Venerdì 29 novembre 2024
Sono passati 60 anni dal martirio di tanti missionari e missionarie agli inizi degli anni ’60, in quella che è oggi la Repubblica democratica del Congo (dal 1971 al 1997 denominata Zaire). Tra loro si contano anche quattro comboniani: i padri Remo Armani, trentino, Antonio Zuccali, bergamasco di origine mantovana, Evaristo Migotti, udinese, e Lorenzo Piazza, savonese. Daniele Comboni era solito dire che “le Opere di Dio nascono e si sviluppano ai piedi della croce”. Il martirio dei quattro comboniani viene a confermare la profonda convinzione del Fondatore.
Il 1 dicembre 1964 i simba (parola kiswahili che significa leoni) uccidevano a Paulis (oggi Isiro) la beata Clementina Anuarite Nengapeta. Quel giorno venivano uccisi a Rungu (a 65 km da Paulis) i padri Lorenzo Piazza ed Evaristo Migotti. Il giorno dopo, 2 dicembre, veniva ucciso, sul ponte del fiume Rungu vicino alla missione e gettato in acqua, padre Antonio Zuccali. Il 24 novembre era stato ucciso a Paulis padre Remo Armani, il superiore dei comboniani in Congo
Sessant’anni dopo, il loro martirio può offrirci due insegnamenti: l’amore per la gente e lo spirito di fraternità. Erano in terra congolese perché sapevano che gli africani avevano solo bisogno di essere amati e aiutati a entrare anche loro nella sola famiglia di Cristo. Voler bene alla gente era la loro priorità, e la fraternità è stata il loro testamento: si sono sostenuti e aiutati l’un l’altro nella prova e nella speranza. Anche la gente li ha protetti fin che ha potuto.
Dal Sud Sudan al Congo
Invitati dal domenicano mons. François Oddo De Wilde vescovo (1959-1976) di Niangara (oggi Isiro-Niangara) – diocesi nel nordest del Congo, affidata ai domenicani belgi e olandesi ‒ i primi otto missionari comboniani arrivarono nel paese africano tra dicembre 1963 e febbraio 1964, in continuità con la missione in quello che oggi è il Sud Sudan, allora area meridionale del Sudan, dove il lavoro apostolico si faceva ogni giorno più difficile. I missionari, testimoni scomodi per Khartoum della guerra contro il sud del paese animista e cristiano, vengono espulsi in massa il 27 febbraio 1964. Molti di loro ripartiranno presto per altre missioni, tra cui i primi destinati al Congo. Il gruppo di 8 era composto da padre Remo Armani, il superiore, dai fratelli C. Mosca e Mario Pariani, e dai padri L. Piazza, E. Migotti, F. Colombo, P. Merloni e A. Zuccali. I nuovi arrivati intendevano anche prestare assistenza ai numerosi profughi sudanesi che avevano trovato riparo in Congo. I missionari vennero accolti con gioia dalla gente. Il loro arrivo aveva sorpreso i cristiani: «Mentre tutti gli altri stranieri se ne vanno, noi sappiamo per quale ragione siete venuti – dicevano loro ‒. Loro amavano le nostre miniere, voi amate noi e le nostre anime!».
Mentre i nostri si installavano nelle missioni di Ndedu e Rungu (in diocesi di Niangara), dalle quali si erano ritirati i domenicani belgi, in Congo scoppiava, nel nordest, la ribellione “mulelista”, più nota come guerriglia dei simba (leoni). I comboniani giunsero insomma nel paese nel momento peggiore: dall’esperienza di sofferenza del popolo sud-sudanese, si trovarono subito a condividere le sofferenze dei congolesi.
Dopo l’uccisione di Lumumba (febbraio 1961), il primo ministro dopo l’indipendenza, scoppiava infatti la guerra civile, con la caccia ai belgi, ex coloni, padroni di grandi piantagioni e industrie. Nella lotta contro i belgi vengono coinvolti anche altri europei, missionari compresi. La guerra civile era divampata nell’agosto 1964. I simba, ribelli di varia estrazione, spesso giovanissimi, non hanno ottenuto dopo l’indipendenza quanto speravano. Senza scrupoli, i simba si accaniscono contro i capi e gli amministratori locali, generalmente corrotti, ma non risparmiano i bianchi. Nei saccheggi e nei massacri dei ribelli, spesso in preda all’alcol e alla droga (il banghi), vengono uccisi molti europei, ma soprattutto migliaia di innocui congolesi.
