Martedì 5 dicembre 2017
Il missionario comboniano padre Giulio Albanese [nella foto], direttore di Popoli e Missione e di altre testate cattoliche, ha ricevuto lo scorso 1 dicembre a Roma il prestigioso riconoscimento ‘Franco Cuomo International Award’, il premio dell’associazione Ancislink intitolato allo scrittore, giornalista e drammaturgo Franco Cuomo, scomparso nel 2007. P. Giulio parla e scrive dell’Africa del passato per raccontare il presente e costruire il futuro. Pubblichiamo alcuni brevi testi recenti di P. Giulio sull’Africa impoverita e bisognosa di vie di sviluppo pacifico ed equo.

Il premio della quarta edizione del ‘Franco Cuomo International Award, patrocinata dallo European Center for Peace and Development, è stato assegnato anche allo scrittore e magistrato Giancarlo De Cataldo, al rettore dell’Università Roma Tre Luca Pietromarchi, al direttore dello Stabile di Roma Antonio Calbi, allo storico Agostino Giovagnoli, alla giornalista tv Adriana Pannitteri, agli artisti Oliviero Rainaldi e Marco Tirelli, al professor Francisco de Almeida Dias, al generale Angiolo Pellegrini, allo scultore polacco Krzysztof Bednarski e al diplomatico algerino Idriss Jazairy. Un riconoscimento è andato anche allo spettacolo teatrale “Mediterri-Amo: immagini, parole e musiche del nostro mare”.

Il ‘Franco Cuomo International Award’ ha l’obiettivo di premiare quelle forme di espressione culturale, artistica e umana che guardano al futuro attraverso il dialogo e il confronto, valorizzando l’esperienza del passato e le diversità fra le persone e le visioni del mondo. Un’impostazione nel solco delle opere di Franco Cuomo che, nei suoi romanzi e opere teatrali, ha spesso raccontato il passato per parlare del presente, superando steccati e barriere.

Il premio è articolato in quattro sezioni: Letteratura, Giornalismo e Saggistica, Teatro, Arte. La giuria è composta da personalità italiane e straniere del mondo culturale. Presiedono il premio la moglie di Franco Cuomo, la giornalista Velia Iacovino, e il figlio, il giovane economista Alberto Cuomo; in giuria, fra gli altri, Maurizio Scaparro, Giuseppe Marra, Giancarlo Bosetti, Paolo Acanfora.

L'AFRICA NON È POVERA, È IMPOVERITA

Il pensiero occidentale sull’Africa è pervaso dalla mentalità coloniale. Basta leggere i giornali nostrani per rendersi conto di come questo continente venga, ancora oggi, redarguito per le sue barbarie, quasi fosse irriducibilmente bocciato dalla Storia, quella delle grandi civilizzazioni. Come ricordava sensatamente il compianto storico Basil Davidson, questi pregiudizi non giovano alla causa del bene condiviso, ma semmai acuiscono il fraintendimento, pregiudicando l’incontro. Emblematico è l’aneddoto, raccontato dallo stesso Davidson, riguardante un etnografo tedesco e viaggiatore di nome Leo Frobenius. Questo distinto signore nel 1910 si trovava in Nigeria ed ebbe la fortuna di scoprire delle statuette di terracotta di rara bellezza e fattura. Frobenius non volle ammettere che quelle sculture fossero opera di artigiani dell’etnia youruba e s’inventò di sana pianta una teoria secondo cui i greci avrebbero colonizzato prima di Cristo le coste dell’Africa Occidentale, lasciando ai posteri quei volti umani che le popolazioni autoctone non avrebbero mai potuto concepire.

Si tratta dunque di andare decisamente al di là di certa mentalità quasi l’uomo bianco avesse bisogno d’inventare l’Africa con le sue affermazioni narcisistiche. Qui nessuno intende misconoscere il pesante fardello di una cronica instabilità africana fatta di guerre, carestie e pandemie. Per non parlare la questione migratoria dall’Africa verso l’Europa, espressione di un malessere sul quale ogni retta coscienza dovrebbe interrogarsi. Eppure, come spiegava con lucidità e schiettezza lo scrittore nigeriano Chinua Achebe, “Anche il leone deve avere chi racconta la sua storia. Non solo il cacciatore”. Un detto ancestrale che evoca l’istanza di guardare all’Africa senza pregiudizi e stereotipi, andando al di là di una visione paternalistica, ammantata di carità pelosa. Sì perché l’Africa non è povera, ma semmai impoverita, non chiede beneficenza da parte dei Grandi della Terra, ma invoca giustizia.

Si fa presto a denunciare il deficit di virtuosismo da parte delle leadership africane, dimenticando che spesso le oligarchie locali sono al soldo di potentati stranieri (cinesi, americani, europei…). Col risultato che in Africa si acuiscono a dismisura fenomeni come l’esclusione sociale o il land grabbing (il cosiddetto accaparramento dei terreni da parte di imprese straniere), unitamente allo sfruttamento delle commodity (materie prime). E cosa dire delle regole del commercio? Basti pensare agli Epa (Economic Partnership Agreements; in italiano Accordi di Partenariato Economico) con cui l’Unione Europea (Ue) ha imposto ai Paesi Acp (Africa, Caraibi e Pacifico) di eliminare tutte le barriere all’entrata su merci, prodotti agricoli e servizi provenienti dall’Ue, mettendo fine alla non reciprocità sancita dalla Convenzione di Lomè. Libero scambio, quindi, su tutti i fronti, come richiesto dalle norme del Wto, con l’idea che la riduzione delle barriere commerciali incentivi la crescita economica dei Paesi in via di sviluppo, contribuendo allo sradicamento della povertà. Purtroppo il risultato è di segno contrario: con il ribasso progressivo delle tariffe doganali all’importazione dei prodotti europei, si sta generando un danno irreversibile alle già precarie economie nazionali africane.

