Nel Vangelo di questa domenica continua la serie di epifanie, cioè le manifestazioni di Gesù. Dopo la stella dei magi e il battesimo al Giordano, è ancora Giovanni Battista a segnalare con insistenza la presenza di Gesù come “l’agnello di Dio” (v. 36). Gradualmente, Giovanni è cresciuto nella sua conoscenza di Gesù: dapprima non lo conosceva (Gv 1,31.33), o lo conosceva probabilmente solo come parente, ma ora lo proclama agnello, cioè servo sofferente, Messia e lo dichiara presente: ‘eccolo’, dice due volte (v. 29.36).

Riprendere la vita da chiamati!

Venite e vedrete!
Gv 1,35-42

Siamo alla seconda domenica del Tempo Ordinario, il tempo liturgico della “ordinarietà” della vita. Durante quest'anno (ciclo B) leggeremo il vangelo di San Marco. L'abbiamo iniziato domenica scorsa con il racconto del battesimo di Gesù. La liturgia, però, ha voluto attardarsi ancora sulla scena del post-battesimo. Abbiamo contemplato il Verbo di Dio e siamo stati testimoni della sua Epifania. Siamo stati convocati da Giovanni Battista presso il Giordano ed immersi anche noi con Gesù nelle acque del battesimo. E adesso, cosa facciamo? Ognuno rientra a casa sua, alla vita di prima? La Parola di Dio vuole rispondere a questa domanda.

Le letture di oggi hanno un chiaro indirizzo vocazionale. Cosa suggerisce questa Parola? Ci invita a riprendere la quotidianità con una chiara consapevolezza che la nostra vita cristiana è una vocazione, una chiamata a seguire Gesù, ad essere suoi discepoli. Cosa vuole dire essere discepoli di Gesù? Ce lo indica il vangelo.

Il giorno dopo [il battesimo di Gesù] Giovanni stava con due dei suoi discepoli” e fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: «Ecco l’agnello di Dio!»”.
Gesù passa e Giovanni fissa il suo sguardo su di lui e lo addita. Questa è la vocazione del cristiano: essere un dito che punta verso Gesù! “Penso che non abbia cambiato stile il Signore: passa, per le strade. Ma c’è qualcuno che lo indichi per le strade? O siamo tutti occupati a indicarlo nelle chiese?” (Ermes Ronchi).
Lo sguardo di Giovanni è uno sguardo penetrante, che vede dentro, in profondità, come quello che Gesù rivolge a Pietro, subito dopo. “Fissare lo sguardo” (emblepein) è un verbo greco che troviamo solo qui, due volte, in tutto il vangelo di Giovanni. Uno sguardo che interroga il nostro modo di guardare le persone e le situazioni, spesso in modo superficiale e che si ferma alle apparenze.

Ecco l'agnello di Dio!” Giovanni ripete quanto aveva affermato il giorno prima: “Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!”. Davvero acuto e profondo questo sguardo che scruta il cuore di Gesù, la sua missione e il suo futuro. A quale agnello pensa Giovanni? All'agnello pasquale? Al servo di Yahweh di cui parla Isaia 53,4-7: “come agnello condotto al macello”? Di tutti e due, certamente! In questo primo capitolo del IV vangelo troviamo innumerevoli titoli attribuiti a Gesù: Rabbì, il Messia, il Cristo, il Re d'Israele, il figlio di Dio..., eppure Giovanni usa questo titolo particolarissimo che, direi, a nessun verrebbe in mente. Dio non viene per rivendicare un regno, ma per dare la sua vita e liberare così la nostra. Questo sguardo di Giovanni interroga profondamente il nostro che stenta a liberarsi da tante immagini idolatriche di Dio che lo presentano come uno che avanza delle pretese e limita la nostra libertà.

E i suoi due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù. Gesù allora si voltò e, osservando che essi lo seguivano, disse loro: «Che cosa cercate?». Gli risposero: «Rabbì … dove dimori?». Disse loro: «Venite e vedrete»”.

Che cosa cercate?” Sono le prime parole di Gesù nel vangelo di Giovanni, sotto forma di domanda. Gesù non incomincia con le risposte, prima ancora delle domande. Così farà anche da Risorto con la Maddalena: “Donna, chi cerchi?” (20,15). Questo interrogativo lo pone anche a noi. Cosa vogliamo veramente? Che desideri profondi abbiamo nel cuore? Cosa cerchiamo davvero nel nostro rapporto con Dio? È la prima domanda, eppure forse non ce la siamo mai posta, ritenendo che è evidente quello che vogliamo, quando in realtà ignoriamo i bisogni profondi, quelli veri che portiamo nel cuore.

