Il racconto della guarigione di un lebbroso [Mc 1,40-45] domina la liturgia della parola di questa domenica. Gesù lo guarisce e lo restituisce alla società. E’ un segno che incomincia con lui il regno di Dio, il tempo messianico in cui l’uomo è guarito nel corpo certamente, ma anche in vista di un rinnovamento totale.

La domenica delle trasgressioni e la giornata della rabbia!

“Lo voglio, sii purificato!”
Marco 1,40-45

Il protagonista del vangelo di questa domenica è un lebbroso che osa fare qualcosa di impensabile per la sua condizione: avvicinarsi a Gesù per chiedere la guarigione! Siamo ancora alle prime battute del vangelo di Marco. Dopo la giornata programmatica di Cafarnao, di cui si è parlato domenica scorsa, Gesù è in giro per i villaggi della Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demòni” (v. 39). In questo contesto viene introdotta questa guarigione. Si tratta del primo grande miracolo raccontato nei vangeli sinottici (Marco, Matteo e Luca). È un miracolo con una profonda portata simbolica. Si parla, infatti, di un lebbroso, senza specificare nome, circostanze, tempo e luogo dove avviene il miracolo. Il lettore viene velatamente invitato a identificarsi con questo uomo e, in un incontro personale con Cristo, professare la fiducia nella sua compassione e potere salvifico: “Se vuoi, puoi purificarmi!”Questo lebbroso è lo specchio della nostra propria condizione. Un vangelo che ci predispone già all'ingresso nella Quaresima, mercoledì prossimo.

1. Un miracolo strepitoso e... rischioso!

Per capire meglio la portata di questo miracolo, bisogna tenere conto che la lebbra era la più temuta delle malattie, non solo per i terribili effetti sfiguranti che rendevano irriconoscibile la persona, ma soprattutto per la segregazione e la stigmatizzazione che essa comportava. Per di più, era ritenuta un castigo divino. Il lebbroso era considerato un “impuro” non solo per la malattia, ma anche per il suo presunto peccato. Abbandonato da tutti e da Dio, era come un morto vivente. Il libro di Giobbe dice: “la lebbra è la primogenita della morte”. Guarire un lebbroso era come risuscitare un morto! Ecco perché Gesù lo ammonisce, dicendo: “Guarda di non dire niente a nessuno”. Gesù non cerca pubblicità. Sa bene che i miracoli sono “rischiosi”: possono creare delle aspettative che stravolgono la sua missione. Come di fatto avverrà! La gente lo cercherà, non per ascoltare la Parola del Regno, ma per i miracoli.

Il lebbroso, osando avvicinarsi a Gesù, commette qualcosa di molto grave, punibile con la lapidazione. Dall'altra parte, Gesù, accogliendolo e toccandolo, corre il rischio di essere contagiato non solo dalla sua malattia, ma pure dalla sua “impurità”. Infatti, dato che il lebbroso non rispetta la consegna datagli da Gesù, si verifica un curioso rovesciamento della situazione: mentre il lebbroso, guarito, poteva tornare in città, “Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti”. Un anticipo profetico della sua crocifissione fuori di Gerusalemme, per avere caricato su di sé tutte le lebbre del mondo!

Come non vedere qui un appello rivolto a noi a coinvolgerci nella lotta contro tutte le lebbre, osando avvicinare e toccare i lebbrosi di oggi, gli emarginati della nostra società, correndo il rischio di essere “contagiati” e stigmatizzati anche noi dai benpensanti!

2. La domenica delle trasgressioni!

Nel vangelo di oggi troviamo tre trasgressioni. Prima di tutto, il lebbroso trasgredisce la legge che prescriveva di non avvicinarsi mai alle persone e, per evitare il contatto, quando si spostava doveva gridare: impuro, impuro! (vedi prima lettura dal Levitico). Poi, anche Gesù trasgredisce la legge, che vietava di toccare il malato. Infine, il lebbroso guarito non obbedisce all'ordine di Gesù di non dire a nessuno dell'accaduto. Mentre i demòni obbedivano all'ingiunzione di non dire che egli era il figlio di Dio, questo uomo, invece, gli disobbedisce. Era troppo grande la sua gioia per riuscire a contenerla. E diventa così il primo “predicatore” del vangelo!

