di Antonio Guglielmi, mccj

Ho estratto dalla pagina web “Comboni.org” il documento che alcuni missionari hanno scritto sulla missione “Vivere e lavorare con i più poveri ai margini”. Rivolto ai delegati del capitolo 2009. Non sono delegato al capitolo, ma mi considero un missionario inserito nella missione. E…

Roma, 26.06.2009


Ho estratto dalla pagina web “Comboni.org” il documento che alcuni missionari hanno scritto sulla missione “Vivere e lavorare con i più poveri ai margini”. Rivolto ai delegati del capitolo 2009, il documento viene sottoscritto da quasi duecento confratelli sparsi nel mondo, il che significa che tutti devono aver letto e concordato con quello che viene pubblicato. Ho poi elogiato l’iniziativa, perché già mette in pratica quanto viene chiesto di creare cioè un networks tra la famiglia comboniana. Allo stesso tempo, mi rende felice che il tema dell’inserzione, come metodologia missionaria appassioni tanta gente.

Non sono delegato al capitolo, per cui non mi avrebbe dovuto interessarmi più di tanto, se non fosse per il semplice fatto che mi considero un missionario inserito nella missione o negli ambienti dove mi è stato richiesto di svolgere un servizio di evangelizzazione. Ho confrontato un dizionario di lingua italiana, la parola inserzione si applica ad altri contesti. E’ più corretto parlare di inserimento di persona o di un gruppo in un ambiente. Lo stesso non gradisco la parola inserimento, preferisco parlare di presenza solidale, ne darò ragione nel corso della riflessione. Inserimento fisico: c’è tanta gente con il corpo in un determinato luogo, ma il pensiero, il cuore é davvero lontano di lì. Come parlare di essere un missionario inserito, quando ammalato, viene subito portato nei migliori ospedali per essere curato, in qualsiasi paese si incontri? La gente che ci circonda deve ricorrere all’assistenza medica municipale, che è precaria.
Credo che parlare di presenza solidale ci renda più veri e più umili. Presenza solidale o solidarietà è un modo di farsi prossimo alla gente, di avvicinarsi a loro, vale a dire essere presenza significativa attraverso uno stile di vita e l’esercizio della missione, privilegiando i destinatari: i poveri. Perché sia solidale deve tradursi in gesti, attitudini, impegni, scelte coraggiose a favore dei poveri, che costituiscono una buona parte dell’umanità e di costoro ci sentiamo responsabili. Diventa così il modo di essere, di mettersi in contatto con la realtà e le persone che la compongono, anche se uno è costretto a trasferirsi. Può essere vissuta con differente forma e intensità, secondo come uno è chiamato a dare il suo contribuito alla missione. E’ qualcosa che supera di molto il “semplice fare”. La persona porta con sé uno stile che va acquistando attraverso la conoscenza, l’educazione, l’esperienza religiosa che vive.

E’ suo, nel senso che è il suo modo di porsi davanti agli altri, senza fingere, ma con tutto quello che è e crede. In tal senso possiamo affermare che essere solidali svela il mondo interiore del missionario, rivela l’uomo amante di Dio, manifesta la serietà con cui affronta la vita quotidiana, ma soprattutto la sua forza interiore che lo spinge a porsi davanti alla realtà, indipendentemente dai luoghi in cui si trova ad agire. Presenza solidale impone uno stile di vita e di mentalità anticonsumistico, più semplice, nel rispetto dell’ambiente. In qualsiasi spazio ci si trova sei chiamato a essere coerente con te stesso
Penso di aver vissuto e riflettuto abbastanza nei miei venti sette anni di vita comboniana “sull’essere inseriti” come metodologia missionaria, prossimo ai poveri, fonte di conversione.

Inoltre, non conosco l’Africa, e questo è il limite della mia riflessione, che trova la sua ispirazione nel Nordest del Brasile, in una regione dominata da una famiglia che controlla tutto.
Mi permetto di fare delle osservazioni al documento, e di dare qualche suggerimento a partire della mia esperienza di inserimento in tutte le realtà dove ho vissuto. Sono cosciente del fatto che mi rendo vulnerabile, poiché mi espongo al giudizio dei lettori, ma spero tanto che ne venga arricchita la missione ed io.

