“Ho avuto paura” dice colui che aveva ricevuto un solo talento. Una paura che ci portiamo addosso tutti; è quella di Adamo dopo il peccato. Tante volte anche noi ci vergogniamo della nostra debolezza e ci nascondiamo a Dio, agli altri e perfino a noi stessi. (...)

Tre malintesi, tre piste di lettura e tre proposte

Bene, servo buono e fedele, prendi parte alla gioia del tuo padrone!
Matteo 25,14-30

Siamo alla penultima domenica dell'anno liturgico. Il vangelo ci propone la parabola dei talenti, che fa parte del “discorso escatologico”, il quinto ed ultimo discorso di Gesù secondo il vangelo di San Matteo. Il Signore ci dà le consegne sul comportamento del discepolo nell'attesa del suo ritorno alla fine dei tempi. Domenica scorsa, con la parabola delle dieci vergini, Gesù ci invitava alla vigilanza: “Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora”. Questo invito è ripreso oggi da San Paolo nella seconda lettura: “Il giorno del Signore verrà come un ladro di notte. Non dormiamo dunque come gli altri, ma vigiliamo e siamo sobri”. Oggi, invece, con la parabola dei talenti l'accento è messo sull'operosità. L'attesa del cristiano si caratterizza dall'impegno nel mondo.

In questa domenica, inoltre, celebriamo la Giornata Mondiale dei Poveri, istituita da Papa Francesco. Il tema proposto per quest'anno è: “Non distogliere lo sguardo dal povero”. Questa Giornata è collegata con la Festa di Cristo Re, di domenica prossima, in cui il Signore ci rivelerà la presenza della sua misteriosa regalità nascosta nei poveri.

Tre malintesi

Prima di avvicinarci alla parabola vorrei accennare a tre malintesi che rischiano di travisare la sua comprensione.

1) Il primo è pensare che la parabola sia un incoraggiamento all'attivismo, alla produttività, all'efficienza e alla competitività, tanto promossi nella società attuale. Come se le “opere” potessero procurarci la salvezza!

2) Il secondo è credere che parlando di “talenti” si intenda le nostre doti naturali, come quando diciamo che una persona “ha dei talenti”. Difatti la parola greca “talento” è stata veicolata nelle nostre lingue proprio da questa parabola. Certo, anche i doni naturali, le nostre capacità, e soprattutto il dono della vita stessa, sono da sviluppare, ma la parabola parla di altro!

3) Il terzo malinteso è quello di leggere la parabola in chiave individualistica. Purtroppo l'educazione che abbiamo ricevuto sottolinea spesso l'impegno individuale “per salvare la propria anima”, trascurando la dimensione ecclesiale. In realtà i tre servi - ai quali dobbiamo aggiungere la “donna forte” della prima lettura e la “donna feconda” del salmo responsoriale - rappresentano l'intera comunità ecclesiale!

Tre piste di lettura

1. COSA rappresenta il talento? Il talento non era una moneta, ma una misura di peso (“talento” in greco significa “peso”). Si tratta, per così dire, di una specie di grosso lingotto d’argento, col peso di circa trenta chili, quindi un vero tesoro. Cosa rappresenta il talento nella parabola? Si tratta dei tesori del Regno, che Gesù ci ha affidati: la sua Parola, la grazia, lo Spirito Santo... Io penso soprattutto al dono della fede, questa luce che non va messa “sotto il moggio, ma sul candelabro” (Matteo 5,15) per illuminare la nostra esistenza e la vita della Chiesa e del mondo!

2. CHI sono i servi? L'uomo ricco della parabola che parte per un viaggio è facilmente identificabile: è il Signore Risorto asceso al cielo. I servi sono i suoi “ministri” a cui Gesù ha affidato, con grande generosità e fiducia, i tesori del Regno. I tre rappresentano tutta la Chiesa! A noi, tramite la fede, è stato affidato il Tesoro del Regno che è la persona stessa di Gesù.

