Giovedì 21 gennaio 2016
Papa Francesco, con il cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, ha autorizzato il Dicastero a promulgare i decreti riguardanti le virtù eroiche del Servo di Dio Giuseppe Ambrosoli, sacerdote professo dei Missionari Comboniani del Cuore di Gesù. Ambrosoli, nato il 25 luglio 1923, era il figlio del fondatore della nota industria italiana del miele. Decise tuttavia di non intraprendere la strada del padre per studiare medicina e, in seguito, diventare missionario comboniano. Partì per l’Uganda nel 1956 all’età di 32 anni, dove al nord fondò l’ospedale di Kalongo, tuttora punto di riferimento per tutti i malati della regione, sostenuto dalla Fondazione Ambrosoli. Morì il 27 marzo 1987, nella diocesi di Lira.
Il Servo di Dio Giuseppe Ambrosoli nacque a Ronago, prov. di Como, il 25 luglio 1923, da Giovanni Battista Ambrosoli e da Palmira Valli, la nota famiglia dell’industria del miele e affini.
Battezzato il 29 luglio 1923, dopo una fanciullezza serena e agiata, frequentò le elementari nel paese natale di Ronago e quindi il corso ginnasiale al Liceo Ginnasio Statale A. Volta di Como, che completò al “Calasanzio” dei Padri Scolopi di Genova. Per il liceo, ritornò al Volta di Como dove conseguì la Maturità classica nel 1942. Durante questo periodo della sua vita il Servo di Dio si distinse per l’appartenenza al gruppo del “Cenacolo”, un gruppo a carattere diocesano che si prefiggeva di seguire con maggiore profondità e metodo i giovani più impegnati nell’Azione Cattolica. Il Direttore spirituale dei “Cenacolini” era il famoso catecheta, don Silvio Riva, che da subito riconobbe in Giuseppe un giovane spiritualmente al di fuori della norma e molto impegnato nell’animazione della gioventù della sua plaga di Ronago e poi di Como.
Anche in conseguenza di tale sua profondità spirituale e dedizione apostolica, Giuseppe sentì presto la vocazione alla vita missionaria. Per questo nel 1942 scelse di frequentare la Facoltà di medicina, che però dovette interrompere essendo stato chiamato alle armi il 27 marzo 1944. Inviato nel campo di addestramento a Heuberg (Stoccarda). Nel campo di addestramento in Germania, Ambrosoli ebbe modo di manifestare tutte le sue convinzioni religiose in un ambiente tutt’altro che favorevole alla religione, guadagnandosi l’ammirazione di tutti per la sua coerenza e carità con i commilitoni. A questi con molta spontaneità rivelò che si sarebbe laureato in Medicina e sarebbe entrato in una Congregazione missionaria. Sebbene fosse rientrato in Italia nel gennaio del 1945, per la tragica situazione di quei giorni solo il 14 novembre del 1946 poté riprendere gli studi universitari. Il 28 luglio 1949 otteneva così la Laurea in Medicina e Chirurgia, presso l’Università degli studi di Milano, e dopo un Corso di medicina tropicale al “Tropical Hygiene” di Londra, decideva di entrare tra i Comboniani, nonostante si sentisse attratto anche dai Gesuiti, per il semplice fatto che tra i Comboniani gli era stato assicurato che la prassi dell’Istituto era l’invio immediato in missione dei suoi membri. Anche in questo frangente circa la decisione per il suo futuro dimostrò un equilibrio, una ponderazione e una fermezza ammirabili. Le motivazioni di fede
gli permisero di lasciare tutto per Cristo senza tentennamenti e senza rimpianti: una condizione agiata e un futuro legato alla professione medica che lasciavano intravedere una carriera brillante.