1. Alcune considerazioni sul documento

Sorvolando sull’icone biblica, che ho trovato povera, il Tempio non edificato da Davide, fu costruito più tardi dal suo successore; lo stesso Gesù lottò contro la distruzione dello stesso, ma ne costruirono altri dopo la sua morte e, se non stiamo attenti, anche “l’inserzione”, oggi corre il rischio di essere un altro Tempio a cui sacrifichiamo vite umane ed energie.
Il documento è povero di storia della missione comboniana, sorvola su quelle che sono state le presenze significative in linea alla solidarietà e alla giustizia, sembra quasi che si cominci adesso. Inoltre non è così palese e netta la divisione fatta tra coloro che vivono un inserimento fisico e globale e quelli che in qualche maniera hanno un modo “tradizionale” di fare missione. Dovremmo essere consapevoli che le nostre pratiche sono contraddittorie e non è detto che un missionario tradizionale non abbia assunto forme di inserimento o uno considerato inserito non sia sfuggito ad una pratica tradizionale. Faremmo bene, come ha fatto Gesù, che chiese ai suoi discepoli :”Chi dice la gente che io sia”, anche noi a sottoporci al giudizio pubblico per vedere quali sono i missionari che la gente ricorda di più, apprezza, ne conserva la memoria.
In più il documento non fa capire cosa alimenta, dà forza, nutre coloro che accettano una simile sfida.
Fa una apologia dei poveri, quasi non avessero difetti. I ricchi hanno gli stessi difetti o difetti peggiori. I poveri di oggi sono diversi dai poveri di trenta o quaranta anni fa. Erano più obbedienti, umili, manifestavano una certa fede in Dio, erano sostenuti da legami affettivi. Chi conosce le grandi città sa bene che le periferie sono violente. Alcool, droga, prostituzione, Aids, armi sono un perfetto cocktail per chi è disoccupato o non è riuscito ad avere una professione e deve sopravvivere. Hanno bassa stima di se stessi, in casa non esiste la figura paterna, per cui la stessa donna deve svolgere un doppio ruolo; giustamente si fanno carico di una dose accentuata di aggressività, sono incostanti. Molti di loro non sono interessati al discorso religioso, lo ignorano e poi si esercitano nella professione pericolo, nel senso che non hanno interesse per la loro vita, possono anche morire in un confronto con la polizia o tra rivali del momento. Infine hanno un modo di pensare ed organizzare la vita che ha prodotto una cultura completamente differente e che ci distanzia dal loro mondo, nonostante il desiderio, espresso dal documento, di arrivare ad essere come loro.
Si insiste sul sedere con la gente, ma i comboniani che vivono questa esperienza hanno tempo per questo, mi chiedo? Quanti sono i missionari che hanno tempo per sedersi con i vicini di casa e conoscono le peripezie della loro vita?
Perché non facciamo una verifica delle esperienze in corso, prima di girare la pagina per un nuovo capitolo sull’inserimento. E’ vero, ci sono state varie esperienze di inserimento, alcune più riuscite altre meno: Ecuador, Kenia, Uganda, Brasile, ma non siamo stati mai capaci di accoglierle e farne oggetto di una seria analisi critica, anche per rispetto di chi ha creduto e ha speso tempo ed energie, spesso con l’appoggio delle autorità. Liquidiamo certi progetti perché chi è stato coinvolto ha lasciato la congregazione. Questo non autorizza nessuno a dire che quello che è stato realizzato non sia significativo per la missione.

Sono reduce nei miei ultimi cambiamenti di potature radicali effettuate sia dai superiori come anche da chi ti sostituisce. Si va diritto al trasferimento e si tagliano i rami principali, persone, esperienze, contenuti, lasciandone il tronco, le strutture. Passerà qualche anno e quel tronco, prima che venga a riprendersi dalle potature che ha sopportato, una volta che non sono state ascoltate la chiesa locale e le persone che hanno vissuto queste presenze solidarie, potrà rifiorire.

Per esempio chiedo: cosa dire a quei giovani del GIM, che qualche anno fa, sul notiziario della provincia italiana scrivevano una lettera aperta ad un missionario rientrato per un servizio in Italia e continuava a parlare della missione che aveva lasciato, delle lunghe celebrazioni, dei laici, dei poveri e da qualche tempo in Italia non si era ancora inserito nelle nuove realtà italiana? La lettera chiedeva al missionario che la smettesse e imparasse ad accogliere questa nuova realtà, perché anche lei amata da Dio!
O cosa rispondere al postulante che dice al formatore che chi doveva inserirsi nella realtà dei poveri era lui, visto che la maggior parte dei suoi compagni conosceva la fame, la malattia e sapeva chi aveva fornito le armi con cui erano stati uccisi i propri familiari?
O che dire del missionario, che come un carcerato, cancella dal calendario i suoi giorni di permanenza in Europa per andare in missione?