3. DOVE far fruttare i talenti? La Chiesa non è una “sala di attesa” dove dormicchiamo aspettando il ritorno di Gesù. Il Signore ci ha inviati nel mondo per far fruttare il talento della fede, sia che ne abbiamo “poca” o “molta”. Ricordo un episodio della mia vita di giovane missionario. Destinato ad una nuova parrocchia (Adidogome), nella periferia della capitale del Togo, mi sono stupito e che ci fossero solo tre comunità cristiane, anche se c'erano diverse corali, associazioni e gruppi di preghiera. Ho detto loro: “Io sono venuto da lontano, ho fatto migliaia di chilometri per venire ad annunciarvi il vangelo e voi non siete capaci di fare qualche chilometro per annuncialo nei villaggi vicini? Sappiate che nessun gruppo ha diritto di cittadinanza nella comunità cristiana, se non si impegna nell'apostolato!”. Ho assegnato ad ogni gruppo un villaggio. Alcuni anni dopo c'erano una ventina di cappelle e oggi diverse sono diventate nuove parrocchie!
Il cristiano che non annuncia la sua fede l'ha sotterrata e ha già celebrato il suo funerale!

Tre proposte per la riflessione

1) Ringrazia il Signore per i doni che ti ha fatto, specie per quello della fede. Domandati se c'è qualche “talento” che hai sotterrato per pigrizia, per comodità o per paura del rischio. E ricordati che “a chiunque ha, verrà dato e sarà nell'abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha”.

2) Davanti alle difficoltà e alla tentazione di scoraggiamento nel tuo impegno cristiano, fa risuonare nel tuo cuore questa parola/promessa di Gesù: “Bene, servo buono e fedele, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”.

3) In quale campo concreto ti pare che il Signore ti invita a far fruttare i tuoi “talenti”? Forse vorresti farlo “altrove” o in altre condizioni più “ideali”. Anch'io mi sono lamentato con il Signore: “Perché non mi hai permesso di continuare a seminare nel vasto campo del mondo?”. E il Signore mi ha fatto capire che il terreno più fecondo è il piccolo orticello attorno alla mia carrozzina! Ricordiamoci, tuttavia, che un campo privilegiato per investire i nostri talenti è quello dei poveri!

P. Manuel João Pereira Correia, MCCJ
Verona, novembre 2023

Condividere i talenti-doni, con coraggio e gratuità

 Proverbi 31,10-13.19-20.30-31; Salmo 127; 1Tessalonicesi 5,1-6; Matteo 25,14-30

Riflessioni
La parabola dei talenti (Vangelo) è l’invito ad un bilancio, alla fine di un anno liturgico e nell’imminenza di un nuovo inizio. Risalta, anzitutto, la generosità e la fiducia del padrone che affida i suoi beni ai servi (v. 14). I talenti erano beni consistenti, dati “secondo le capacità di ciascuno” (v. 15); e per tutti c’è anche il dono del tempo, anzi “molto tempo” (v. 19). Il padrone è Dio, è Gesù stesso; i servi rappresentano i membri delle comunità cristiane; il tempo va fino al termine dell’esistenza terrena, è il tempo della Chiesa. I talenti raffigurano i doni elargiti da Dio a ciascuno e i tesori che Cristo ha consegnato alla sua Chiesa: il Vangelo da annunciare come messaggio di salvezza per la famiglia umana; lo Spirito che rinnova “la faccia della terra” (Sal 104,30); il dono dei sacramenti per un’umanità nuova; i frutti sempre nuovi della terra; il potere di purificare, sanare, consolare, riconciliare…

La parabola contiene una forte sollecitazione a far fruttare i doni ricevuti da Dio, sia a livello personale (doni di salute, intelligenza, cuore, lavoro, alimenti, natura, vita spirituale, fede…), come a livello di comunità umana ed ecclesiale. Gesù vuole frutti: sceglie i suoi discepoli perché vadano e portino frutto e il frutto rimanga (Gv 15,16). Al momento della resa dei conti, l’elogio del padrone va per i servi che sono stati dinamici e creativi nel far fruttare i beni ricevuti. È invece inaccettabile l’atteggiamento del servo “malvagio e pigro” (v. 26), chiuso nel suo mondo (v. 18), diffidente nei riguardi del Padrone (v. 24), disimpegnato e incapace di rischiare (v. 18.25).