Così il 18 ottobre 1951 faceva il suo ingresso a Gozzano (NO), dove si trovava il noviziato dei Comboniani, e due anni dopo, il 9 settembre 1953 emetteva i primi voti. Poi si trasferì nello Studentato teologico di Vengono Superiore (VA) dove frequentò tre anni di teologia. Il Padre maestro del tempo e i superiori dello Scolasticato riconoscono nel Chierico ambrosoli virtù non comuni di umiltà, amabilità e totale disponibilità al servizio dei confratelli. All’inizio del 4° anno di Teologia, su indicazione dei Superiori e in vista della sua urgente assegnazione alla missione d’Uganda nel settore sanitario, ottenne di essere ordinato sacerdote: ordinazione che avvenne per mano dell’allora Arcivescovo mons. Giovanni Battista Montini il 17 dicembre 1955.
Dopo la prima messa, celebrata a Ronago il 18 dicembre 1955, il 1° febbraio 1956 partiva per l’Uganda, con destinazione Gulu. Da qui si sarebbe trasferito a Kalongo, esattamente il 30 giugno 1961. Fu immediatamente addetto alle nascenti opere ospedaliere della Missione di Kalongo (Diocesi di Gulu), dovendo, nel contempo, terminare gli studi dell'ultimo anno di Teologia sotto la guida dei missionari addetti al Seminario Intervicariale di Lacior, presso Gulu, dove trascorreva parecchie settimane. Compì gli studi in modo molto serio sottoponendosi a tutti gli esami prescritti, tra i quali anche quello di abilitazione all’audizione delle confessioni in lingua Acioli. Lingua in cui ben presto fu un grado di destreggiarsi per svolgere convenientemente l’oneroso carico che gli era stato affidato: quello appunto di gestire un’opera sanitaria pubblica tra gente che utilizzava quasi esclusivamente la lingua del posto.
Qui, all’ospedale di Kalongo passerà tutta la sua vita missionaria. Esattamente 31 anni, dal 19 febbraio 1956 al 13 febbraio 1987. Gli unici intervalli, in cui si assentò dalla sua struttura, furono i brevi periodi rappresentati dalle vacanze, spesso trasformate però in autentici tour de force per aggiornarsi nella sua specializzazione chirurgica e ostetrica e per curarsi da una grave insufficienza renale. In questo tempo, molteplice fu la sua opera, svolta con la collaborazione di personale religioso e con forze laiche, locali e straniere. Oltre all’Ospedale di Kalongo, che con lui alla guida assunse sviluppo e fama notevoli anche fuori dai confini dell’Uganda, nel 1959 fondò sempre a Kalongo la Scuola per Ostetriche e Infermiere; nel 1972 poi inserì nell’area del suo ospedale anche gli ospedali per Hanseniani di Alito e Morulèm e infine nel 1979 riuscì a far sì che la sua struttura sanitaria facesse parte del Programma Ugandese del Dipartimento per la Cooperazione e lo Sviluppo (Ministero degli Affari Esteri).
La sua opera fu conosciuta e stimata, e soprattutto costituì un punto di riferimento qualitativo per tutta la zona centro-orientale dell’Africa. Nel 1963 ricevette il Premio “Missione del Medico” istituito dalla fondazione Carlo Erba e nel 1985 il Premio Pozzi Samuel “Una vita per la medicina” dall’Ordine dei Medici di Milano. Difficilissimo fu ottenere che accettasse questi premi, comunque alla mamma e agli amici manifestò con chiarezza che li considerava riconoscimenti non meritati e non importanti per la sua vita.
