Giovedì 13 aprile 2017
Il titolo è come l’inizio di Moby Dick. Naturalmente qui al posto del biblico Ismaele c’è questo Chiamatemi Giuseppe, ma la Bibbia in qualche modo c’entra sempre e la storia è anche qui la storia di una sfida. Durata pure qui una vita ma in questo caso, addirittura, moltiplicatasi dopo come succede ai semi: la storia di Giuseppe Ambrosoli, o meglio padre Giuseppe Ambrosoli, proprio la famosa famiglia del miele, che invece di dedicarsi con il fratello Francesco all’azienda diventa medico e missionario comboniano, lascia la sua Brianza e parte per l’Uganda, fonda a Kalongo un intero ospedale, viene travolto con tutto il Paese dalla guerra civile, e alla fine ci muore, in Africa, e quando la guerra sembra aver lasciato dietro a sé solo rovine ecco che l’ospedale risorge e riparte più grande di prima diventando anche scuola di ostetricia, con una Fondazione a raccogliere e far tuttora crescere il frutto di quanto Giuseppe piantò.


P. Giuseppe Ambrosoli nel 1967
al lavoro nel suo ospedale
di Kalongo, in Uganda.

 

Ecco, forse si può partire dalla fine per ricordare col Vangelo che l’albero si riconosce dai frutti. E il frutto attuale della storia di padre Giuseppe sta appunto in questa specie di fiume umano che par scorrere in direzione ostinata e contraria rispetto a quell’altro fiume cui l’attualità assegna il primato dei problemi da affrontare: lì il fiume di una umanità in fuga, per mare e per terra, dall’Africa a noi; qui il fiume di volontari, e medici che il viaggio lo fanno di continuo in senso opposto, in silenzio, per portare aiuto a chi dall’Africa scappare non vuole o non può.

A raccontare la storia di padre Giuseppe, nel trentennale della sua morte avvenuta il 27 marzo 1987 a Lira, mentre la guerra devastava l’Uganda, è la giornalista del «Corriere della Sera» Elisabetta Soglio che l’ha ricostruita nei dettagli soprattutto grazie — ma non solo: le voci di testimoni, le lettere, le documentazioni e le foto sono tantissime — ai lunghi dialoghi con Giovanna Ambrosoli, che dopo le esperienze da manager nel mondo del non profit è presidente dal 2010 della Fondazione intitolata allo zio (il libro, edito da San Paolo, ha una premessa firmata da Mario Calabresi).

Una famiglia, gli Ambrosoli, che a dirlo per scherzo ma non troppo meriterebbe una biografia per ogni suo componente. Dal bisnonno di Giuseppe, che nell’Ottocento fa il bibliotecario all’Accademia di Brera, al padre Giovanni Battista che nel 1923 trasferisce la passione per i bachi da seta alle api e assocerà per sempre il suo cognome al loro miele. Lui no. Cioè, il gene da imprenditore brianzolo ce l’ha anche lui. Ma vuole usarlo per altro: vuol fare il medico e vuol farlo in Africa, come prete. Così studia, si laurea, va a parlare col superiore dei comboniani, fa il seminario, prende i voti e nel 1956 si imbarca. Da Venezia arriva a Mombasa, e da lì su un camion per 1.200 chilometri fino a Kalongo, ai piedi della Montagna del vento, diocesi di Gulu, Uganda. Ci trova una capanna col tetto di paglia, gli dicono che è un dispensario per le donne incinte. In pochi anni lo trasforma in un grande ospedale, forma medici e infermieri, trascinando chi lo circonda grazie a quel misto di entusiasmo e competenza e dedizione che si potrebbe chiamare carisma e che, come ricorda il cardinale Gianfranco Ravasi nella prefazione, gli vale presso la gente del posto il nome di Ajwaka Madid, lo «stregone bianco». Il «medico della carità», lo chiameranno tutti gli altri.

La parte centrale del libro è uno spaccato tremendo dell’inferno in cui l’Uganda — prima ancora che dalle epidemie, da ebola, dall’Aids, dalla fame — viene ridotto dai dittatori che si susseguono dalla fine del protettorato inglese, nel 1962, dal feroce Idi Amin Dada a Milton Obote, dai fratelli Okello a Museweni. Ed è la guerra a costringere, in 24 ore, padre Giuseppe e tutti i suoi alla fuga da Kalongo verso il Nord del Paese, dove padre Giuseppe morirà.

A rinascere, tre anni dopo, è il suo ospedale. Sotto la guida di un altro comboniano come lui, padre Egidio Tocalli, che oltre a intitolarlo Dr. Ambrosoli Memorial Hospital vi affianca la St. Mary’s Midwifery School per assicurare alla popolazione locale continuità medica e di formazione: finora ha qualificato 1.300 ostetriche richieste, oltre che in tutta l’Uganda, dalla Tanzania al Congo, mentre l’ospedale serve un bacino di mezzo milione di persone sotto la soglia di povertà, ne assiste direttamente una media di 50 mila all’anno con 271 posti letto nei cinque reparti di medicina generale, chirurgia, Tbc, pediatria e malnutrizione, maternità e ginecologia.

Tutto iniziato quel giorno in cui padre Giuseppe, sul camion che lo portava per la prima volta a Kalongo, all’autista che chiamandolo per cognome gli chiedeva il cambio alla guida rispose: «Lasci stare i titoli pomposi, chiamatemi Giuseppe e certo che so guidare un camion». «Bene, allora tocca a te». Che poi è l’invito con cui, in fondo, le storie come la sua dovrebbero dare la sveglia ogni giorno a ciascuno di noi: forza, ora tocca a te.
PAOLO FOSCHINI
Corriere della Sera

Il ricavato delle vendite del volume sarà interamente devoluto a sostegno delle attività dell’ospedale di Kalongo e della scuola di ostetricia.


Giuseppe Ambrosoli, membro della dinastia industriale, ritratto in un volume (San Paolo)
scritto dalla giornalista del «Corriere» Elisabetta Soglio con la nipote Giovanna.