Anche qui troviamo un richiamo per il cristiano: non ci sono leggi che tengano, quando è in causa il bene della persona. Per questo Gesù è stato tanto critico riguardo ad una visione legalista del sabato e di altre prescrizioni religiose: “L'uomo non è fatto per il sabato...”. Il credente è chiamato ad esercitare la sua capacità critica e a seguire la voce della sua coscienza, i cui dettami sono spesso in netto contrasto con il pensare comune. “Bisogna obbedire a Dio prima che agli uomini...”. Questo richiede oggi una grande dose di coraggio e una vigilanza continua per non lasciarsi “contagiare” dalla “mentalità del mondo”!

3. La giornata della... rabbia!

Ci stupisce il fatto che, dopo essere stato mosso dalla compassione verso questo lebbroso, subito dopo Gesù sembri come infastidito e quasi arrabbiato: “E, ammonendolo severamente, lo cacciò via subito”. Questa espressione “lo cacciò via” è alquanto sorprendente perché è la stessa impiegata con i demòni. Ma c'è di più. Alcuni codici antichi invece del verbo “ebbe compassione” (greco esplankemisteis), impiegano il verbo “orghisteis”, cioè “si è indignato, si è arrabbiato”. Secondo gli esperti questo sarebbe il termine originale. Ci chiediamo, dunque: perché era Gesù adirato? Potremmo ipotizzare che Gesù manifesti la sua indignazione contro il male che affligge l'uomo e soprattutto per l'emarginazione di cui è oggetto il lebbroso.

Questa rilettura del testo ci può sconvolgere. Siamo abituati ad una idea troppo “dolciastra” di Gesù e facciamo fatica a immaginare un Gesù che, oltre ad essere “mite e umile di cuore”, talvolta è preso da sentimenti di ira e di indignazione davanti a situazioni di chiusura (vedi le sue invettive contro i farisei), di ingiustizia (vedi il suo approccio scandaloso verso pubblicani e peccatori) e di strumentalizzazione di Dio (vedi l'espulsione dei venditori dal Tempio).

Attorno a questa domenica si celebrano delle Giornate che ci invitano a coltivare questa “giusta rabbia”: la Giornata mondiale per i malati di lebbra, l'ultima domenica di gennaio; la Giornata contro la tratta di persone, l'otto febbraio, memoria di Santa Bakhita; la Giornata del malato, l'undici febbraio, memoria della Madonna di Lourdes..., occasioni per mantenere sveglia la nostra lotta contro ogni ingiustizia, contro tutte le lebbre che affliggono il nostro mondo.

Dobbiamo dire che ci manca spesso questa “giusta rabbia” davanti a tante situazioni di eclatante ingiustizia. Siamo molto sensibili quando ci toccano “i nostri diritti”, ma ci abituiamo troppo facilmente alle situazioni di ingiustizia altrui, col rischio di cadere nell'indifferenza. Dobbiamo riconoscere pure che le “voci profetiche” spesso ci infastidiscono. Ma se il cristiano non esercita la sua “vocazione profetica” è sale che ha perso il sapore e luce sotto il moggio!

Per la riflessione settimanale:
Riflettere sul nostro atteggiamento di fronte ad una particolare ingiustizia riportata dai media: sensibilità accompagnata da una forma di coinvolgimento; abitudine che rasenta l'indifferenza; non voler sentirne parlare per non essere disturbati...

P. Manuel João Pereira Correia, MCCJ
comboni2000

La Lebbra esterna provoca ripugnanza,
la lebbra interiore causa odio

Lv 13,1-2.45-46; Salmo 31; 1Cor 10,31 - 11,1; Mc 1,40-45

Il racconto della guarigione di un lebbroso domina la liturgia della parola di questa domenica. Gesù lo guarisce e lo restituisce alla società. E’ un segno che incomincia con lui il regno di Dio, il tempo messianico in cui l’uomo è guarito nel corpo certamente, ma anche in vista di un rinnovamento totale.

L’episodio di questa guarigione viene riferito senza indicazione di luogo e di tempo: questo serve per dimostrare la vocazione universale del rinnovamento portato da Gesù, l’uomo perfetto, che si trova di fronte a qualcosa di scandaloso che contraddice al piano originario di Dio, alla sua volontà sempre benefica. Il lebbroso veniva tenuto lontano dalla comunità, non solo per motivi igienici, ma anche in termini religiosi, perché era considerato “colpito da Dio”: Avvicinarlo, toccarlo significava contrarre impurità come per il contatto con un cadavere.

