Lunedì 14 giugno 2021
Martedì 8 giugno nel suo Eremo della Croce Gloriosa a Vogan (Togo), attorniato dall’amore delle suore del Cenacolo, è morto il missionario Roberto Pazzi [al centro, nella foto], già membro dell'Istituto comboniano. Una lunga vita dedicata all’evangelizzazione del popolo Gen ed Ewé. [Aurelio Boscaini – Nigrizia]
Ci lascia un grande evangelizzatore. Sì, il Vangelo che incontra la cultura dei popoli di Ajatado (quelli compresi tra Accra, capitale del Ghana, e Lagos, capitale economica della Nigeria) è stato l’unico scopo della sua lunga vita missionaria. Nato a Milano nel 1935, padre Roberto Pazzi era arrivato in Togo nel gennaio 1965 come missionario comboniano per aggiungersi a quel drappello dei primi otto che da un anno si trovavano a evangelizzare su quel lembo d’Africa.
Immergendosi subito nello studio della lingua della gente e guardandosi attorno ‒ raccogliendo le tradizioni ancestrali nei diversi gruppi etnici ‒ matura in lui quasi un modo nuovo di presenza: non sarà missionario alla maniera dei suoi confratelli, che dalla comunità in cui vivono sciamano ogni giorno nei villaggi intorno, ma da… eremita che nel cuore di un villaggio togolese (all’inizio sarà Logowome, a pochi chilometri dalla missione di Afagnan, nel sudest del Togo) per condividere in tutto la vita della gente che lo accoglie: la capanna come abitazione, il lavoro del campo per mantenersi, lunghe ore di preghiera e lo studio.
Coltivava rapporti di amicizia con le famiglie che lo accoglievano, mentre preparava pazientemente la nascita della Chiesa. Ed ecco nascere in lui l’esigenza di una ricerca di fondo in seno alla società in cui vive, «una ricerca – come ha scritto – che ho inteso non come osservatore esterno, come l’antropologo che viene a preparare una tesi da presentare all’università, ma partendo dall’interno della cultura del paese. In cui mi sono stabilito quindi in maniera definitiva, per essere missionario del Vangelo in seno alla Chiesa locale e condividere le condizioni di vita e le aspirazioni del popolo che sarebbe diventato il mio».
La sua vita missionaria è stata tutta abitata dal desiderio di conoscere profondamente usi, costumi e storia di quel popolo cui il Signore lo aveva inviato per inculturarvi il “Vangelo della gioia”. Un lavoro appassionato e scrupoloso, il suo, durato più di 50 anni. Che altro non è se non un appello tipicamente missionario alla conversione, cui anche la cultura di Ajatado è chiamata.
Gli ultimissimi anni, dopo aver terminato un lavoro storico che copre l’area Ajatado dal IX secolo alla colonizzazione francese (Nigrizia ha presentato i volumi frutto di quella ricerca: febbraio 2015, gennaio 2020), li ha consacrati «ad approfondire, tramite proverbi e altri testi letterari, l’esplorazione della cultura di Ajatado a livello psicologico e metafisico, con l’intento di illuminare possibili vie di una autentica evangelizzazione». Un lavoro che secondo lui doveva portare a quella sintesi culturale – inculturazione, appunto ‒ dove la tradizione viene purificata, tramite l’annuncio evangelico, dalle “pesantezze” ancestrali.
Chi scrive ha avuto l’immenso dono dell’amicizia di padre Roberto. Lo incontravo la prima volta ragazzino di quinta elementare quando era sbocciato in me il desiderio di farmi comboniano. Ero a Trento e lui era “il prefetto”, lo studente di teologia nel seminario arcivescovile della città che faceva da assistente al gruppo di cui facevo parte.
L’espulsione dal Burundi mi porterà a lavorare proprio là dove padre Roberto si era installato nel suo eremo a Logowome nel 1972. Oggi ascolto come allora l’ammirazione della gente per questo “bianco” che aveva scelto di essere uno di loro. Mi rivedo mentre vado a trovarlo nella sua capanna, non lontano dalla missione di Vogan (cittadina del sudest del Togo a 45 km dalla capitale Lomé) dove si era installato a fine 1990, in quello che lui stesso aveva battezzato Eremo della croce gloriosa, dove ha scelto di essere sepolto.
Mi veniva incontro un uomo ormai non più giovane, ma con quel sorriso che lasciava trasparire tutta la luce che abitava il suo sguardo. Voleva la sua presenza semplice e povera, con e tra la gente, dando ormai più importanza alla contemplazione che all’azione. Entravo sempre, prima di arrivare da lui, in quella capanna che fungeva da cappella e che avevo vista coprire lui stesso con il tetto di paglia. Vi custodiva il suo Signore, per adorarlo, alla maniera di fratello Charles de Foucauld, il “fratello universale” nel deserto di Assekrem/Tamanrasset. Il nostro incontrarci tra amici volgeva sull’evangelizzazione, la Chiesa in Africa, i comboniani… Il suo stile di vita non era stato facilmente accolto da tutti i confratelli. Il cruccio mio è di non essere riuscito (ma provato sì…) a farlo accogliere tra noi comboniani come un fratello che incarnava la parte contemplativa del carisma del nostro santo Fondatore.
È così che padre Roberto ha finito per essere accolto tra il clero diocesano di Aneho dall’attuale vescovo, mons. Isaac Jogues Agbémenya Gaglo, che lo ha sempre visto come un autentico figlio di san Daniele Comboni, il grande innamorato degli africani. Poche ore dopo la sua morte, come da suo volere, avvolto in una stuoia, padre Roberto è stato sepolto nel cimitero del suo eremo, dietro la cappella.
Che la terra togolese, padre Roberto, ti sia leggera.