Il dono della consacrazione a Dio per la missione, con il suo sigillo di sponsalità, assume, in chi lo accoglie e lo vive, aspetti di maternità, paternità, fratellanza, intimità personale profonda con Dio e condivisione di vita, materiale e spirituale, con i fratelli e le sorelle a cui si è inviati.
Radicalmente unico, il dono della consacrazione a Dio per la missione, con il suo sigillo di sponsalità, assume, in chi lo accoglie e lo vive, aspetti di maternità, paternità, fratellanza, intimità personale profonda con Dio e condivisione di vita, materiale e spirituale, con i fratelli e le sorelle a cui si è inviati.
Data la vastità dell’argomento, scegliamo di soffermarci su ciò che attualmente ci sembra più opportuno e più necessario sottolineare (e forse recuperare), con la fiducia che, partendo da questi semplici spunti, la riflessione personale e comunitaria possa proseguire apportando maggiore ricchezza di intuizioni, conoscenza e soprattutto esperienza di vita.
Comboni – Consacrazione: essenza e falsi dilemmi
Non si può capire veramente Daniele Comboni, né la sua missione, né l’opera da lui fondata, né il carisma di cui ci ha fatto eredi (quindi la nostra identità), a prescindere da questa categoria spirituale, da questa parola chiave: "consacrazione", dal significato che essa ha e dalle sue implicazioni sul piano concreto (vedi S 442, 1034).
Ci sembra tanto più necessario e importante riflettere su questa constatazione di fronte alla tendenza di alcuni a scindere consacrazione e missione, a voler considerare la missione soprattutto o semplicemente come una risposta ai bisogni del mondo (pace, giustizia, dignità, lotta alla povertà e alla fame, ecc.), che pure sono espressione concreta e ineludibile della missione, separandola però dal concetto di consacrazione, come se questo appartenesse a una tradizione e istituzione giuridica della Chiesa, legata a circostanze storiche (ormai in gran parte superate), più che alla radice stessa e alla fisionomia costitutiva della missione (vedi missione filantropica, sociale, più che evangelizzatrice della società).
Tale tendenza sembra che abbia fasi ed enfatizzazioni ricorrenti. Dopo il Concilio Vaticano II, all’epoca del capitolo speciale che doveva formulare la nuova Regola di vita, fu motivo di ricerca e di pronunciamenti sul filo dell’interrogativo "Per noi, missionari/e comboniani/e, viene prima la consacrazione o la missione?", con la sottile "tentazione" di privilegiare la missione sganciandola dalla "veste religiosa" della consacrazione, vista come un dono in più, a volte ingombrante, e non come un’unità vitale con la missione stessa.
Questa tendenza si ripresenta oggi in coloro che sottolineano una dicotomia fra missione e consacrazione, considerando quest’ultima come propria di un certo tipo di vita religiosa e quasi un vincolo aggiunto, se non un peso in più e un intralcio, per la missione.
È positivo il fatto che tale tendenza susciti, per reazione, una ricerca più profonda, che ci aiuta a cogliere, contemplare, assaporare e vivere più consapevolmente, realtà e valori che forse per molto tempo abbiamo dato per scontati o trascinato per forza di tradizione. Rischioso è invece il lasciarsi attrarre solo dalle forme di missione più visibilmente affascinanti e appaganti la nostra sottile e inconsapevole voglia di "realizzarci" e di apparire protagonisti aggiornati.
Altrettanto opposto alla vitalità rinnovatrice dello Spirito, e totalmente contrario allo spirito comboniano, sarebbe chiudersi in forme di vita religioso-missionaria prive di attenzione alla concretezza delle persone e situazioni in mezzo a cui è presente, refrattaria ai segni dei tempi, alle diversità culturali, agli avvenimenti e mutazioni storiche, ecc.
La ricerca sincera, aiutata dalla parola e dalla testimonianza di vita di Comboni, appura che non di dicotomia o di dilemma si tratta, (consacrazione/missione) ma di intrinseca unità e di apporto reciproco. In realtà, se la missione si configura come risposta ai bisogni del mondo (delle persone e dei popoli del mondo), è perché, alla luce della fede, in rapporto profondo con l’amore di Dio per ciascuno/a di noi e per l’umanità, si viene spinti a dare tali risposte nel suo Nome e con il Suo aiuto, mettendo in gioco - come Cristo stesso ha fatto e, come Lui, Daniele Comboni -, tutta la nostra vita.