Sono rimasto sorpreso che il documento parta ancora da missionari europei. Le voci delle vocazioni delle nuova geografia comboniana non dicono niente, stanno in silenzio. Loro, ancora in sordina, discutono, sorridono, commentano, ma per il momento non si esprimono, non si manifestano pubblicamente. Manca la voce della Chiesa locale, anche se discordante, sarà lei a dare, in qualche modo, continuità ad un impegno, se questo è stato significativo.

2. Presenza solidale: un po’ di storia personale

Agli inizi degli anni ottanta, ho avuto la grazia di fare lo scolasticato a San Paolo, quando si comprò una casa semplice, che precedentemente era stata abitata da tre famiglie. Mobili usati, trasporto collettivo, telefono pubblico. Tra i gruppi di novizi di quel tempo, lo scolasticato suscitava attrazione e simpatia. All’epoca eravamo nell’occhio del ciclone, a livello di congregazione. Se fosse dipeso dai segretari della formazione che si avvicendarono all’epoca avrebbero subito chiuso. Ci fu un periodo che i provinciali non mandavano i loro scolastici o venivano assegnati quando non c’era più posto altrove. Fu necessario una lettera del padre generale per assicurare ai provinciali che gli scolastici erano destinati dal consiglio generale. Per alcuni anni rimanemmo brasiliani e italiani. Personalmente la ritengo una esperienza unica, che ripeterei di nuovo. Il limite? Avrei potuto studiare un po’ di più, ma dipendeva da me. Ancora oggi, dopo essere stato alcuni anni in Italia e poi ben 17 anni nel Brasile Nordest, anche come formatore, ho imparato tantissimo, cose che mi sono servite e che costituiscono un riferimento nella mia vita umana, spirituale e missionaria. Avevamo l’essenziale. Preparavamo il pranzo la sera prima e al rientro da scuola il primo ad arrivare lo riscaldava. Ricordo l’impegno del formatore di aiutarci a vivere dentro un preventivo mensile, che faceva metro a quello delle famiglie di tanti operai che circondavano la nostra casa: che fatica! Il lavorare durante le vacanze estive o realizzare piccoli lavoretti per collaborare con gli studi. Erano gli anni in cui, aiutati dalla Chiesa locale, le case di formazioni uscivano dalle grandi costruzioni o dai quartieri nobili e andavano ad abitare nelle periferie. Sostenute dai vescovi tali scelte aiutarono la vita religiosa a scoprire il mondo dei poveri.
Dopo ordinato fui destinato a Bari, lavoravo nella formazione e ci trovammo ad accogliere gli sbarchi di intere popolazioni che arrivarono al porto: albanesi, curdi, pakistani. La casa comboniana era stata sempre una struttura inserita nella vita della città. Negli anni anteriori, la comunità aveva accolto, per qualche anno, una famiglia di sfrattati: 12 persone, ma anche tante altre persone al punto che in qualche momento ospitando un matto corremmo pericolo di vita.

Infine venne la missione nel Nordest del Brasile: Balsas, Fortaleza, Balsas di nuovo. Agli inizi rinunciai ad avere un auto. Mi muovevo in bicicletta. Abitavamo in un quartiere di periferia, litigai con la mia comunità perché voleva costruire un muro alto di separazione dai vicini per mantenere la nostra privacy, riuscimmo a farlo più basso, di una struttura semplice, come erano tracciate le divisioni di tutti i vicini. Non appena andai via oltre al muro e la bicicletta, che fu regalata, ampliarono il garage per aggiungere un’altra macchina ed aumentarono le stanze. Ricordo un episodio curioso: io contento della mia bicicletta, pensavo alla grande testimonianza che stavo dando, quando due anziane animatrici di comunità mi dissero che erano andate dal vescovo a chiedere un auto per me, perché non era giusto che tutti i padri ne avessero una ed io con la bicicletta. Chiesi perché avevano fatto questo? Candidamente mi risposero: cosi quando vai al centro possiamo chiederti un passaggio!

Poi la formazione con i postulanti, esperienze formative e pastorali nella linea della solidarietà ed il ritorno a Balsas per altri sette anni, sempre con l’intento di portare avanti una missione solidale nella stessa casa di prima, che nel frattempo aveva visto varie riforme in accordo con i criteri del missionario del momento. Momenti belli, carichi di umanità, fatta anche di conflitti. La presenza al carcere, il coinvolgimento della comunità comboniana con il movimento popolare per una abitazione degna per tutti, la vita delle comunità ecclesiali, rete di comunità, articolate da un gruppo di laici, scelti dalle stesse comunità. Momenti di sostegno reciproco soprattutto quando esposti e criticati per le denuncie fatte ai politici per l’uso improprio che facevano dei soldi e per la repressiva violenza della polizia.
In questi anni non ho cambiato idea. Ho cambiato il modo di approcciarmi verso coloro che non si sentono o hanno deciso di essere presenti in maniera diversa. Chi mi ha fatto crescere nella libertà sono stati i poveri: loro sanno aspettare e rispettare, senza fare violenza.
Voler essere una presenza significativa è una scelta di fede, è un dono, è capacità di esercitare certa leadership. I poveri manipolati da tutti hanno bisogno di persone che danno loro fiducia, che costituiscono un riferimento nei momenti di tensione, che diano loro la garanzia che non saranno sfruttati ne usati, anzi possono contare sulla loro leadership.