Fratel Mosca racconta
Fratel Carlo Mosca, il solo sopravvissuto di quell’eccidio del 1 dicembre 1964 sul fiume Bomokandi, allora 34enne, racconta:
: «Fino ad agosto, il nostro lavoro nelle parrocchie di Rungu e Ndedu procedeva bene e produceva buoni frutti. L’instaurazione della “repubblica popolare” di Christophe Gbenye a Stanleyville (oggi Kisangani) non ci aveva causato particolari noie. Le scuole continuavano a funzionare. Solo i rifornimenti diventavano più problematici e non potevamo lasciare la brousse perché i simba ci avevano confiscato gli automezzi. Ma ecco che il 4 novembre veniamo arrestati e imprigionati a Rungu. Dopo tre giorni siamo liberati e ricondotti in missione, benché sotto vigilanza. I padri Piazza e Migotti godevano anche di una certa libertà di movimento. Avremmo potuto fuggire e metterci in salvo nei vicini Sudan e Uganda, ma preferimmo rimanere al nostro posto... In quei giorni era un viavai continuo di simba in fuga da Paulis (oggi Isiro). Di frequente entravano in missione per chiedere cibo, denaro, ecc... I simba ci raccontavano delle loro credenze, in particolare la loro certezza che la dawa (la pozione magica ricevuta il giorno dell’iniziazione) li avrebbe salvati dalle pallottole… La nostra casa – continua fratel Carlo – era occupata dai ribelli con moglie e famiglie. E noi quattro, più i tre domenicani del seminario e tre laici belgi, eravamo costretti in un solo locale». L’arrivo dei parà belgi a Paulis getta nel panico i simba. I missionari decidono allora di nascondersi nella foresta, oltre il fiume Rungu, a un chilometro dalla missione. Con loro anche le 4 suore domenicane. Dormivano sotto le stelle, ricevendo ogni giorno il cibo dai maestri a rischio della loro vita. Una sera i missionari odono poco lontano il rumore di un veicolo che insiste con il clacson. Pensando siano i ribelli, rimangono nascosti. Verranno a sapere poi che era un camion dell’esercito nazionale con due padri di Niangara che venivano per portarli in salvo…
«Il 30 novembre mattina – è sempre fratel Carlo a raccontare – i maestri vennero a dirci che i simba li avrebbero uccisi se non fossimo usciti. Decidemmo allora di comune accordo di arrenderci per salvare loro la vita, ben sapendo che andavamo noi incontro alla morte. Ci confessammo tutti con serenità… era il pomeriggio del 1 dicembre». Nel frattempo padre Zuccali si era dileguato con Paul Lepêche, un giovane belga, fuggendo verso Paulis. I missionari vengono caricati su un camion e scendono verso il fiume Bomokandi che scorre circa due km a valle della missione. Sono i padri Piazza e Migotti, fratel Mosca e i tre domenicani del seminario: i padri Augustin Van den Wijngaert (55 anni, di Anversa) e Joseph Cools (49 anni, di Gand), e fratel Vincent de Doncker (52 anni, di Gand).
I giorni del martirio
Padre Remo Armani era stato ucciso per primo il 24 novembre. Padre Remo, trentino di Agrone, era partito per il Congo il 13 febbraio 1964. Era il superiore e rappresentava di fronte al vescovo il superiore generale dell’Istituto. A fine ottobre si reca, con l’unica macchina rimasta in tutto il distretto di Dungu a Paulis, a prendere il denaro per il salario dei maestri delle scuole della missione. Il 6 novembre viene arrestato dai ribelli assieme agli altri missionari e agli europei di Paulis. Sono presi in ostaggio. Il lunedì 23 novembre scendono su Stanleyville (oggi Kisangani) i paracadutisti belgi. Arriva l’ordine dal comando ribelle di eliminare tutti gli ostaggi. Al calar delle tenebre del 24, i simba di Paulis fecero uscire tutti i prigionieri. Li obbligano a inginocchiarsi così da legarli e batterli. È così che padre Remo fa per alzarsi e dire che è italiano… Colpito alla testa dal colonnello dei simba, muore sul colpo. Aveva 47 anni.
Migliore fortuna hanno i due comboniani di Ndedu: padre Pasquale Merloni e fratel Mario Pariani. Il 28 ottobre vengono presi in ostaggio e portati a Dungu. Il 23 novembre rientrano a Ndedu, protetta da Gilbert, uno scout coraggioso. Il 27 tuttavia arrivano i simba, li prendono e li portano a Dungu. Legati mani e piedi vengo gettati sul camion e portati ad Aba, a 200 km. Raggiunta Aba, sul confine Congo-Sudan, vengono uniti agli altri ostaggi. A gennaio la speranza di essere liberati si fa più concreta e si fa certezza. I nostri vengono accompagnati al confine con il Sudan e l’11 sono finalmente liberi. Pernottano a Yei. Il giorno seguente proseguono per Juba e di lì Khartoum e… Roma. Era il 18 gennaio 1965. Intanto P. Ferdinando Colombo aveva lasciato Ndedu verso la succursale Tora, e di là a Watsa, ove rimase per qualche mese sotto la copertura di un amico medico europeo fino alla liberazione.
Oggi sappiamo che, nel periodo 1960-1965, i sacerdoti locali, i religiosi e religiose cattolici vittime della ribellione dei simba furono oltre 180; i martiri protestanti una trentina. Ci si può chiedere: perché i simba presero i religiosi come bersaglio privilegiato? In primis non tanto perché i simba considerassero i missionari legati al sistema coloniale occidentale, o per via della loro fede, forse anche questo, ma ancor più per la situazione di miseria, la corruzione politica, l’influsso dei paesi comunisti (Cina in primis) e il trauma dello schiavismo della gente. Forse però si deve considerare anche il fattore umano, cioè le azioni concrete degli individui, sia tra i ribelli che tra i missionari o i governi dei rispettivi paesi degli espatriati. Come spiegare altrimenti il perché un colonnello simba abbia protetto gli ostaggi a Stanleyville e un altro, all’inizio protettore, si sia trasformato in macellaio dei missionari? L’amore dei missionari per gli africani non poteva non risultarne compromessa. Eppure, dopo un momento di smarrimento, fecero ritorno e si rimisero al lavoro, ricostruendo quanto distrutto, facendosi sempre più vicini alla gente perché il loro cuore batte da quella parte, nonostante debolezze, fragilità e differenze.
(Note di padre Elio Boscaini)