Dei sardi aveva il coraggio e lo sprezzo del pericolo. Ma anche la cordialità e l'amore fino al dono di sé, senza calcolo e senza misura.
Ussana (CA - Italia)
Obongi (Uganda)
Dall'inizio della guerra che vide il rovesciamento del regime di Amin, e soprattutto dell'aprile, quando la sconfitta si profilava irreparabile, il pericolo di vita era stato quasi continuo, e p. Serri lo sapeva fin troppo bene. Il giovedì santo era già stato sotto la minaccia del fucile spianato; per qualche settimana aveva abbandonato la missione, su richiesta dei superiori e confratelli, e ormai da qualche tempo, quando tornava ad Obongi, temeva un'imboscata. Una settimana prima della sua morte, gli era stata rubata l'auto, poi ritrovata dai cristiani a qualche chilometro di distanza, nell'erba della savana.
Con Fratel Maran egli era venuto ad Ombaci una settimana prima, per riparare i piccoli danni fatti alla macchina dai ladri che poi l'avevano abbandonata nel bosco. Raccontava con entusiasmo la parte avuta dai suoi cristiani nel ricuperare l'auto che per loro era l'unico mezzo per comunicare con il mondo al di là delle paludi, e per potersi procurare medicine o generi di prima necessità. In quella occasione aveva trovato ad Ombaci alcuni confratelli impegnati in ritiro: sebbene la maggioranza avesse deciso di osservare un po' di silenzio durante quella giornata, egli non seppe trattenersi dallo scambiare alcune chiacchiere - naturale sfogo dopo un lungo isolamento e tante peripezie, o inconscio desiderio di un ultimo saluto?
Fu ucciso da un soldato, che probabilmente cercava un mezzo per fuggire in Sudan o nello Zaire. Questo il racconto degli avvenimenti. fatto da Fratel Romano Maran: «Il Padre Silvio usava provvedere l'acqua per la casa e l'orto con l'auto Land Rover offerta da Mons. Angelo Tarantino: la macchina trainava un carrello con botte d'acqua sufficiente al fabbisogno per 2 giorni. La sera dell'11 settembre, verso le 8, stava entrando nella missione, con l'acqua e un gruppo di ragazzi volontari. Improvvisamente gli si presentò davanti al garage un soldato armato e in divisa, che imperiosamente intimò a P. Silvio di dargli benzina. Il Padre disse di non avere le chiavi con sé, ma il soldato puntando l'arma gridò più forte: "Dammi benzina". P. Silvio chiamò il ragazzo e si fece portare le chiavi. Il soldato rimase fuori con il fucile spianato sul Padre e sul ragazzo, mentre un barile di benzina fu portato fuori dal magazzino. Uscì anche il cuoco della casa, per aiutare a spingere il barile sulla Land Rover. Con grande fatica lo sollevarono sulla vettura, ma non riuscirono ad assicurarlo bene alla Land Rover, perché infatti il barile cadde dall'auto dopo pochi metri di corsa.
A questo punto sopraggiungo anch'io, provenendo dalla chiesa (era stata suonata la campana, ed ero stato avvertito che qualcuno stava rubando l'auto). Il soldato mi spara due colpi davanti alle gambe; questi colpi intimorirono i ragazzi presenti, che istintivamente scapparono. Il soldato, vedendosi rimasto da solo, con il Padre così vicino, sparò un colpo, che si rivelò mortale. Il proiettile trapassò il braccio destro, il ventre, ed uscì dal fianco opposto, procurando una larga ferita. Ritornai sul posto dall'altra parte della veranda, m'imbattei nell'auto che a tutte velocità attraversava il cortile di fronte alla casa, e scorsi nel buio il corpo accasciato di P. Silvio, in un pesante rantolo. Abbracciandogli i fianchi mi accorsi che era in una pozza di sangue. Frattanto comparvero due ragazzi di casa e qualche uomo, e mi aiutarono a trasportarlo in casa, mentre egli lasciava dietro di sé una scia di sangue. Diede un ultimo respiro, tenendo gli occhi fissi su di me, e rese la sua bella anima a Dio Padre tra le mie braccia».
Mandati messi ad Arua e a Moyo, il corpo fu trasportato ad Arua e sepolto il 13 settembre ad Ombaci, presso la tomba di altri confratelli. Al funerale, presieduto dal Vescovo, erano presenti tutti i sacerdoti diocesani, molti confratelli, Suore Comboniane e Suore locali, il commissario distrettuale e le autorità della provincia, a testimonianza della stima e dell'affetto che circondavano P. Serri.