Concordo che la scelta del luogo è importante per il futuro della nostra azione evangelizzatrice. Gesù andò in Galilea. Questa scelta già era una buona notizia, vangelo. Lui non aveva bisogno di parlare molto per realizzare i suoi segni. La sua presenza dava gioia e speranza accompagnata dai segni che realizzava e dalle parole che pronunciava. L’evangelizzazione non ha bisogno di molti discorsi, la scelta giusta del luogo per il missionario è essenziale per una presenza solidale. Gesù, con le parole e i suoi atti, alimenta la speranza, soprattutto dei vinti, degli esclusi della storia, apre una porta per quelli che erano prigionieri della povertà, schiavi dell’umiliazione, rigettati per l’esclusione.
Sono convinto che senza un confronto diretto con loro, una motivazione di fede, senza fare silenzio e rimanendo fedeli al quotidiano, rinnovando questa scelta giorno per giorno la presenza tra gli ambienti più poveri stanca e diventa noiosa, insopportabile, sa di teatro.

Con quei poveri descritti anteriormente ho condiviso ed ho imparato ad amare e rispettare, perché come ebbe a dire Gesù, secondo Luca 19,10: “Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e salvare ciò che era perduto”. Con questi “perduti” moralmente, religiosamente, economicamente, socialmente e culturalmente continuerò a condividere la mia vita, in qualsiasi luogo venga a trovarmi. Infine, anche in Italia, ho vissuto la mia vita missionaria nella solidarietà con i più poveri, perché ormai è diventato il mio stile di essere missionario.
Per di più quello che continua a sostenermi è una solida spiritualità, senza di essa diventiamo funzionari del sacro oppure operatori sociali. Spiritualità legata ad una forte passione per il Nazareno ed i suoi fratelli che ti fa sopportare i poveri che dal presto mattino, arrivando da lontano, approdano alle porte della tua casa e aspettano di poter parlare con te o semplicemente vederti perché questo li riempie di gioia.

Attenzione ai “missionari in transito”, a coloro che usano l’ambiente, i poveri per mostrare una cosa che non vivono. Chi, in quegli anni, passò per lo scolasticato di San Paolo aveva tutto per scegliere ed inserirsi, per essere solidale. Non tutti hanno voluto fare questa scelta. Non appena fuori non hanno evitato, come afferma il documento, la vita borghese, ma ricercato e scelto come stile, anche di vita missionaria. In più deriso gli stessi poveri, quando meritano, prima di qualsiasi aiuto, rispetto per la propria dignità.