Queste prescrizioni sono contenute nel libro del Levitico nella prima lettura: “Il lebbroso porterà vesti strappate e andrà gridando: immondo! Immondo!, e abiterà fuori dell’accampamento”. Gesù quindi viene avvicinato da uno di questi, diciamo, “cadaveri” che, invece di tenersi a debita distanza, gli si butta in ginocchio; e invece di gridare “immondo! Immondo!”, lo supplica: “se vuoi, puoi mondarmi”. Con queste parole egli dimostra cosa significa credere, cioè fidarsi assolutamente e umilmente, appoggiarsi esclusivamente su Cristo.

Messo a compassione, Gesù stese la mano, lo toccò e gli disse: “Lo voglio, guarisci”. Questi verbi indicano il modo di comportarsi di Dio nei confronti dell’uomo: il suo amore, la sua prossimità e la priorità della sua gratuita iniziativa. Gesù è colui nel quale Dio si fa prossimo agli uomini.: a tutti gli uomini, anche a chi soffre, è escluso o emarginato. Gesù è una prossimità che supera le distanze, anche quelle che sembrano sacre ed intangibili. In Gesù si attua la presenza reale del Regno, che guarisce l’uomo, toglie le cause e le conseguenze del male, introduce in un nuovo rapporto con Dio e con la comunità. Quanto la parola di Dio annuncia si attua in ogni celebrazione liturgica.

La liturgia è reale presenza di Cristo che convoca, ha compassione, tende verso di noi la sua mano, ci tocca e ci guarisce. Di fronte a questa prossimità di Dio in Gesù, la vicinanza dell’uomo ad ogni uomo è una necessaria conseguenza. Quindi, nella comunità dei discepoli di Cristo non può aver luogo alcuna forma di discriminazione tra persone. La Chiesa dovrebbe sempre esprimere, soprattutto, apprezzamento, accoglienza e amore preferenziale per gli ultimi. Gesù osa toccare il lebbroso preferendo la legge della carità. Egli ci ha dato l’esempio, e si aspetta che i suoi discepoli si comportino con la sua stessa sollecitudine.

La lebbra attacca il corpo come il peccato aggredisce l’anima. Oltre alla malattia che porta questo nome, il termine “lebbra” designa anche il peccato, e ci ricorda così che siamo tutti almeno un po’ lebbrosi e bisognosi dell’intervento di Dio. Tuttavia, la scena della guarigione del lebbroso è una illustrazione della misericordia di Dio quando perdona i nostri peccati.

Il salmo responsoriale, nella sua prima strofa, proclama per questo: “Beato l’uomo a cui è rimessa la colpa e perdonato il peccato”. Fin dall’Antico Testamento, Dio è anzitutto uno che perdona; il suo cuore non è come quello dell’uomo. Del peccatore Egli vuole soprattutto la conversione. Quando ha perdonato (come la lebbra di questo personaggio del vangelo), il peccato è tolto, gettato dietro le spalle; non esiste più, anche se l’uomo continua a ricordarsi di essere stato peccatore. E per essere veramente figlio del Padre celeste, il credente deve imitare Dio e perdonare senza limitazioni.

La scena successiva, che chiude il racconto, è molto suggestiva. Il lebbroso non osserva per nulla il silenzio come lo ha chiesto Gesù, ma allontanatosi, cominciò a proclamare ed a divulgare il fatto. Il gesto di Gesù non può essere tenuto nascosto. Il lebbroso si comporta come chi porta la parola di Gesù o il vangelo. Egli lo proclama e lo divulga a tutti, con le parole e con la vita.
Don Joseph Ndoum

Matteo 1, 40-45
La reazione dell’Artista

Levighiamo, arrotondiamo, caramelliamo i sentimenti di Dio. Chissà perché. Eppure, i suoi affetti sono anche ruvidi e spigolosi, come quelli di chi realmente è e vive. Se lo ricordano benissimo i mercanti e i cambiavalute del tempio. Gesù incontra un lebbroso. Il vangelista evidenzia la reazione del Signore davanti a quel corpo sfregiato dalla malattia. I bei tratti disegnati dal Creatore, plasmando volto e membra, sono deturpati dalla lebbra. I contorni sfigurati, quasi irriconoscibili, perfino repellenti. Un’oscenità da cui si gira alla larga, voltando la faccia dall’altra parte. Sia per paura del contagio sia per ribrezzo.

La versione italiana rende il contraccolpo del Signore con «sentì compassione». È una reazione bellissima, rivelatrice del desiderio di star accanto a chi è tenuto a distanza da tutti. Ma l’originale greco è ben più aspro e angoloso: egli «si adirò». Davanti a quell’uomo rovinato dalla malattia, il Signore ha un accesso d’ira, una detonazione; come se, pur non distogliendo lo sguardo, non sopportasse la vista di quello scempio. Similmente davanti alla tomba dell’amico Lazzaro: Cristo non solo si commosse e pianse, ma «scoppiò in pianto», non riuscendo a contenersi di fronte alla finale sconfitta dell’uomo.