A causa della ristrettezza del personale, negli ultimi anni P. Silvio si era ritrovato in missione da solo, ma aveva insistito per poter ugualmente tornare a Obongi: non voleva abbandonare quella comunità cristiana che stava nascendo. Non per questo egli amava stare da solo, anzi ciò era molto duro per lui, ma riteneva di doversi sacrificare per il bene delle anime. Vari confratelli che nel corso degli anni hanno diviso con lui l'esperienza missionaria, testimoniano di essersi sempre trovati bene, anche se egli aveva la fama di essere un «testardo». E senza dubbio lo si giudicherà tale, per essere voluto tornare ad Obongi conoscendo la lontananza e il pericolo, mentre i superiori e i confratelli insistevano affinché abbandonasse almeno temporaneamente quella stazione e si ritirasse in un luogo più sicuro. «Ad Otumbari (la missione più vicina) - scrive P. Mich ingaggiò una vera lite, santa nell'intenzione, con P. Piffer, pur di avere la possibilità di una macchina a sua disposizione per andare ad Obongi, dove infatti si recò il giorno successivo» .
«Uomo di una sola parola» - lo chiamavano in Uganda - e difatti ha mantenuto la promessa fatta ai suoi fedeli: «Starò con voi qualunque cosa accada».
Il suo ricordo è ancora vivo, sia in Uganda che in Italia, nella sua diocesi. Il 28 settembre u.s. si tenne a Monserrato, alla periferia di Cagliari, nella parrocchia dove si era trasferita la sua famiglia fin dalla sua prima infanzia, una solenne liturgia eucaristica presieduta dall'Arcivescovo di Cagliari, con la partecipazione del Vescovo ausiliare, del nostro Padre Generale, di P. Biancalana (Superiore Regionale dell'Uganda) e di altri confratelli. In più erano presenti altri trenta sacerdoti e una grande folla di fedeli. In quella occasione, Mons. Nino Vacca, che era stato compagno di P. Serri nel Pontificio Seminario Sardo di Cuglieri, ricordò che «Silvio aveva manifestato la vocazione missionaria fin dai primi anni, e che con la sua costanza era riuscito a superare tutti gli ostacoli, entrando nel noviziato comboniano di Firenze alla fine degli studi liceali, nel 1953».
Fatta la prima professione il 9 settembre 1955, completò la teologia a vengono (VA) e fu ordinato sacerdote dal Card. Montini a Milano, il 31 maggio 1958. Spese i primi tre anni di sacerdozio come direttore spirituale nei nostri seminari di Carraia e Barolo, e quindi andò in Inghilterra per apprendere l'inglese, rimanendovi circa un anno. Giunse nella diocesi di Arua, Uganda, nel dicembre 1962 e vi rimase per quasi 17 anni.
Egli fu dapprima coadiutore a Maracia, poi ad Uleppi, dove divenne superiore e parroco; poi ancora coadiutore ad Olovu, quindi superiore e parroco ad Otumbari. Nell'ottobre 1970 tornato dalle vacanze e dal corso di aggiornamento, ritornò ad Olovu come superiore. Qui, con la generosa collaborazione della comunità cristiana, sotto la supervisione dei Fratelli Ricci e Udeschini, portò a termine la bella chiesa già ideata da P. Sacco, e decorata poi dalle grandi pitture di Fr. Fanti. Ma la sua opera si esplicò specialmente nell'organizzazione della parrocchia, nella formazione dei catechisti, nell'istruzione religiosa e sociale dei numerosissimi catecumeni.
Dopo le vacanze del 1976, lasciando la fervente parrocchia di Olovu alle cure dei Padri di Maraca, si offerse per la fondazioni di Obongi, una missione particolarmente difficile, perché isolata, infestata da zanzare e circondata da paludi che la rendono quasi irraggiungibile durante la stagione delle piogge. Con lui andò P. Jorge Martinez. I due Padri trovarono una popolazione di circa 18.000 abitanti. In tre anni i cattolici, da poche centinaia, salirono a 6.000; i musulmani erano altrettanti.
Era caratteristica in P. Serri la capacità di adattarsi. Appena arrivato ad Obongi, si fece amico di tutti, specialmente dei musulmani, dei quali stimava sinceramente molti atteggiamenti. Quando il padre di alcuni ragazzi musulmani che venivano ad aiutare in missione proibirono di avvicinarsi a P. Serri (per timore che si convertissero), essi se ne lamentarono pubblicamente durante la preghiera nella moschea: gli altri genitori rimproverarono e multarono il padre dei ragazzi, che dovette permettere nuovamente ai propri figli di recarsi alla missione.
P. Serri era metodico ed ordinato, senza essere un fanatico; ci teneva soprattutto che l'ufficio parrocchiale e la chiesa fossero puliti e in ordine. Teneva una piccola raccolta di dischi di musica classica e, recandosi ad Arua, si riforniva di letture: dai gialli Mondadori, ad opere di letteratura moderna, a qualche libro di teologia.
La sua riservatezza e il rispetto per gli altri lo inducevano ad evitare contrasti aperti, ma non gli impedivano di essere tenace nel perseguire i suoi progetti apostolici.
Era ancora giovane: aveva solo 46 anni, ma come missionario aveva riempito i suoi giorni. Non desiderava, né contava di morire, ma per mesi affrontò il rischio con piena coscienza, perché era sua ferma volontà realizzare qualcosa che vale più della propria vita.
(a cura di P. V. Dellagiacoma)