Noi occidentali, peraltro, in tutto questo ragionamento, dobbiamo prendere atto del fatto che la dialettica tra povertà e ricchezza si gioca anche su altri piani. Laddove per le culture occidentali appare scontato - nella generale mercificazione imposta dal pensiero economico liberale – il primato degli affari sulle persone, l’Africa ci ricorda quello che diceva saggiamente uno dei personaggi generati dall'estro letterario dello scrittore senegalese Cheick Anta Diop a proposito dei rapporti Europa-Africa: “Non abbiamo avuto lo stesso passato, voi e noi, ma avremo necessariamente lo stesso futuro”.

NIGERIA, SOMALIA, SUD SUDAN E YEMEN:
IL TEMPO STA PER FINIRE

Secondo Stephen O’Brien, Sottosegretario generale dell’ONU per gli affari umanitari e Coordinatore delle emergenze in Nigeria, Somalia, Sud Sudan e Yemen, oltre 20 milioni di persone rischiano di morire di fame nel corso di quest’anno; di questi, 1,4 milioni sono bambini. Si tratta della più devastante crisi umanitaria, a livello planetario, dal 1945 ad oggi. Come rilevato da Anthony Lake, Direttore generale dell’UNICEF, la malnutrizione acuta e l’incombente carestia «sono principalmente causate dall’uomo» e per essere contrastate richiedono «azioni più veloci».

Da rilevare che l’ultimo rapporto Sipri (Stockholm International Peace Research Institute) - redatto da scienziati svedesi amanti della pace e che tengono costantemente sotto controllo i rantoli dei signori della guerra - restituisce con chiarezza la dimensione della crescita globale del business mondiale delle armi. Un giro d’affari salito a + 8% negli ultimi quattro anni e che i paesi occidentali hanno ipocritamente ribattezzato «mercato della difesa». Gli Stati Uniti sono al primo posto con il 33% delle armi esportate, seguiti dalla Russia (23%), dalla Cina (6,2%), dalla Francia (6%), dalla Germania (5,6%), dalla Gran Bretagna (4,5%) e dalla Spagna (3,5%). Quindi ci siamo noi, che ci accaparriamo il 2,7% della torta. Nel complesso, il business delle armi si spinge oltre la soglia dei 1.700 miliardi di dollari.

E dire che le Nazioni Unite hanno bisogno di 4,4 miliardi di dollari per scongiurare «una catastrofe» in Nigeria, Somalia, Sud Sudan e Yemen. E naturalmente fanno fatica a reperire le risorse economiche... Che tristezza! E poi - scusate lo sfogo - c'è qualche benpensante, qui da noi, che si domanda in che modo contrastare il fenomeno migratorio in modo efficiente... Altri ancora probabilmente si domanderanno: ma questi della Nigeria, della Somalia, del Sud Sudan e dello Yemen saranno "migranti economici" o "gente perseguitata"? Chiedetelo a loro!

ECONOMIA AFRICANA, QUO VADIS?

L’economia africana continua ad essere fortemente vulnerabile. Basti pensare che, nonostante le buone performance degli ultimi anni, la stima di crescita per il 2016 è dell’1,3%, il livello più basso degli ultimi trent’anni. Nel passato si è sempre pensato che i mali del continente (in particolare dell’Africa Subsahariana) fossero causati dalla debolezza dei processi produttivi, dei consumi e dei movimenti in rapporto alla domanda e all’offerta sul mercato delle commodity (fonti energetiche, minerali e prodotti agricoli).

Questo è certamente vero, anche oggi, perché dai prezzi delle materie prime dipende il destino dei governi. Ma dal mio modesto punto di vista, il dato sul quale bisognerebbe maggiormente riflettere riguarda la crescita del cosiddetto debito aggregato africano, vale a dire quello dei governi, delle imprese e delle famiglie, stimato attorno ai 150 miliardi di dollari. Infatti, nel corso degli ultimi dieci anni si è passati dai cosiddetti creditori ufficiali (come i governi, il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e la Banca Africana per lo Sviluppo) alle fonti private di credito (banche, fondi di investimento, fondi di private equity) e al libero mercato.

Si tratta, in sostanza, di una finanziarizzazione del debito che ha segnato il passaggio dai tradizionali prestiti e da altre forme sperimentate di assistenza finanziaria alle obbligazioni, sia pubbliche che private, da piazzare sui mercati aperti. Si tenga presente che le suddette obbligazioni sono in valuta estera, quasi sempre in dollari, e quindi sottoposte ai movimenti sui cambi monetari, sempre a discapito delle monete nazionali africane. Ciò sta generando un circolo vizioso che potrebbe compromettere seriamente lo sviluppo futuro dell’Africa.