Da quanto più sopra affermato, si evince dunque che il Servo di Dio ha sempre vissuto nello stesso luogo, l’ospedale di Kalongo, e quindi in Uganda fra il popolo Acioli. Per questo ha partecipato in prima persona a tutta la storia che ha sconvolto questa nazione africana dopo l’indipendenza. Dall’avvento del dittatore Amin, al dopo Amin, dalla difficile convivenza con i protestanti alla guerriglia che ancor oggi devasta il Nord-Uganda. Tant’è vero che il 13 febbraio 1987 dovette evacuare forzatamente l’ospedale di Kalongo per mettere in salvo tutto il personale e per trovare un posto conveniente alla sua creatura più amata: la Scuola per Osteriche e Infermiere. Sottopose così la sua salute, già gravemente compressa, a sforzi enormi che, alla fine, lo condussero alla morte. Infatti il 27 marzo 1957, alle 15.30, moriva a Lira. Esattamente 44 giorni dopo essere stato costretto a evacuare da Kalongo ed essere riuscito a mettere al sicuro tutto il personale. Anche in questa occasione brillarono la sua calma, la sua fiducia in Dio per il futuro della sua opera e il dono di sé senza risparmio di fatiche, sofferenze e ingratitudine. La fama di santità apparve subito straordinaria per la sua prematura morte, segnata dall’eroismo della sua carità, ma soprattutto per la sua peculiare maniera di esercitare l’arte medica in campo ostetrico così delicato, particolare e importante, specialmente in Africa. Non era quindi solo l’abilità professionale che attirava folle di pazienti, ma era il suo tratto gentile, la sua bontà, la sua pazienza infinità, la sua incredibile disponibilità e la sua trasparenza spirituale che lo identificavano come un vero uomo di Dio.
Di tutto questo tempo di missione, soprassediamo al giudizio lusinghiero e ammirato dei suoi colleghi medici che riscontrarono nel suo servizio sanitario i caratteri della massima competenza, del rigore, dello spirito di sacrificio e della dedizione assoluta fino all’eroicità dell’immolazione fisico-spirituale. Impressiona invece, come tutti abbiamo colto il legame supremo tra la sua professione medica e il suo apostolato sacerdotale; tra la sua fede e carità al servizio continuo e indefesso degli ammalati e la sua fedeltà alle scadenze della vita comunitaria religiosa. In padre Ambrosoli si dava la sintesi tra la professione medica e il servizio sacerdotale. La cura dei corpi non lo distoglieva dalla cura delle anime, anzi ne era tramite e occasione. La cura delle anime lo portava alla cura minuziosa e amorosa dei corpi. Il suo altare era il lettino della sala operatoria e viceversa il lettino della sala operatoria si estendeva necessariamente fino all’altare della celebrazione quotidiana. Un medico che ha lavorato fianco a fianco con lui, lascia questa testimonianza: “Padre Ambrosoli può essere considerato una figura radicalmente esemplare: non tanto per la sua bravura e polivalenza chirurgica, né per la sua capacità organizzativa e gestionale, e neppure per la scelta degli "ultimi", come si usa dire oggi. Nonostante tutto ciò rimanga innegabilmente vero, ma è soprattutto per aver fatto una scelta di servizio e quindi di amore, supportata da una forte capacità organizzativa, che la sua figura diviene esemplare. La sua fu una scelta operata non per vanagloria o smania ascetica e autorealizzativa, quanto invece per rispondere, in umiltà e ubbidienza, quindi "negando se stesso", ad un invito di amore e di servizio basato sulla fede che è come attuazione del comandamento divino di "amare il prossimo". Questo è l'elemento fondamentale che conferisce all'opera di Padre Giuseppe un significato universale. Accessorio e accidentale è il fatto che tutto questo egli lo abbia realizzato in un ospedale della savana africana. Essenziale invece, è che tale scelta di servizio "tecnico", basata sulla fede come adesione operativa al Padre celeste, egli l'abbia realizzata integrandola direttamente in una prospettiva pastorale: carità al servizio del Vangelo ossia al servizio di un "annuncio di salvezza". Questa è la ragione per cui padre Ambrosoli, nel suo operare, non è rimasto succube di una contraddizione tra sacerdozio e professione, ma l'una ha saputo utilizzare a vantaggio dell’altra realizzando tra le due una perfetta integrazione al servizio dell’uomo in un’ottica di fede.