Le reazioni del Figlio di Dio sono quelle di un artista. Pittori, scultori, poeti, musicisti sono gelosissimi della propria opera. Reagiscono con impeto risentito e violento quando la scorgono rovinata da incuria e superficialità, o degradata da vandalismo. Toccati sul vivo, perdono perfino il controllo.

Attenzione a come trattiamo le opere del Signore! Perché sono belle. Perché, altrimenti, la sua reazione potrebbe essere pericolosa.
[Giovanni Cesare Pagazzi – L’Osservatore Romano]

“Farsi lebbrosi”, come Gesù,
per sanare e salvare i fratelli

Levitico 13,1-2.45-46; Salmo 31; 1Corinzi 10,31-11,1; Marco 1,40-45

Riflessioni
Un morto in vita! Tale era il lebbroso nell’Antico Testamento e nelle culture antiche: un malato incurabile, considerato un maledetto da Dio, escluso dalla famiglia e dalla convivenza sociale. La legge ebraica (I lettura) gli imponeva di vivere da solo, fuori, emarginato, con l’obbligo di gridare a tutti i passanti la sua situazione di immondo (v. 45-46). Nei secoli seguenti le condizioni dei malati di lebbra non hanno registrato migliorie, fino alla scoperta del bacillo specifico per merito del medico norvegese Gerhard Hansen (1868). La cura è avvenuta con l’uso della sulfona, l’isolamento nei lebbrosari e, in seguito, le cure ambulatoriali.

Grazie alle campagne del ‘vagabondo della carità’ e apostolo dei lebbrosi, il francese Raoul Follereau (1903-1977), e all’assistenza capillare di tanti missionari e missionarie e di altri volontari, è diminuito l’alone di paure e pregiudizi sui lebbrosi, ha guadagnato terreno l’idea corretta che la lebbra è una malattia come le altre, una malattia che si può curare e sradicare, anche con bassi costi. Ciononostante, accanto a malati che guariscono, vi sono ancora circa 10 milioni di lebbrosi nel mondo, con decine di nuovi casi ogni giorno. Per certi aspetti (emarginazione, effetti devastanti...), la gravità e il terrore della lebbra richiamano la paura del Aids/Sida. “La lebbra è sintomo di un male più grave e più vasto, che è la miseria” (Benedetto XVI). Ogni anno, in occasione della giornata mondiale per i Malati di Lebbra, anche Papa Francesco rivolge il suo richiamo alla solidarietà verso questi malati. (*)

I missionari hanno sempre prestato una particolare attenzione verso i malati di lebbra, soccorrendoli nella loro emarginazione e favorendone l’inserimento sociale, seguendo l’esempio di Gesù. Egli (Vangelo) va contro corrente: omette le restrizioni legali, permette che il lebbroso gli si avvicini, ne ascolta la preghiera, si commuove, gli tende la mano, lo tocca, lo guarisce con una parola (v. 40-41). La commozione di Gesù è profonda, viscerale (v. 41), come indica il verbo greco usato con frequenza dagli evangelisti (splanknízomai) per descrivere scene di tenerezza: come la commozione di Gesù davanti alle folle affamate (Mt 9,36), la compassione del buon samaritano (Lc 10,33), la misericordia del padre del figlio prodigo (Lc 15,20), e altre.

Sanando i lebbrosi, Gesù compie un segno tipico della sua missione messianica (cfr. Mt 11,5). Quel lebbroso anonimo, dal volto sfigurato e i moncherini senza dita, grida a Gesù una delle più belle preghiere dei Vangeli, fatta in ginocchio, con umiltà e fiducia: “Se vuoi, puoi purificarmi” (Mc 1,40). Questo lebbroso è un modello di preghiera e di missione: “si mise a proclamare e a divulgare il fatto” (v. 45). Il lebbroso guarito, che grida a tutti la sua gioia, è una splendida icona missionaria del cristiano e della comunità credente, che proclama le meraviglie del Dio che salva. Il Signore ci purifica, ci sana e ci salva con la sua Parola, con i Sacramenti, la comunità, la missione…