Rabbì, dove dimori?”. I due rispondono a Gesù con una richiesta. È la domanda di ogni uomo: dove trovare Dio? Anche questa domanda ci interroga perché forse non la facciamo mai, pensando di conoscere già la risposta. E così rischiamo di non sentire l'invito ad entrare nella sua intimità!

Venite e vedrete!” Gesù ci invita a vedere di persona. Spesso ci limitiamo a vivere una fede "veterotestamentaria", fatta soltanto di “ascolto”, dimenticando che adesso Dio si è reso visibile. Non per niente il verbo “vedere” appare qui diverse volte. Gesù dirà a Natanaele: “Vedrai cose più grandi di queste!” (v. 1,50). Io mi domando se davvero mi aspetto di vedere qualcosa di nuovo o se ritengo di avere già visto tutto!

Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui; erano circa le quattro del pomeriggio”.
Dimorare e rimanere
 sono due verbi con una carica simbolica e spirituale molto profonda. Senza “dimorare” e “rimanere” con il Signore la nostra vita sarà piatta e non avrà delle “ore” speciali di esperienze che ricorderemo per sempre.

Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito, era Andrea, fratello di Simon Pietro. Egli incontrò per primo suo fratello Simone e gli disse: «Abbiamo trovato il Messia» - che si traduce Cristo - e lo condusse da Gesù."
Uno dei due era Andrea, e l'altro? L'altro rimarrà sempre anonimo in tutto il vangelo perché sta per ciascuno/a di noi. E come sapremo di avere sperimentato la presenza del Signore nella nostra vita? Quando ci viene spontaneo dire a quanti incontriamo: “Abbiamo trovato il Messia!”, conducendoli da Gesù!

Fissando lo sguardo su di lui, Gesù disse: «Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; sarai chiamato Cefa» - che significa Pietro”.
Quello sguardo si è fissato anche su ciascuno/a di noi. Il Signore ci conosce profondamente e ci guarda con amore. Ricordare quello sguardo è fondamentale per essere “guariti” da tanti sguardi che ci rimpiccioliscono e che ci spersonalizzano. Solo lo sguardo di Cristo ci ridà la nostra dignità e ci rivela la nostra vera identità e missione.

Esercizio spirituale per la settimana:
1) Iniziare la giornata reiterando la nostra disponibilità ad ascoltare il Signore, ripetendo come Samuele: “Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta”; o come il salmista: “Ecco, Signore, io vengo per fare la tua volontà!”.
2) Coltivare lo sguardo di Gesù su di me e su quanti incrocio durante la giornata.

P. Manuel João Pereira Correia, MCCJ
Castel d'Azzano (Verona), gennaio 2024

Giovanni 1, 35-42
Il coraggio di porre domande

Dopo aver ricevuto il battesimo nel fiume Giordano, Gesù inizia il suo ministero e incontra i primi discepoli. Questo primo incontro, secondo l’evangelista Giovanni, inizia con una domanda che Gesù rivolge ad Andrea e all’altro “che cercate?”.

L’inizio della fede, cioè della nostra relazione con Cristo, non è una legge a cui obbedire, un dovere religioso da portare a termine o una risposta consolante, ma una domanda che ci rimanda a noi stessi, che ci scava dentro, che ci chiede il coraggio e la fatica di scoprire la verità di chi siamo e i nostri desideri più profondi. Spesso cadiamo nella tentazione di cercare una fede “facile”, che attutisce gli enigmi della vita con facili risposte. Gesù, invece, ci presenta un Dio appassionato di domande, che si fa interprete del nostro più profondo desiderio di vita, di gioia e di amore, per suscitare la nostra ricerca di Lui.

Le domande hanno il potere di disarmarci e di mettere in crisi quelle sicurezze e quegli schemi in cui spesso abbiamo racchiuso la nostra vita, trascinandola nell’abitudine e costringendola alla prigione dell’immobilità. Dio, come un “incendiario” (Papa Francesco) ci chiede di non vivere in superficie, ma di ritornare al cuore, fermando la nostra corsa e interrogandoci sul senso del nostro cammino: che cosa stai cercando davvero? Cosa desidera il tuo cuore? Qual è la sete che ti porti dentro? Cosa ti appassiona? Cosa ti muove? La nostra società dei consumi e la dittatura dell’esteriorità in cui siamo immersi, ci convincono che basta poco: presentarci con una certa immagine, avere successo, vincere, guadagnare, e così via. Ma su questa strada, i nostri veri bisogni e il desiderio di vita che Dio ha messo da sempre nel nostro cuore vengono tacitati, mentre le seducenti risposte della pubblicità spengono la nostra immaginazione.