Per una corretta comprensione della parabola, occorre superare una duplice mentalità commerciale: sia di tipo moralistico, come se le opere potessero produrre la salvezza, che invece ci è data solo per pura gratuità; sia la logica produttiva di stampo capitalista e liberale. La I lettura corregge tale visione borghese: l’elogio della donna perfetta esalta le sue abilità umane e domestiche di sposa e di madre, ma soprattutto il suo laborioso impegno personale, la sua apertura ai poveri (v. 20) e il timore di Dio (v. 30). “La parabola suggerisce che i talenti non sono egualmente distribuiti e non sono meritati, ma rappresentano piuttosto una dotazione di partenza (chi riceve 5 talenti invece di 1 non ha fatto nulla per meritarselo). La vita, prima ancora che il padrone, punisce non chi ha avuto pochi talenti ma chi non si è messo in gioco, non ha rischiato e investito la propria vita” (Leonardo Becchetti, economista). Le qualità d’intelligenza, intraprendenza e impegno devono essere accompagnate da un solido corredo morale e religioso, che aiuti a evitare forme di egoismo, a moderare la competitività con la solidarietà e l’affanno di accumulazione con la condivisione.

La pigrizia e il disimpegno sono atteggiamenti inaccettabili, in particolare per un cristiano, di fronte al dono della fede e alla conseguente responsabilità missionaria di annunciare il Vangelo, che è compito di ogni battezzato, affinché non manchino la luce, il sale, il lievito necessari perché la famiglia umana possa vivere meglio e prosperare. Non basta essere ‘conservatori della Parola’, per paura del rischio o per mancanza di iniziativa; il dono della fede impegna i cristiani ad essere soprattutto promotori intraprendenti e generosi del Vangelo di Gesù e dei beni della salvezza. Il santo Papa Paolo VI  ha un monito severo per chi non mette a profitto il talento-dono della fede: “Gli uomini potranno salvarsi anche per altri sentieri, grazie alla misericordia di Dio, benché noi non annunziamo loro il Vangelo; ma potremo noi salvarci se, per negligenza, paura, vergogna, o in conseguenza di idee false, trascuriamo di annunziarlo?” (EN, 1975, n. 80). Chi trascura il mandato missionario di annunciare Gesù Cristo e prendersi cura dei poveri, mette a rischio perfino la propria salvezza personale e la sopravvivenza delle comunità. Il destino di questi doni-talenti è la condivisone, il bene comune e non il proprio tornaconto o il privilegio personale. Oggi questo mandato si concretizza nella Giornata mondiale dei Poveri, come ci chiede Papa Francesco. (*)

Il premio che ricevono i servi industriosi, abili nel far fruttificare i doni ricevuti, resta nell’ambito della gratuità e della gioia (v. 21.23), che accompagnano il servizio del Vangelo. “La fede non è una cosa che si custodisce in cassaforte per proteggerla, è vita che si esprime nell’amore e dedizione agli altri. Nei Vangeli avere paura equivale a non avere fede… La parabola dei talenti ci insegna che una vita cristiana, basata non sulla formalità, l’auto-protezione e la paura, ma sulla gratuità, il coraggio e il senso dell’altro, costituisce l’allegria del Signore. E la nostra” (Gustavo Gutiérrez). Anche l’invito di san Paolo (II lettura) a vivere da figli della luce e a restare svegli (v. 5.6) va in questa linea. Solo l’amore fa superare le paure del servo fannullone; queste paure si superano con il coraggio dell’amore e dell’annuncio missionario.

Parola del Papa

(*) «Tendi la tua mano al povero” (cfr. Sir 7,32). La sapienza antica ha posto queste parole come un codice sacro da seguire nella vita. Esse risuonano oggi con tutta la loro carica di significato per aiutare anche noi a concentrare lo sguardo sull’essenziale e superare le barriere dell’indifferenza. La povertà assume sempre volti diversi, che richiedono attenzione ad ogni condizione particolare: in ognuna di queste possiamo incontrare il Signore Gesù, che ha rivelato di essere presente nei suoi fratelli più deboli (cfr. Mt 25,40)… La preghiera a Dio e la solidarietà con i poveri e i sofferenti sono inseparabili. Per celebrare un culto che sia gradito al Signore, è necessario riconoscere che ogni persona, anche quella più indigente e disprezzata, porta impressa in sé l’immagine di Dio… Sempre l’incontro con una persona in condizione di povertà ci provoca e ci interroga. Come possiamo contribuire ad eliminare o almeno alleviare la sua emarginazione e la sua sofferenza?»
Papa Francesco
Messaggio per la Giornata mondiale dei Poveri, 15 novembre 2020, n. 1.2.4

P. Romeo Ballan, MCCJ

Il contrario della paura non è il coraggio
ma l’amore

Matteo 25, 14-30

“Ho avuto paura” dice colui che aveva ricevuto un solo talento. Una paura che ci portiamo addosso tutti; è quella di Adamo dopo il peccato. Tante volte anche noi ci vergogniamo della nostra debolezza e ci nascondiamo a Dio, agli altri e perfino a noi stessi.