3. Presenza solidale della gente verso le comunità inserite

Essere presenza solidale significa accettare la solidarietà della gente verso coloro che si trovano in mezzo a loro. Abitare con loro è condividere la vita fatta di insicurezza, paura, difficoltà ad uscire la sera di casa, o lasciare la casa da solo. Sopportare il chiasso delle feste notturne, come anche non brontolare se manca l’acqua per dieci giorni, oppure è mancata l’energia tre volte quel giorno.
La solidarietà non è mai a senso unico, è scambio, presenza, affetto, relazione.
In una parrocchia della diocesi di Balsas, la comunità delle suore lavora nell’accoglienza, nella prevenzione e nell’educazione di ragazzi e adolescenti a rischio. La casa delle suore è separata dal centro educativo. Quando le suore ricevono qualche ospite le donne che lavorano con loro organizzano gratuitamente una pulizia generale alla loro residenza, senza che le stesse lo esigono. Il paese è piccolo. Le suore dispongono di un solo computer con Internet. Connettersi è complicato, e quando è possibile le religiose permettono ai giovani della comunità di farne uso. E poi… se hanno bisogno di qualche servizio come lavare la roba, o preparare da mangiare favoriscono persone che fanno difficoltà a fare bene ciò che viene richiesto, anche se pagato, ma in compenso hanno dato dignità alla persona, che esce felice per aver guadagnato del suo.
Suor Diane, religiosa canadese, arrivata nel Nordest del Brasile negli anni sessanta per dare lezioni di francese e musica presso il collegio della sua congregazione, aveva la missione di convincere gli alunni ad appassionarsi per la musica ed il francese, cosa impossibile. Negli anni settanta vendono il collegio e scelgono di abitare in una favela, per guadagnarsi da mangiare lava la roba alle mamme dei suoi ex alunni, fa la domestica. Si impegna nella formazione delle comunità ecclesiali di base e porta avanti il suo impegno politico: aiuta a fondare il sindacato, poi il partito dos trabalhadores, partito dell’attuale presidente del Brasile; accompagna il movimento dei senza terra che rivendicano la riforma agraria del paese, si inserisce nella pastorale giovanile con vari corsi di formazione. Quando la conobbi a metà degli anni novanta in un corso di direzione spirituale, Diane aveva lasciato la favela e si era ritirata presso un monastero fondato da pochi anni, una struttura semplice portata avanti da una associazione religiosa. A qualche chilometro dal monastero, ci sono le case di lavoratori che tagliano la canna da zucchero. Famiglie intere, dal più piccolo al più grande che vanno a lavorare, corpi adolescenti deformi, avviati all’alcool, senza istruzione e altre prospettive di vita. Lavoro rischioso perché la canna da zucchero è tagliente e nei campi si annidano serpenti. Diane con la sua comunità monastica mista condivide con loro la vita, senza perdere l’orario della vita monastica che comincia alle 4.00 della mattina. Quando per alcuni mesi il monastero venne ripetutamente di notte assalito da una banda del posto, i tagliatori di canna si sono organizzati per difendere i loro monaci, fino a quando i banditi hanno desistito dalle loro incursioni notturne. Sono presenze silenziose che non fanno rumore e crescono come alberi piantati lungo i corsi d’acqua della solidarietà. Presenze capite dai poveri che non si sentono oggetti, ma rispettati e accolti. Presenze senza frontiera poiché tutti gli spazi diventano di tutti e non esistono cartelli: proibito l’entrata agli estranei.

4. Presenza solidale nella tradizione comboniana

Di esempi di presenza solidale ne conosco molti. Ne riporto uno perché è una missione al tradizionale e per la stima e l’amicizia che nutrivo verso il confratello, scomparso qualche tempo fa: padre Emilio Ragonio. In una parrocchia della diocesi di Balsas, padre Emilio è tornato tre volte nella stessa comunità. Coloro che si sono alternati, non sono riusciti ad inserirsi e hanno abbandonato il campo di lavoro. Realmente è una realtà sfidante, povera, poco stimolante. I migliori abitanti sono emigrati, sono rimasti quelli che hanno poca iniziativa, non hanno mai lasciato il paese perché incapaci di andare altrove. Difficile incontrare persona di una certa autonomia. Il missionario che vi ha fatto ritorno è uno di quelli che il documento giudica come “un modo tradizionale di fare missione”. Avevamo chiesto alla gente perché volete bene e fate festa tutte le volte che il padre ritorna? Chi ha risposto sono stati i più giovani: perché lui ci vuole bene ed abita qui con noi. Questo ci da valore. Padre Emilio aveva trovato il linguaggio per comunicare con i fedeli. Non era fatto di parole e neanche di idee interessanti, anzi le sue celebrazioni erano monotone, ma la sua vita, espressa in gesti semplici parlava più alto.

Mi chiedo se i missionari che hanno scritto opere di antropologia, etnologia, raccolto proverbi, dizionari o provveduto alla traduzione di testi biblici o liturgici, coloro che sono rimasti nelle aree dei profughi, che il documento riconosce per la loro dedizione erano missionari in transito o missionari inseriti? Quelli che sono rimasti nelle aree di guerra erano rimasti li per un spot televisivo? Credo che nessuno riesca a conoscere e a scrivere su una realtà se non è pienamente inserito, non abita quella realtà, se non si fa carne. E nessuno è capace di rimanere in un luogo se non è stato sedotto da quelle persone. Altrimenti esclameremo come quella missionaria, che dopo aver lavorato nel campo della sanità, per trentanni, alla vigilia del suo rientro in patria, commentava tristemente che se fosse ritornata dopo alcuni anni, non avrebbe avuto una famiglia dove sorseggiare un caffè.