E, invece, Gesù chiede anzitutto di non mortificare ciò che siamo e di avere il coraggio di porre quelle domande che non ci parcheggiano in piccoli appagamenti terreni. Gesù dice: tu sei di più, tu desideri altro, tu sei affamato di vita, di senso, di amore. E Dio vuole essere per te l’infinito orizzonte della tua sete di felicità.

I discepoli chiedono allora “dove abiti?”. Non cercano evidentemente un luogo fisico — Gesù era in realtà un “senza fissa dimora” — ma, piuttosto, gli chiedono: dove sei? Dove possiamo trovarti per saziare e dissetare questa nostra ricerca? E Gesù propone loro un’esperienza, un incontro, uno “stare” con Lui che è un “rimanere” nel suo amore: venite e vedrete. Vanno e si fermano presso di Lui. Poi, lo annunciano ad altri discepoli.

Così, il Vangelo ci presenta in una scena un vero e proprio itinerario di fede: guardarsi dentro per scoprire il desiderio di vita che Dio ha seminato in noi, fare il cammino della vita con il cuore in ricerca e accompagnati dalle domande giuste, vivere la gioia dell’incontro e della relazione con Lui perché senza esperienza non c’è fede vera e, infine, portarlo e annunciarlo agli altri.
[Francesco Cosentino – L’Osservatore Romano]

Un impegno gioioso e totale per Dio

1Sam 3,3-10.19; 1Cor 6,13-15.17-20; Gv 1,35-42

Nelle settimane scorse abbiamo meditato a lungo sul mistero del Verbo di Dio, l’Emmanuele (Dio-con-noi e come-noi), nato a Betlemme per noi e per la nostra salvezza. Da questa domenica, dopo il suo battesimo, la liturgia presenta le sue vicende nei tre anni della sua vita pubblica. Questo tempo è chiamato “ordinario”, oppure “tempo della Chiesa”, o “tempo per annum”, cioè durante l’anno, perché non ricorrono particolari misteri come a Natale o a Pasqua.

E’ la scena evangelica dell’incontro tra i discepoli di Giovanni e Gesù, interpellato come “Agnello di Dio”, che suggerisce il tema conduttore di riflessione per questa seconda domenica ordinaria. L’episodio presentato si pone in continuità col momento del battesimo di Gesù, e ha anche un valore “epifanico”, perché manifesta o rivela la personalità di Gesù: L’Agnello di Dio. Agli Ebrei che ascoltavano, questa qualifica richiamava tanti ricordi legati alla loro storia religiosa. L’agnello era l’offerta che di solito presentavano in sacrificio a Dio, secondo la Legge di Mosè, come espiazione dei peccati. Soprattutto, l’agnello era legato alla Pasqua: ogni anno, per ricordare la loro liberazione dalla schiavitù dell’Egitto, le famiglie si riunivano, immolavano l’agnello, lo consumavano in una scena rituale, il rito della Pasqua.

Quindi il Battista veniva a dire ai suoi discepoli che l’Agnello che salva, l’Agnello di Dio, non è più quello di Mosè; ma d’ora innanzi l’Agnello vero è Gesù, l’autore della nuova e definitiva liberazione. Il Battista serve di mediazione tra i suoi discepoli e Gesù, per la scoperta dell’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo.

Questa pagina del quarto vangelo è preparata dalla prima lettura che narra la chiamata del giovane Samuele. Anche in questo caso, risulta importante la mediazione, quella del vecchio Elia che predispone Samuele all’incontro diretto col Signore. Forse, ogni vero incontro con il Signore necessita o passa attraverso una mediazione, che non è sempre clamorosa. Bisogna solo essere, in ogni momento, attenti alle persone e agli eventi, gioiosi o tristi, che ci circondano. La vocazione di Samuele è il modello delle chiamate del Signore, quando il giovane dorme e non fa nessuno sforzo. L’investitura profetica che ne segue è il risultato dell’iniziativa divina, ma anche della piena disponibilità, del pieno consenso di Samuele che l’accoglie: “Parla, perché il tuo servo ti ascolta”. L’ascolto disponibile, dopo la chiamata, si rivela l’atteggiamento profondo e fondamentale che dovrebbe stare alla base del comportamento e della spiritualità dell’uomo di Dio, del credente.