“Ho avuto paura” dice chi nasconde sé stesso nella buca, cioè nel sotterfugio, nella diffidenza, nel “si è sempre fatto così”, nell’accidia, nella conservazione piuttosto che nella condivisione, spesso nella menzogna. Che bello invece ascoltare Giovanni nella sua prima lettera: «Nell’amore non c’è timore. Chi teme non è perfetto nell’amore». In fondo il contrario della paura non è il coraggio, ma proprio l’amore.

Quando il nostro padrone, le nostre certezze, la nostra figura paterna si assenta, fa un viaggio, possiamo utilizzare ciò che abbiamo ricevuto, per fiorire, per schiudere il nostro vero essere. È la scelta dell’amore, della gratitudine, della gioia che ci porta a rischiare, a investire noi stessi e le nostre capacità. Non è il padrone che toglie, siamo noi che sotterriamo la nostra vera essenza. Siamo noi che ci gettiamo nelle tenebre, non è mai Dio che ci getta via. È che quando c’è silenzio, quando il padrone parte, anziché ascoltare, scappiamo dalle nostre paure. Se ci fermassimo e le attraversassimo, scopriremmo che non sono nulla, sono solo tenebre, basta accendere una candela o guardare una stella nella notte per vedere la luce dello Spirito.

La paura fra le altre cose è un freno per ogni azione pastorale; è molto facile rinchiudersi nella sagrestia, nel proprio gruppo, e stando asserragliati dentro come in un fortino, giudichiamo il mondo senza conoscerlo, a volte anche con disprezzo, dimenticando che annunciare il vangelo significa anche saper scorgere i segni dei tempi.

Gesù non si fa bloccare dalla paura ma si confronta e offre a noi un grande insegnamento; la volontà di Dio non si misura, non si comprende in base ad una strategia, e neanche mettendo al primo posto una presunta fedeltà che non sa rischiare il nuovo; la volontà di Dio si manifesta come puro dono di Grazia. A volte ci ammaliamo, di presunzione, di lievito dei farisei, pensiamo di avere noi le soluzioni migliori, viviamo un cristianesimo derivante dalla Legge e così quasi senza che ce ne accorgiamo organizziamo perfino le cose di Dio secondo i nostri schemi, dentro i nostri recinti che diventano una buca dove cadiamo dentro. Gesù testimonia un’altra salvezza che Lui è venuto a donare.

L’uomo di fede non ingabbia la propria vita in uno schema, non organizza le cose secondo il proprio codice, ma si lascia guidare da Gesù, e mette sé stesso a servizio della Chiesa e del mondo, rifuggendo ogni egoismo personale, curando invece gli interessi del Padre. Chiediamo allo Spirito che ci insegni ogni giorno le cose del Padre, per essere non solo collaboratori ma anche e soprattutto destinatari della gioia del Signore.

Perché la gioia è una vocazione, una chiamata; una dimensione spirituale, biblica e anche sociale dalla quale non si può prescindere. La gioia è la realtà del credente, del puro di cuore, dei bambini.

Se accettiamo questa chiamata, nessun ostacolo, nessuna difficoltà, nessun dolore, ci potrà mai impedire di prendere parte alla gioia del Signore, che ci ha amati per primo e per sempre.
[Francesco Pesce - L'Osservatore Romano]

Come accogliere i doni di Dio

Pro 31,10-13.19-20.30-31; Salmo 127; 1Ts 5,1-6; Mt 25,14-30

Gesù ci parla questa domenica con la parabola dei talenti, che si inserisce nel tema escatologico dell’attesa della venuta del Signore. Un padrone, prima di partire per un viaggio, affida i suoi beni a tre servi. Durante la sua assenza, essi si distinguono per il modo di agire di fronte a questo atto di fiducia. Dopo molto tempo, il padrone ritorna e decide di regolare i conti con essi. La loro sorte dipende di come hanno agito nel tempo dell’attesa.