Il documento parla di due tipi di inserimento: quello globale e quello fisico. Espressioni che mi fanno sorridere. Inserimento globale mi lascia un po’ perplesso, sembra essere fatto da quei missionari che non si preoccupano di essere consumisti, spendono senza discernimento, usano la chiamata high technology. Ostentano prodotti high tech: computer ultimo modello, telefoni cellulari, apparecchi elettronici ecc.. Loro sono gli esperti di problematiche sociali, di diritti umani, di giustizia e pace ed esercitano lo strumento potente di advocacy. Sono i teorici dell’inserimento, che idealizzano come bisogna lavorare. Missionari che vivono di congresso in congresso, che viaggiano, che non evitano uno stile di vita borghese, hanno una vita notturna folta di impegni per discutere tutte problematiche inerenti alla missione.
Conosco missionari che ostentano a tutti, che vivono in un quartiere povero e violento, suscitando ammirazione negli uditori che li definiscono coraggiosi. Loro non andrebbero mai a vivere in simili quartieri. Davanti a questi commenti l’ego del missionario esala. Però lui non è un residente del quartiere usa lo spazio per dormitorio e, il quartiere, lo ha reso una fucina di progetti sociali. Dai poveri c’è poco da imparare, qualcuno esclama!
Oppure inserimenti famosi che puntualmente accolgono visite di laici che hanno la pretesa di aiutare, di fare qualcosa. Il missionario, continuamente in situazione di emergenza, è contento, accetta tutti, ma agli occhi della gente del posto rimane uno straniero, continua ad avere soldi, a parlare la lingua del suo paese di origine, a mostrare i lati più abbietti della miseria.

Una presenza solidale impara a formare reti di solidarietà, ha bisogno di gente competente per capire i meccanismi di morte del mondo degli esclusi, destinato a crescere spaventosamente perché è la dinamica del sistema economico vigente, ma deve saper essere discreta, non fare chiasso, disprezzare la ribalta perché facilmente si è portati ad apparire come i veri protagonisti della missione. E’ la tentazione di tutti coloro che fanno qualcosa per i poveri e non con i poveri.


5. Presenza solidale e formazione

E’ un tema delicato e non facile. Il documento parla di formazione “evitando uno stile di vita borghese”. Per me non si tratta di evitare, visto che è il nostro stile, ma di scegliere uno stile alternativo. Si sceglie ciò che piace, è accattivante, seduce. Se i giovani non scelgono è perché il messaggio che diamo è il contrario. La provincia peruana nell’assemblea 2008 ha votato una mozione contro lo scolasticato inserito[1]. Esiste molta confusione a riguardo, perché non sappiamo rispettare i processi e non li verifichiamo, prima di partire per altre esperienze. Prima ancora di votare bisogna aver ascoltato e conosciuto.
Si parla molto di una formazione inserita. Per alcuni si tratta di imparare a fare non più i parroci, ma altro, come un maggiore impegno nelle questioni sociali, una formazione non solo teologica, ma più interdisciplinare. Altri hanno paura che “inserita” voglia dire assenza di preghiera, poco tempo di vita fraterna e di studio, impegno no global.
Comunque non è la soluzione magica. Si scherza con vite umane ed il pericolo è chiedere a loro che facciano quello che idealmente sta nella testa di alcuni. Il processo di presenza deve essere graduale. Conosco esperienze formative che hanno bruciato le tappe collocando i giovani in campi pastorali che nessuno della provincia osa fare.
Ammiro il coraggio di quei missionari che accettano di passare attraverso il crogiuolo della formazione. Tuttavia trovo strana la loro nomina. Alcuni che vivono in un paese sono contattati per assumere la formazione in un altro paese con giovani che vengono da altre realtà. Che presenza saranno? Quali i criteri di verifica? Sono stati preparati per questi salti? Alle volte è una emergenza permanente quella di alcuni settori vitali della congregazione.

Ci sono formatori che non hanno mai vissuto una presenza solidale, sono paternalisti, continuano a distribuire beni ai poveri. Non riescono ad essere fratelli dei poveri, non sanno stabilire una relazione proporzionale ma hanno imparato ad essere buoni papà, facendo concorrenza al babbo natale, nel momento di elargire regali ai più poveri. Un rapporto corretto ed educativo è sempre di scambio, di reciprocità.
Tra i valori che ti trasmette una missione vissuta vicina ai poveri è quello di essere umano con se stessi e con gli altri, e poi la ricerca di ciò che è essenziale nella vita. Sì, con i poveri devi fare sempre i calcoli con quello che è essenziale dall’accidentale.
E’ essenziale la vita, la sopravvivenza.
E’ una peculiarità da curare e non perdere: essere umani. Dei nostri formatori ricordiamo non le catechesi, ma il loro tratto umano, per come hanno saputo accogliere il nostro vissuto e comprenderlo. Comunque mi sembra che quella umana è una caratteristica che sta scomparendo.
Purtroppo la nostra formazione poco prepara i candidati ad essere solidali con i poveri perché al momento degli scrutini ciò che determina l’accettazione non è l’amore per i poveri, la capacità di essere solidali con gli esclusi, di far “causa comune con gli abbandonati”, l’essere tolleranti e uomini di dialogo, l’elasticità mentale per affrontare i nuovi ambiti missionari, le situazioni più eterogenee della modernità, ma sono altri valori che fanno il buono e bravo religioso: la preghiera, la partecipazione ai sacramenti, la fedeltà alla Chiesa, il rispetto per gli orari della vita comunitaria. E poi come è possibile esigere valori che non si vivono?

