e l’aspetto fondamentale della tradizione comboniana sarebbe stato un valore riconoscibile anche all’esterno della comunità”. Per quanto riguarda il secondo periodo in Etiopia di P. Antonio, dal 1977 al 1992, P. Ravasio, anche se in quegli anni era assente, scrive: “Fu in quel periodo che poté organizzare le comunità ad Addis Ababa, riuscendo con il suo carattere a trattare con le autorità e ad acquistare i terreni, così da soddisfare le esigenze dei confratelli per il nuovo sviluppo della provincia. Questa testimonianza mi è stata riferita e mi conferma nella convinzione che sia per il suo carattere che per le grazie che riceveva, P. Antonio era un costruttore di comunità”.
Ricordiamo, a questo proposito, ciò che scriveva Mons. Armido Gasparini nel 1993, ai superiori di Roma, ringraziandoli per il permesso concesso a P. Antonio di essere presente all’inaugurazione del seminario e della chiesa: “Fu P. Antonio, a partire da quattro anni fa, a interessarsi per ottenere in Addis Ababa un terreno adatto. Dopo molte ricerche e ricorsi alla municipalità si riuscì, tramite lui, a ottenere un lotto di terreno, come e dove lo volevamo. P. Antonio s’interessò anche per gli inizi delle costruzioni e per lo scavo, gratuito, di un pozzo artesiano. P. Antonio rappresenta per noi e per la gente la persona alla quale siamo di più obbligati per l’opera del Seminario Maggiore in Addis Ababa”.
Roma
Nel 1993 fu destinato al Distretto della Curia come procuratore generale. P. Antonio ricorda: “Ciò che più ha lasciato un segno e un ricordo in me, dei dieci anni passati a Roma come procuratore generale, è stato quel poco che sono riuscito a fare come responsabile della ‘provincia sommersa’ dei Comboniani. Prendendo in mano i vari incartamenti per regolarizzare la situazione di confratelli che lasciavano il sacerdozio per sposarsi o lasciavano l’Istituto per incardinarsi in una diocesi, capitava spesso che mi vedessi rispecchiato in loro e mi dicevo: potrei essere benissimo uno di loro. Dopotutto, quale delle nostre strade è stata senza curve pericolose, senza qualche fondo dissestato e qualche vicolo chiuso? Tutti però riconosciamo che siamo dove proprio solo Lui ci ha voluto. Alla domanda che spesso ci facciamo – perché loro se ne sono andati – bisognerebbe sostituire quella molto più importante: perché noi siamo rimasti? Sarebbe bello sentire le risposte a questa domanda, da vecchietti che siamo, da gente che di vita ne ha vista tanta”.
Ritorniamo a P. Ravasio: “Nei lunghi anni di Roma, l’esempio, forse, più grande che P. Antonio abbia dato è stato quello di comprendere le condizioni di salute di P. Pietro Bianchini, continuando a dimostrargli rispetto e fiducia e infondendogli serenità fino agli ultimi giorni. Chi è stato testimone degli ultimi dodici anni della vita di P. Antonio non potrà non confermare il suo atteggiamento di apertura e dialogo con tutti, mantenuto sino alla fine. Era un uomo semplice e, anche se di poche parole, dava subito l’impressione di piena disponibilità, sincera e cordiale; un autentico interprete dei cambiamenti storici e culturali nel vero spirito di san Daniele che, come lui, sapeva attrarre le persone e far amare le missioni”.
Nel 2001 fu assegnato alla provincia italiana, con residenza a San Pancrazio, come vice superiore, economo locale, impegnato nell’animazione missionaria e aiutando nell’ufficio viaggi e Acse. Nel 2006 fu destinato alla comunità di Gozzano e poi a quella di Brescia. Negli ultimi tempi, si trovava nella comunità di Milano, dove è arrivato con la “sua valigia di cartone – ha detto P. Lino Spezia – l’unica valigia che lo ha sempre seguito, segno di essenzialità e testimone di tanti viaggi e spostamenti. P. Antonio aveva fatto la scelta di una vita sobria e povera a livello personale, ma questa povertà personale era il segno di una ricchezza, sapienza e saggezza di cuore con la quale arricchiva quanti incontrava. Era l’uomo di Dio, con il sorriso di Dio che ti faceva sentire accolto ogni volta che si andava a trovarlo. Aveva i suoi dolori, anche forti, ma sembrava l’uomo più felice del mondo”.
È deceduto a Milano il 1° luglio 2012. Il funerale si è svolto nella chiesa parrocchiale di Pieranica, suo paese natale.
Testimonianza di P. Tesfaye Tadesse
Ho conosciuto P. Antonio Valdameri verso il 1986: avevo 17 anni e lui veniva nella mia parrocchia di Addis Ababa. Era economo provinciale e superiore locale. Ho avuto, quindi, la fortuna di conoscerlo fin dalla mia giovinezza quando aspiravo a diventare Missionario Comboniano. Abbiamo vissuto nello stesso edificio del vecchio postulato di Addis Ababa per alcuni anni. Terminato il suo incarico, gli fu chiesto – da un suo scolastico divenuto Superiore Generale, P. David Glenday – di andare a Roma come procuratore generale ed economo locale. Essendo io, in quegli anni, scolastico a Roma, ho avuto la possibilità di ritrovarlo e d’incontrarlo spesso.