Comboni non scrive trattati sulla vita consacrata, ma la vive e la sente come fondamento "naturale" (in realtà fondamento divino-umano) della vocazione sua e di quelli/e che vorranno far parte della sua opera.
Comboni non teorizza la santità: la vive e ne constata gli aspetti concreti in quelli/e che la vivono.
Il nesso profondo che egli coglie tra consacrazione e santità stabilisce, nella sua visione, il legame tra consacrazione e missione, per cui occorre essere santi e capaci. Ed è la carità, cioè l’amore di Dio trasmesso al nostro cuore, che rende tali. Senza la "carità", che ha la sua radice in Dio, la "capacità" è solo efficientismo, produzione e organizzazione materiale, protagonismo. La missione richiede altro tipo di "capacità": capacità di trasmettere non solo a parole, ma testimoniandolo, l’annuncio evangelico e la vita vera, capacità di comunione, di liberazione, di trasformazione delle coscienze, di denuncia per risanare mentalità e strutture di peccato…
Santità e capacità hanno come matrice comune la carità di Dio.
Fondamento e significato
All’origine della missione, quindi alla base della propria vita, Comboni vede la consacrazione come espressione concreta di "una vita di spirito e di fede" (S 2698, 2887), scaturita come realizzazione ovvia di "un forte sentimento di Dio ed un interesse vivo alla Sua gloria ed al bene delle anime" (S 2234). Di qui scatta l’impulso interiore che lo muove ad operare "unicamente per il suo Dio, per le anime più abbandonate della terra, per l’eternità, mosso dalla pura vista del suo Dio" (S 2698; 2702). Chi non avesse tale motivazione superiore e non operasse in questa direzione "mancherebbe di attitudine ai suoi ministeri, e finirebbe per trovarsi in una specie di vuoto e d’intollerabile isolamento" (S 2698, Regole 1871, cap. X).
Possiamo vedere individuata, in questa affermazione, la causa di certe crisi psicologiche da cui deriva la crisi vocazionale. Se il cuore non è pieno dell’amore di Dio e delle anime, non può essere colmato da nulla, nemmeno dal perseguire nobili ideali o ideologie umanitarie, sociologiche, ecc. Solo in Dio "ha di che sostenersi e nutrire abbondantemente il proprio cuore…" (S 2702).
In questa radicalità di motivazione, Comboni si spinge ancor oltre, affermando: "anzi il suo spirito non cerca a Dio le ragioni della Missione da lui ricevuta, ma opera sulla sua parola e in quella de’ suoi Rappresentanti, come docile strumento della sua adorabile volontà, ed in ogni evento ripete con profonda convinzione e con viva esultanza: ‘servi inutiles sumus; quod debuimus facere fecimus’ (Lc 17)" (S 2702). Il che significa che, mettersi al servizio della missione è mettersi incondizionatamente nelle mani di Dio per divenire strumenti del Suo amore per i fratelli e sorelle che Lui pone sul nostro cammino e che lega alla nostra vita. Strumenti di quell’amore che il missionario e la missionaria scoprono e attingono quotidianamente dal contemplare e penetrare il Cuore stesso di Dio, reso visibile nel Cuore trafitto di Gesù, interamente donato al Padre per i Suoi figli e figlie.
Gli scritti del Comboni sono letteralmente impregnati di questa concezione della vita missionaria e di questa convinzione profonda. Tutta la sua vita ne è la più perfetta e indubitabile testimonianza. Non è retorica spirituale di un linguaggio legato al suo tempo, né slancio di fervore astratto o frutto di devozionismo e di codici clericali che "ingabbiano" i cammini nuovi e arditi della missione nelle strettoie di regole studiate a tavolino dai cultori del diritto canonico senza esperienza "sul campo".
Al contrario, i suoi scritti sono intrinsecamente connessi con la sua esperienza di vita, costellata di contrasti, di durissime prove e di croci. In essi si respira l’anima della sua anima e della sua azione e vi si spalanca l’orizzonte di vita che egli offre a coloro che lo seguiranno nell’ardua impresa della missione africana.