Ricordo di un postulante che non è stato accettato al noviziato e tra i motivi c’era anche la mancanza di solidarietà con i più poveri, ma non credo che nella storia della congregazione rientri come criterio d’ammissione quello della solidarietà, tanto è vero che alcuni confratelli giovani hanno grandi difficoltà ad essere missionari in tali ambienti e subiscono con tremore una destinazione a rischio.
Ora niente succede quando mancano le motivazioni, la forza di un grande amore per i poveri, questo vale per i formati ed i formatori. Esso non è innato, o naturalmente sviluppato, non è spontaneo, ma deve essere coltivato, alimentato, stimolato e acquistato. E’ dono di Dio e perciò esige una conversione totale, un cambiamento di rotta anche se ci sono ripensamenti, frustrazioni, difficoltà, resistenze.
Concludendo dobbiamo stare attenti a non fare un mito di ciò che viene chiamata formazione inserita, perché molte delle botti sono vecchie e a contatto con il vino nuovo possono scoppiare e perdere le botti come il vino. Essere scelti a fare i formatori non significa aver fatto una scelta di presenza solidale tra i poveri, credere che i poveri possono essere soggetti e quindi anche partecipare al processo di discernimento del candidato. E poi trovo che la sfida più grande, sia per la formazione come anche per un nuovo stile di presenza missionaria, secondo me non viene dalla mancanza di idee, ma sono le mediazioni pedagogiche – educative per far si che questo amore, che si manifesta attraverso la presenza solidale, si traduca in nuove pratiche, diventi uno stile acquisito di come essere missionari, portatori della buona notizia. E’ un problema di comunicazione, di linguaggio, perché ciascuno sa comunicare a partire dal suo interiore.

Ritengo anche di fare molta attenzione a non fare un uso improprio dei poveri per ragioni formative, anche se nobili. Riprodurremmo in tal caso non un rapporto di scambio mutuo, ma egocentrico e quindi strumentalizzato per fini congregazionali.
Una formazione inserita deve necessariamente essere contestualizzata in un processo più grande e non semplicemente interessata a formare individui per la missione. Deve mirare alla evangelizzazione e alla liberazione dei popoli oppressi. Deve contare sulla partecipazione dei laici, e sull’appoggio della Chiesa locale nella formazione dei missionari. Mancando queste prospettive più globali la nostra formazione sarà fine a se stessa semplicemente con alcune nuove sfumature.
Riprendendo l’idea di inserimento globale, la differenza tra coloro che parlano di inserimento e che hanno un impegno per i poveri e tra coloro che sono una presenza solidale sta proprio nel fatto che questi ultimi hanno saputo tradurre in gesti, dare forma, incorporare la compassione in persone concrete, creando rapporti di reciprocità con i più poveri e gli esclusi. E’ necessario questa partecipazione corporale, con tutto se stesso, perché una semplice conoscenza o simpatia per le statistiche ufficiali, le analisi di congiuntura politica, gli studi sociologici sulla miseria rende sterile l‘essere inseriti, oh scusate essere solidali!