Quest’atteggiamento accogliente e consensuale nei confronti della chiamata del Signore trova una bellissima risonanza nelle strofe del salmo 39: “Ecco, vengo. Sul rotolo del libro, di me è scritto di compiere il tuo volere. Mio Dio, questo io desidero, la tua legge è nel profondo del mio cuore”.

Non rientra direttamente in questa prospettiva il brano della seconda lettura, che affronta piuttosto la questione del significato della sessualità e della corporeità alla luce della comunione vitale che ogni battezzato trattiene con Gesù. Paolo presenta ai Corinzi la visione cristiana del corpo, cioè la sua grande dignità. Il nostro corpo è tempio dello Spirito, cioè il santuario di Dio. Quindi è santo. Non possiamo usarlo a nostro piacimento, con disinvoltura, come strumento permanente del peccato. Un cristiano è puro e glorifica così il Signore nel suo corpo.

Andrea e Giovanni lasciano il Battista per mettersi alla sequela di Cristo, l’Agnello di Dio. La sequela, qui, significa assumere gli atteggiamenti di Gesù, vivere come lui, legarsi a lui, obbedire alla sua parola. Tutto quanto equivale, secondo Giovanni, al credere.

Seguire Gesù significa allora accettare la sua offerta, attuare la sua volontà, credere ed entrare nel regno di Dio che è già presente, diventare suo discepolo, legarsi alla sua sorte, e in modo particolare alla sua croce e alla sua gloria. Si tratta inoltre di vivere insieme a Cristo, di essere membra di Cristo, anche col compito di presentarlo agli altri, come l’ha fatto il Battista a Giovanni e Andrea, o come Andrea che lo presenta a Simone, suo fratello. Cioè, bisogna diventare, ovunque, testimoni, prima con le parole.

E’ compito esplicito di alcune persone nella Chiesa (presbiteri, catechisti, animatori di gruppi, insegnanti di religione…); ma ancora prima è compito dei genitori che dovrebbero parlare di Dio ai figli e figlioli; è anche compito di ogni fedele che dovrebbe parlare di Cristo al suo ambiente. Bisogna poi essere testimoni di Cristo con la vita, senza distinzione di luogo né di tempo, e in ogni istante della vita.

Il cristiano non dovrebbe essere un tale anonimo. Dobbiamo costituire dappertutto un argomento pro Cristo. E quando arriveremo alla meta della nostra vita, la domanda non sarà “Sei stato credente?”, ma invece “Sei stato credibile (attuando la volontà del Padre)?”, “Il tuo comportamento, la tua maniera di vivere ha reso credibile a tutti i tuoi vicini che Dio esiste e li ama?” In altre parole, noi cristiani alla sequela dell’Agnello di Dio, siamo chiamati ad una testimonianza cristiana autentica, non mediocre ma permanente, convincente e trascinante.
Don Joseph Ndoum

La vocazione come "innamoramento"

1Samuele 3,3-10.19; Salmo 39; 1Corinzi 6,13-15.17-20; Giovanni 1,35-42

Riflessioni
Nel Vangelo di questa domenica continua la serie di epifanie, cioè le manifestazioni di Gesù. Dopo la stella dei magi e il battesimo al Giordano, è ancora Giovanni Battista a segnalare con insistenza la presenza di Gesù come l’agnello di Dio (v. 36). Gradualmente, Giovanni è cresciuto nella sua conoscenza di Gesù: dapprima non lo conosceva (Gv 1,31.33), o lo conosceva probabilmente solo come parente, ma ora lo proclama agnello, cioè servo sofferente, Messia e lo dichiara presente: ‘eccolo’, dice due volte (v. 29.36).

Il testo del Vangelo odierno ha un duplice insegnamento e finalità: anzitutto l’invito a fare un cammino all’incontro di Cristo, per scoprirne l’identità; da qui sorgono subito le applicazioni vocazionali.

Giovanni Battista fissa lo sguardo su Gesù (v. 36), lo guarda dentro (dice il verbo greco), ne scopre l’intimità e lo proclama “agnello di Dio”. Si tratta di un’identità carica di significati, che richiama: l’agnello pasquale della notte dell’Esodo (Es 12,13); il Servo di Yahve sacrificato come agnello condotto al macello (Is 53,7.12); l’agnello sacrificato in sostituzione, associato al sacrificio di Abramo (Gn 22). Oltre all’identità di agnello, il brano del Vangelo odierno presenta un altro titolo di Gesù: Rabbì (maestro), con il quale i due candidati discepoli, Andrea e Giovanni, desiderano fermarsi. Seguono i passi di Gesù, e, sollecitati da Lui (“Che cosa cercate?” v. 38), gli rispondono: “dove dimori?” (v. 38), che è molto di più che la richiesta di un indirizzo, sapere dove abita; piuttosto desiderano capire chi è lui veramente: cosa pensa, fa, dice, quali sono i suoi progetti… 