Come osserva P. Arnaldo Baritussio, "la riprova che questa consacrazione ha tutti i crismi della consacrazione religiosa, benché il Comboni non ne faccia riferimento, è la maniera come lui concepisce lo stare e il fare missione".
Formazione – Appropriazione della carità di Dio
Felice d’essere "sequestrato" da un amore tanto grande da apparire inverosimile (vedi le sue riflessioni su "un Dio morto per noi" (S 2720), e confortato dalla sua esperienza di gaudio nello Spirito nelle situazioni più assurde e dolorose, egli dà direttive chiarissime per la formazione dei membri dell’Istituto: "Bisogna accendere i soggetti con l’amore di Dio e lo spirito dell’amore di Cristo" (S 6656), quindi impostare su questa radicalità "trinitaria" il senso, la qualità e la capacità di riuscita, sul piano salvifico, della missione.
"Bisogna accenderli di carità che abbia la sua sorgente da Dio e dall’amore di Cristo; e quando si ama davvero Cristo, allora sono dolcezze le privazioni, i patimenti, il martirio" (S 6656).
Scrivendo al Sembianti sui soggetti da formare, Comboni dice: "Bisogna vestirli personalmente della carità di Dio e dello Spirito di Cristo" (S 2374). Lo stesso dice scrivendo a Elisabetta Girelli a proposito del personale maschile e femminile dell’Opera.
Questa assunzione personale dell’amore di Dio in Cristo Gesù, fa sì che le persone da ego-centriche divengano de-concentrate da se stesse e orientate verso gli altri, specialmente verso i più poveri e oppressi, i più "necessitosi". Nella gioia e stupore di essere scelti da Dio per la Sua missione, i missionari e le missionarie "saran beati di offrirsi" a realizzare il disegno di Dio, costi quello che può costare.
Si tratta di un rapporto nella fede non astratta, ma cuore a cuore con un Dio vivo, in costante relazione con noi. Non un Dio "pensato", ma un Dio che abita in noi, che Si dà a noi nella Parola e nell’Eucaristia, che Si rende incessantemente presente nella storia individuale, comunitaria, sociale, e nelle Sue creature (natura compresa) e in particolare nei Suoi Santi. Un Dio che ci assume nella Sua vita, ci coinvolge nella Sua vicenda salvifica, ci rende Sua Parola e Sua Eucaristia (vittima immolata, pane spezzato, nutrimento per tutti).
Incentrata nel Cuore di Cristo
La più alta rivelazione di questo Dio Comboni la coglie e invita a coglierla nel Cristo in croce, nel Suo Cuore aperto, ferito dal Suo amore "esagerato" verso gli uomini, più che dalla violenta constatazione di morte operata dal centurione.
"In croce, nella Trasfissione, Gesù raggiunge l’apice della Sua consacrazione dove appare casto, povero e obbediente senza più veli. … Essere consacrato/a significa essere chiamato/a ad entrare nella consacrazione di Cristo" per continuare la Sua missione verso i fratelli più bisognosi, fino a darsi completamente, come Lui.
Ecco perché è necessario costantemente "tenere gli occhi fissi in Gesù crocifisso" (S 2720-21) per poterci lasciar trasformare da Lui a misura del Suo amore.
"Per lui la dedizione totale alla causa missionaria nasce e si sostiene "col tener sempre gli occhi fissi in Gesù Cristo, amandolo teneramente, e procurando di intendere ognora meglio cosa vuol dire un Dio morto in Croce per la salvezza delle anime. Se con viva fede contempleranno e gusteranno un mistero di tanto amore, saran beati a perdere tutto e morire per Lui, e con Lui"" (S 2720-21).
Tutto l’amore che il Padre vuole riversare sul mondo, sull’umanità ferita e oppressa dal peccato per redimerla e ridonarle vita e libertà, ha un volto e un nome: Gesù di Nazareth, figlio di Dio, suo Cristo, nostro Salvatore.