Una vocazione gioiosa
P. Antonio ha dato una grande testimonianza di vita. Aveva le idee chiare sul significato della chiamata e della consacrazione missionaria. Non amava le situazioni incerte e, nel dubbio, preferiva chiarire le cose anche prendendo decisioni inaspettate, come ad esempio, quella di rimandare qualche giovane scolastico in noviziato per ripetere un periodo di formazione. Mentre era procuratore generale, fu invitato dai formatori dello scolasticato di Roma a tenere una conferenza sulla “perseveranza nella chiamata comboniana”. Ascoltandolo, rimanemmo colpiti dalla chiarezza del suo pensiero e dal suo modo divertente di parlare del cammino vocazionale e delle tentazioni quotidiane di un “giovane religioso”. Non amava essere troppo teorico o biblico, preferiva essere pratico e stare con i piedi per terra, portando esempi concreti di vita religiosa e sacerdotale. Nella vita di tutti i giorni era un uomo gioioso, di una gioia contagiosa. Era sereno e felice della sua chiamata a essere discepolo di Gesù e Missionario Comboniano. Era anche un uomo di preghiera. Fedele alla preghiera personale – lo vedevamo, ogni giorno, camminare in giardino recitando il rosario – era solito preparare bene le sue omelie e l’animazione durante la preghiera comunitaria.
Saggezza pragmatica
Nei suoi numerosi anni di servizio, P. Antonio ha sempre dimostrato il dono speciale che Dio gli aveva dato: una “saggezza pragmatica”. Nei vari incarichi aveva imparato molte cose riguardo all’amministrazione e alla leadership. Non amava perdere tempo e mostrava sempre grande energia e prontezza nel mettere in atto le decisioni prese.
Ha servito in diverse province (London Province, Uganda, Ethiopia, Eritrea-Ethiopia, Italia, Roma-Curia), sempre con gioia, dedizione, passione e con grande senso di appartenenza e di amore all’Istituto. In molte situazioni, ha avuto il coraggio di rischiare, ottenendo risultati positivi che, con il tempo, si sono dimostrati delle benedizioni e dei semi di successo. Mons. Armido Gasparini, conosciuto nel Vicariato Apostolico di Awasa come Abuna Joseph, diceva sempre che i Comboniani dell’Etiopia devono molto alle capacità amministrative di P. Antonio.
Accogliente e pacificatore
In tanti anni di servizio come superiore locale nella casa provinciale di Addis Ababa, ha mostrato una grande capacità di accogliere confratelli, ospiti e gente del luogo. Si prendeva cura di tutti i confratelli che venivano ad Addis Ababa per fare spese, sbrigare servizi o per qualche giorno di riposo. Se qualcuno di loro era stanco o teso per qualche preoccupazione, P. Antonio lo ascoltava e cercava di aiutarlo, dandogli dei consigli utili e suggerendogli di affidare tutto al Signore. Riusciva a far superare le tensioni, magari andando a fare due passi assieme o a prendere una birra. Pur avendo un aspetto distinto, non era affatto sofisticato. Era un uomo semplice e cordiale, molto umano, di grande fede e umiltà. Sapeva riconoscere i propri errori e chiedere scusa per qualche reazione istintiva, ammetteva umilmente che una cosa avrebbe potuto essere fatta meglio, cercava sempre di porre rimedio a qualche situazione che non andava, imparando proprio dagli errori.
Uomo di carità
P. Antonio ha molto amato la gente povera delle nostre missioni, mostrando grande rispetto e amore soprattutto per le donne e i bambini bisognosi. Dopo la sua partenza dall’Etiopia, per molti anni, i nostri due anziani guardiani di Addis Ababa, ogni volta che arrivava qualcuno dall’Italia, come prima cosa, gli chiedevano notizie di P. Antonio. Molti profughi e sfollati della città ricevevano aiuti per la generosità di P. Antonio. Ad esempio, nella parrocchia dove andava la domenica a dare una mano per la Messa in inglese, aveva conosciuto un sacerdote sudanese che si occupava di una comunità di profughi sudanesi: P. Antonio s’impegnò a sostenerli in vari modi e divenne per loro un punto di riferimento.
Con l’Etiopia nel cuore
Arrivò per la prima volta in Etiopia nel 1968 e quando nel 1971 gli fu chiesto di andare a Londra come formatore degli scolastici, non fu molto contento perché aveva appena cominciato a conoscere il paese, la gente, la missione di Fullasa e la lingua sidamo. Ritornò nel 1977 e rimase fino al 1992, quando fu chiamato a Roma. Il suo cuore comunque ha continuato ad appartenere all’Etiopia e P. Antonio ha continuato a lavorare per le missioni e la Chiesa locale etiopica. Ha avuto anche grande intuito nell’apprezzare le qualità della gente etiopica. Ne sono un esempio, le numerose immagini sacre appese alle pareti delle nostre comunità o apparse nelle nostre riviste, opera del famoso artista Zeleke Ewunetu, da lui sostenuto e incoraggiato. Dall’Italia, ha sempre seguito la situazione dell’Etiopia con visite e contatti, attraverso i mass media e quando incontrava i missionari che arrivavano dalle missioni etiopiche, li ascoltava a lungo per tenersi aggiornato sulla provincia, sulla Chiesa locale, sulla gente, sulla nazione che aveva servito e amato.
Da Mccj Bulletin n. 254 suppl. In Memoriam, gennaio 2013, pp. 23-31.