Gesù li invita ad andare e stare con Lui: “venite e vedrete” (v. 39). Cioè a entrare in relazione personale con Lui, a farne esperienza, scoprire il Suo volto intimo. Quell’incontro riscalda il cuore, li segna nell’intimo, li convince e produce effetti esplosivi e contagiosi a catena: Andrea conduce da Gesù suo fratello Simone (v. 41-42), Filippo ne parla con l’amico Natanaele (v. 45ss.), ecc.

Incontrando Simone, Gesù fissa lo sguardo su di lui (v. 42), lo guarda dentro, nel cuore, e gli cambia il nome: “Ti chiamerai Pietro”. Gli conferisce così una nuova identità, definisce la sua missione. Come si vede, i testi biblici di questa domenica hanno anche un chiaro contenuto vocazionale, a cominciare dalla vocazione-missione del giovane Samuele (I lettura), includendo il forte richiamo di Paolo ai cristiani di Corinto (II lettura) a stare lontani dall’impurità (v. 18), a vivere in maniera consona alla loro dignità di membra di Cristo (v. 15), di tempio dello Spirito (v. 19), di persone comprate a caro prezzo (v. 20).

Parlando di vocazione e di missione da parte di Dio, i testi odierni danno alcuni orientamenti per il discernimento vocazionale e la formazione:

- Dio continua a chiamare, in ogni epoca, anche in quelle precarie, come ai tempi di Samuele.

- Dio chiama per nome (vedi Samuele, Pietro e tanti altri casi: Is 49,1; Es 33,12; Vangeli).

- È indispensabile rimanere-stare-dimorare con il Signore, per capire e gustare la sua identità. Gesù invita: “venite e vedrete”; vanno, vedono e rimangono con lui (v. 39). Si “innamorano” di Lui e ne diventano testimoni gioiosi. (*)

- Occorrono persone capaci di aiutare altri a scoprire la voce di Dio, come Eli fece con Samuele (1Sam 3,8-9), come il Battista con i due discepoli (Gv 1,35-37), Anania con Paolo (At 9,17).

- La vocazione non è un premio per opere o fedeltà umane, ma sempre e solo elezione gratuita di Dio; lo stesso dicasi della perseveranza nella vocazione.

- Ad ogni vocazione corrisponde una missione: non ce la scegliamo noi, ma ci viene affidata.

- La risposta alla chiamata, se la si vive in gioiosa fedeltà al progetto di Dio, ha come risultato anche la realizzazione piena di se stessi, che si attua nel servizio alla missione affidataci.

La Chiesa continua ad additare Gesù con le parole di Giovanni Battista. Lo fa nell'Eucaristia-comunione: “Ecco l’Agnello di Dio che toglie il peccato...”; e lo fa nell'annuncio e nel servizio propri della missione. Il messaggio missionario della Chiesa sarà tanto più efficace e credibile quanto più sarà - come nel Battista - frutto di libertà, austerità, coraggio, profezia, espressione di una Chiesa serva del Regno. Solo così, come avvenne per il Battista, la parola del missionario produrrà un efficace contagio vocazionale, sarà all'origine di nuovi discepoli di Gesù (v. 37).

Parola del Papa

(*) «L'apostolo è un inviato, ma, prima ancora, un ‘esperto’ di Gesù. Proprio questo aspetto è messo in evidenza dall'evangelista Giovanni fin dal primo incontro di Gesù con i futuri Apostoli… Alla domanda: “Che cosa cercate?”, essi rispondono con un'altra domanda: “Maestro, dove abiti?”. La risposta di Gesù è un invito: “Venite e vedrete” (cfr. Gv 1,38-39). Venite per poter vedere. L'avventura degli Apostoli comincia così, come un incontro di persone che si aprono reciprocamente. Comincia per i discepoli una conoscenza diretta del Maestro. Vedono dove abita e cominciano a conoscerlo. Essi infatti non dovranno essere annunciatori di un’idea, ma testimoni di una persona. Prima di essere mandati ad evangelizzare, dovranno ‘stare’ con Gesù (cfr. Mc 3,14), stabilendo con lui un rapporto personale».
Benedetto XVI
Udienza generale, mercoledì 22.3.2006

P. Romeo Ballan, MCCJ