6. Essere una presenza solidale

Che cosa implica una presenza solidale? Essa implica un’autentica conversione, per evitare di essere missionari in transito. Riprendo alcune indicazioni che appaiono nel documento ampliandone la riflessione.
In primo luogo imparare a vedere la realtà con gli occhi dei poveri. Normalmente guardiano le realtà dei poveri con gli occhi dei ricchi. Perciò da uno sguardo attento percepiamo quello che c’è: sporcizia, confusione, ritardi, aggressione, povertà, malattia, timidezza, disorganizzazione. Difficilmente sapremo fissare lo sguardo sull’impegno che hanno messo per ricevere e offrirti qualcosa, accogliere, fare festa, essere vicini a chi soffre. I poveri chiedono a noi di essere visti, riconosciuti. L’unico loro potere sta nel guardarci. In Atti 3,4 Pietro e Giovanni commentando del paralitico dicono tra di loro: “Guarda verso di noi”.
Secondo significa chiedersi come sopravvive un povero? Coloro che lavorano hanno una obbedienza quotidiana: alzarsi presto tutte le mattine e recarsi al lavoro, rientrando a sera tardi. Essi hanno un grande interesse nel non perdere quel lavoro. Il fine settimana è per la famiglia o qualche altra attività. Di che vive un missionario in una realtà inserita? Di offerte? Di stipendi? Di elemosina? Noi non parliamo mai di lavoro, non abbiamo nessuna preoccupazione di arrivare in ritardo al servizio, o tranquillamente possiamo assentarci perché ci sarà l’assemblea della provincia. Manchiamo di una obbedienza, di una spiritualità del lavoro, che è il primo strumento per essere solidali con tutta l’umanità. Non solo con i poveri, ma anche con i borghesi. Per lavoro intendo la mansione che ciascuno è chiamato ad esercitare dentro la sua comunità.

Terza considerazione dobbiamo chiederci: come un povero amministra i soldi? Come possiamo parlare di presenza solidale, se i soldi per noi non sono mai un problema, anzi la soluzione per non evitare la vita borghese. I poveri che hanno pochi soldi, fanno i loro calcoli, come anche le nostre famiglie e se una spesa non rientra nel bilancio si aspetta. Noi purtroppo facciamo i preventivi che poco rispettiamo.
Quarta considerazione: svuotarsi del potere. Nel rapporto con gli altri dovremmo spogliarci del potere, dell’autorità che abbiamo o ci delegano gli altri. Perdere il potere come ha fatto Gesù con l’adultera che ha rinunciato ad applicare la legge di Mosè, perché la donna sentisse la misericordia del Padre e lei stessa si rigenerasse accogliendosi come persona perdonata. Questo significa che bisogna rispettare certe decisioni che i poveri prendono, anche quando vanno contro i nostri principi. Possiamo aiutare a discernere, ma non spetta a noi condizionare o imporre la decisione finale. Nell’ora di una elezione politica noi indichiamo e scegliamo i candidati usando la ragione. La gente usa altri criteri: la sopravvivenza e il grado di amicizia, di simpatia, di affetto.

Quinta considerazione: l’impegno di genuina carità e gratuità è quello con i poveri. In tutte le parti del mondo aumenta il numero di persone vittime di questo sistema economico. Chi ha lavorato con queste persone sa bene che a grandi investimenti corrispondono pochi risultati, piccole conquiste perché ci incontriamo in un mondo umano dai rapporti fragili. Il vivere dentro questi ambienti ci fa capire del bisogno di agire avendo coscienza di non aver compiuto in pieno la nostra missione. Senza generosità e gratuità non ci sarà mai presenza solidale o solidarietà. Partiamo svantaggiati, perché gli altri delegano a noi competenza, sapere, autorità, capacità di fare ed organizzare. Una presenza solidale impara a canalizzare queste risorse facendo insieme, con i tempi della propria gente. Così facendo dare inizio ad un processo, che non coglieremo i frutti, ma saprà generare autonomia e libertà nelle persone in tempi più lunghi.
Ci deve essere un cambio di mentalità, di cultura affinché la nostra presenza diventi solidale, questa richiede umiltà, discrezione e una conversione profonda.
Sesta considerazione: esercitare la carità come impegno politico, affinché sia garantito a tutti l’accesso a ciò che è patrimonio di tutti, venga assicurata una vita degna ed una equa distribuzione dei beni. Noi missionari pecchiamo di puritanismo, nel senso che apparentemente non ci sporchiamo le mani con la politica, ma sappiamo fare bene scelte politiche che riguardano i nostri interessi.
Credo che senza una vera disciplina, che parta da una forza interiore, sostenuta dalla ricerca continua delle orme del Maestro rimane difficile garantire una presenza significativa che sia di conforto e di speranza per gli esclusi, secondo i criteri della solidarietà.
Spero tanto che il Capitolo 2009 sappia guardare a quello che siamo, devolvendo sprazzi di speranza a quanti già sono inseriti o se preferiscono sono una bella presenza solida, dentro la congregazione, e solidale.


p. Antonio Guglielmi, mccj
agug23@yahoo.com.br


1 “L’ assamblea està de acuerdo em que nuestra provincia no apoye la experiencia de teologato inserito (SI 27/ NO 2/ Abstenidos 8) Bollettino provincial “Combonianos en Perù y Chile”, numero 176/febbraio 2008, inserto pagina VII, mozione 4

Vivere e lavorare con i più poveri ai margini?