Sfidando l’insieme di proibizioni legali, Gesù si commuove nell’intimo e osa toccare il lebbroso con la mano, contraendo così l’impurità legale. Egli rivela, in tal modo, fino a che punto è entrato nella storia umana, povera-malata-peccatrice-emarginata, toccandone la profondità, assumendone la malattia, la maledizione, l’ostracismo sociale... La vicenda del lebbroso racchiude tutto il mistero pasquale di Gesù e dell’intera umanità. Certamente lebbrosa è la famiglia umana nell’oscurità della sua sofferenza e del suo peccato, per cui ha bisogno che Qualcuno le si avvicini, la tocchi, la sani, la salvi, la porti alla vita, la faccia vivere di comunione. Questo Buon Samaritano è Gesù, che si è fatto Lui stesso lebbroso: “non ha apparenza né bellezza… disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori” (Is 53,2-3). Così “Egli si è caricato delle nostre sofferenze… Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di Lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti” (Is 53,4-5). Lui, lebbroso, ha curato l’umanità lebbrosa. Per la sua morte-risurrezione siamo salvi e tutti i salvati proclamiamo a tutte le genti - assieme a Lui e nel suo nome - le meraviglie del Padre della Vita, che ci chiama tutti, senza esclusioni di sorta, ad essere il suo popolo nuovo, la sua famiglia, animati dall’unico Spirito d’amore.

Il cristiano è chiamato ad abbattere le ingiuste barriere legali, ambientali, culturali, religiose, a farsi “tutto per tutti”, pur di aiutare gli altri, come dice Paolo (II lettura): “Mi sforzo di piacere a tutti in tutto, senza cercare il mio interesse ma quello di molti, perché giungano alla salvezza” (v. 33). Seguendo i passi di Gesù, Servo sofferente, l’apostolo è chiamato a farsi prossimo degli ultimi, a caricare su di sé le sofferenze delle sorelle e dei fratelli più bisognosi ed emarginati, disposto anche a soffrire rifiuti, incomprensioni e persecuzione. Fino al martirio. È ancora Paolo che insiste: “Tutto io faccio per il Vangelo” (1Cor 9,23). Qui si gioca la fedeltà e la credibilità del missionario! E di ogni cristiano.

Parola del Papa

(*) «Esprimo la mia vicinanza a tutte le persone che soffrono per questa malattia (la lebbra), come pure a quanti si prendono cura di loro, e a chi lotta per rimuovere le cause del contagio, cioè condizioni di vita non degne dell’uomo. Rinnoviamo l’impegno solidale per questi fratelli e sorelle!»
Papa Francesco, Angelus nella domenica 25.1.2015;
- «È importante lottare contro questo morbo, ma anche contro le discriminazioni che esso genera». Domenica 29.1.2017;
- «Auspico che i responsabili delle Nazioni uniscano gli sforzi per curare i malati del morbo di Hansen e per la loro inclusione sociale». Domenica 31-1-2021.

P. Romeo Ballan, MCCJ

La mano tesa: potere di Dio

Commentario a Mc 1, 40-45

Leggiamo l’ultima parte del Capitolo primo di Marco, che abbiamo letto dalla terza a questa sesta domenica del tempo ordinario. Meditando questa lettura, che ci parla della esperienza di un lebbroso guarito da Gesù, dopo il suo tempo di preghiera in solitudine, mi fermo a quattro riflessioni:

Riconoscere la propria debolezza e trasformala in supplica

La prima cosa che mi chiama l’attenzione è che il lebbroso – con una malattia considerata allora grave e vergognosa – non nasconde la sua realtà, non dice come l’ubriaco: “io non ho bevuto”; al contrario, si riconosce malato e bisognoso di aiuto; non racchiude se stesso nella solitudine e la disperazione, ma esce del suo isolamento e fa un atto di fiducia in se stesso, nel prossimo, in Gesù.

Lo sappiamo: la prima cosa da fare per guarire è accettare che uno è malato, non auto-ingannarsi mosso da un falso orgoglio. La seconda è riconoscere che uno da solo non riesce a uscire dalla malattia, da una adizione che mi schiavizza, da una situazione di conflitto sterile…  Nel nostro tempo, si parala molto di auto-stima e sono tantissimi i libri di auto-aiuto; anche un famoso e rispettato teologo ha scritto un libro di spiritualità col titolo “Bere dal proprio pozzo”. E hanno ragione: ognuno di noi è un figlio/figlia di Dio, ha una dignità inalienabile e i propri doni a risorse…

Ma la mia esperienza mi dice che l’auto-stima e l’auto-aiuto non bastano. In certi momenti, bisogna saper chiedere aiuto; andare da un’altro/a, che è in grado di prestarci il necessario aiuto materiale, una buona parola, una spinta morale… In questa esperienza si trova anche la preghiera di supplica, che soltanto y poveri e umili capiscono veramente. I ricchi e orgogliosi non chiedono, loro comandano. Ma guai di coloro che sempre si considerano ricchi! Sicuramente mentono. La preghiera del lebbroso, invece, è caratteristica della persona umile: “Signore, si vuoi, puoi guarirmi”.