Il talento era una specie di grosso lingotto d’argento, col peso di circa trenta chili. Questo padrone è in realtà il Signore. I servi sono i fedeli; quel viaggio lontano del padrone indica l’Ascensione del Signore al cielo; i talenti sono i doni gratuiti fatti da Dio. E il talento fondamentale è quello della vita; posiamo pensare anche alla parola di Dio, alla fede, all’amore, alla speranza nel regno futuro; insomma, a tutto ciò che costituisce la ricchezza spirituale dei cristiani, questa che deve essere contagiosa e comunicativa.

Quanto al lasciare ai servi tutte le sue ricchezze, questo significa l’affidamento fiducioso. Il lungo tempo dell’assenza del padrone corrisponde a sua volta col tempo della nostra esistenza terrena, in cui ci troviamo con i nostri talenti, da fare fruttificare. Chi ne ha uno, chi due e chi cinque. Non ha importanza quanti sono, perché la ricompensa che alla fine ci viene consegnata dall’amore di Dio è uguale per tutti; e poi, a chi è stato molto donato sarà chiesto anche molto.

La parabola di questa domenica specifica, comunque, il dovere del credente che consiste, essenzialmente, nel “darsi da fare”, fruttificando i talenti ricevuti. Questa parabola, nello stesso tempo, esorta, incoraggia e mette in guardia. Il talento non viene conquistato o meritato, ma ricevuto in dono. “Mi sono fatto da me” non esiste qui. Tutto è grazia. E l’impegno giusto da parte nostra è soltanto la risposta umile, con rendimento di grazie a Dio, a un dono che ci siamo ritrovati tra le mani.

Il talento ricevuto va considerato giustamente nostro, ma alla fine deve ritornare al padrone. Ecco il paradosso! Generoso ma esigentissimo è il Signore. Infatti, se viene fuori che i talenti li abbiamo sfruttati male, lui si mostra severo. Nessuno deve trascurare il dono che è in lui. E i n ostri doni sono per gli altri. Il momento decisivo della parabola dei talenti è quello in cui i tre servi si presentano al loro padrone. La situazione dei primi due servi è perfettamente simile: il raddoppiamento dei loro talenti; e le espressioni del dialogo sono le stesse. Nelle parole del terzo servo, che ha nascosto il suo talento, è evidente la preoccupazione di autogiustificarsi. Non si è reso conto che il lingotto era suo (almeno durante l’assenza del padrone). Non si è dato da fare. Non è riuscito a credere all’amore, alla generosità e alla fiducia del padrone che lo interpella con due qualifiche: “Servo malvagio e infingardo”, che sono in antitesi con quelle rivolte ai primi due servi: “Bene, servo buono e fedele”.

Non esiste nessuna scusa di fronte alla responsabilità di agire con decisione e coraggio. Quello che risulta determinante, è l’impegno attivo, che dipende naturalmente dalla relazione di fiducia col Signore. Quello che manca al terzo servo (fannullone) è questa fiducia che mette in moto la responsabilità creativa. La responsabilità creativa sta anche alla base dell’elogio della donna saggia e perfetta, proposta come moglie giusta o ideale nella prima lettura. Ben superiore alle perle è il suo valore. Sue qualità etico-religiose sono la laboriosità, l’interesse per i poveri, il parlare con saggezza e bontà, la donazione totale ai suoi cari, il timore di Dio. Inoltre, fallace è la grazia (avvenenza) e vana la bellezza, ma la donna che teme il Signore è da lodare. È quella che rende felice il marito. Infatti, il timore di Dio, ecco quello di cui bisogna soprattutto vantarsi.

Anche la lettera di Paolo, nella seconda lettura, si colloca in questa prospettiva di fiducia e di responsabilità attiva. L’esortazione paolina riguarda particolarmente il modo di vivere nell’attesa del Signore. L’ignoranza dei “tempi e dei momenti” del “giorno del Signore” è una minaccia costante solo per chi vive nella falsa sicurezza degli empi ed increduli. La venuta improvvisa del Signore, come un “ladro nella notte”, non dovrebbe trovare impreparati i cristiani, che per vocazione sono chiamati a sempre vivere nell’attesa, nella vigilanza e nella sobrietà.
Don Joseph Ndoum