La mano stesa, potere di Dio

Davanti alla supplica sincera del lebbroso – fatta con il cuore e con la vita, più che con le parole – Gesù stende la mano e lo tocca. “Stendere la mano” su situazioni e persone, è un gesto che nella Bibbia ha molto a che vedere con il potere salvatore di Dio. Lo ha fatto Mosè all’ora di traversare il Mare Rosso; lo facevano i profeti per passare il suo potere spirituale ai successori, lo facevano gli apostoli. Ma noi sappiamo che il vero potere di Dio è il suo amore. In effetti, come ha detto papa Benedetto XVI, “solo il amore redime”. L’amore fatto carezza, l’amore fatto gesto d’incoraggiamento, l’amore fatto benda per le ferite, l’amore fatto parola limpida e veritiera, l’amore fatto comprensione e solidarietà in mille forme diverse.

In Gesù, questo amore di Dio si è fatto persona concreta, carezza, sguardo che capisce e anima, mano che tocca a guarisce. Anche la Chiesa – comunità di discepoli missionari, estensione di Gesù Cristo nel oggi della storia– si fa: mano tesa che si unisce a la parola per dire ai umiliati: coraggio, io voglio, guarisci. Certo, la malattia fa parte di tutta esperienza umana, non sarà mai dal tutto eliminata, ma la parte più difficile della malattia è il sentirsi diminuiti, indifesi,  un “nessuno”… In quel momento, la mano di Gesù e della Chiesa si stende per dirci: Non avere paura, tu sei prezioso, avanti.

Ritornare alla comunità

Gesù comanda al lebbroso guarito di presentarsi ai responsabili della comunità e realizzare i riti necessari per la sua re-integrazione alla stessa. Si tratta di riti che, anche se discutibili in se stessi, tengono unita la comunità; sono come i vimini di un canestro: ognuno da solo è poca cosa, ma tutti insieme, adeguatamente organizzati, costituiscono il canestro, bello e utile… Così succede con i riti di una comunità umana e cristiana: in se stessi, isolati, sono discutibili; ma nel suo insieme aiutano a mantenere viva la comunità e fortificano la vita di tutti.

Ricordo che, nei miei tempi di missionario in Ghana, ho dovuto trattare il caso di una donna accusata di stregoneria. Dopo una serie di dialoghi e di riti con la comunità locale, l’ho accompagnata a casa e l’ho capito il problema: per certe ragioni, che non è il caso di menzionare adesso, quella signora era diventata una “lebbrosa”, isolata dalla comunità. La soluzione per il suo problema includeva la sua re-integrazione alla vita della comunità: lavori, riti, feste, problemi, gioie… Molti di noi abbiamo bisogno con una certa frequenza di una spinta spirituale per ritornare pienamente alla comunione: in famiglia, in comunità, nei gruppi, in parrocchia… E per fare questo abbiamo bisogno della mano e della parola di Gesù.

Il segreto messianico

Gesù dice al lebbroso di fare silenzio su quello che è avvenuto. Si tratta del famoso “segreto messianico”, con cui, secondo gli esperti, Gesù voleva proteggersi da una falsa interpretazione (politica, trionfalista) della sua missione.

Mi pare che in questa nostra epoca noi siamo troppo preoccupati di apparire nei media. Esagerando, si può dire che qualche volta sembra che siamo disposti a “vendere l’anima” per apparire sulla TV o altri media di comunicazione. Alcuni artisti dicono: “Che parlino di me, anche male; l’importante è che parlino”. Gesù ci mostra una altra strada: quella dell’autenticità, della verità di vita, della trasparenza… Quello non vuol dire fuggire dalla piazza pubblica o dai media. Ma cercare la pubblicità in se stessa non sembra essere il metodo missionario di Gesù. E neanche quello di una santa del nostro tempo, molto “coccolata” dai media, come Teresa di Calcuta. L’importante è cercare la verità di Dio, il resto arriverà quando dio vorrà.

P. Antonio Villarino, mccj