La vita consacrata ha il suo fondamento non nell’istituzione di un ordine o in qualche specifica parola di Gesù, ma in Gesù stesso, fin dal suo primo essere presente nel mondo (nel concepimento verginale nel seno di Maria). Gesù, Parola del Padre, è il consacrato, totalmente casto, povero, obbediente, è modello e principio di ogni vita consacrata, ed è al tempo stesso il missionario del Padre. Quindi, in un certo senso, la realizzazione della vita consacrata "precede" l’annuncio "storico" del Vangelo. Questo fa capire meglio quanto siano inseparabili il concetto autentico di consacrazione e di missione: l’uno implica l’altro e si illuminano a vicenda. L’Esortazione apostolica post-sinodale "Vita consacrata", (25 marzo 1996) dice espressamente che "la missionarietà è insita nel cuore stesso di ogni forma di vita consacrata" (25). Accettare e accogliere la chiamata alla vita consacrata missionaria va inteso come chiamata a "diventare" sempre più Gesù casto, povero, obbediente, parola del Padre, realizzato nello Spirito di amore e mosso dallo Spirito a compiere, fino in fondo, la missione del Padre per la salvezza degli uomini.
La nostra sincera appartenenza totale e sponsale a Dio definisce perciò la nostra identità e sfocia inevitabilmente nella missione.
In Comboni è chiarissimo il carattere di "sponsalità" espresso sia nei riguardi della "croce" (non amata morbosamente come strumento materiale di tortura, ma come segno di salvezza e simbolo dell’amore infinito di Dio in Gesù), sia nei riguardi della Nigrizia, il popolo a cui l’amore di Dio lo manda. Sponsalità che ha tutti i caratteri della passione totalizzante e unificante e della tenerezza e dedizione indissolubile, fino al martirio.
Voti: una sfida per il nostro tempo
Approfondire e recuperare tale senso di "sponsalità" non solo ci mette in sintonia con lo spirito di Comboni nel vivere radicalmente e irrevocabilmente la nostra vocazione missionaria, non solo dona nuova luce e slancio alla nostra vita di preghiera, contemplazione e azione e infonde nuova comprensione dei voti che la caratterizzano, della comunione comunitaria che la distingue, della totale e incondizionata dedizione al bene delle persone, dei popoli e delle situazioni di "Nigrizia", ma è anche una testimonianza profetica e una sfida incoraggiante agli uomini e donne del nostro tempo, a ritrovare il senso e il coraggio della fedeltà. La nostra epoca, infatti, rifugge da vincoli indissolubili, considera una conquista di libertà la fragilità e incostanza dei rapporti coniugali e anche nelle scelte più generose si ripara dietro la formula "ad tempus".
Amare e donarsi "sponsalmente" secondo lo spirito comboniano aiuta a ritrovare il vero valore delle persone (temporale ed eterno), la loro priorità sul rapporto con le cose, sui progetti e i programmi, fa recuperare il senso dell’unicità della persona e della nostra stessa vita, la sua infinitezza pur nel limite dell’esperienza terrena, la convergenza di tutto nell’unum necessarium che merita il nostro "per sempre" ed "eternizza" il trascorrere del presente. Liberati dalla frammentarietà degli avvenimenti e delle sensazioni, ritroviamo l’unità interiore ed esistenziale.
In Comboni, "il puro amor di Dio", "l’Africa mia amante", "l’Africa e gli africani che si sono impadroniti del mio cuore"," la croce eletta mia sposa indivisibile ed eterna" sono il tesoro unico di quel cuore "segregato per Cristo", "per sempre".
Anima della missionarietà
I voti, vissuti in quest’ottica anziché essere "ostacolo" sono l’anima della missione:
La castità esprime l’assoluto dell’amore di Dio (nella sponsalità, indissolubilità, unicità, totalità, irrevocabilità, radicalità) e ne riproduce il movimento trinitario con la missione del Figlio per la salvezza degli uomini.
Ogni servizio ai fratelli, ogni azione missionaria, anche la più piccola e apparentemente insignificante, assume in virtù di essa il valore infinito ed eterno dell’amore da cui è mossa. Di qui la sua efficacia, visibile o no, a breve o a lungo termine. Ciò non esime (anzi lo esige, perché l’amore non è faciloneria, ma saggezza) dal cercare le forme, i modi e i tipi di intervento più idonei e mirati al vero bene dei destinatari della missione evangelizzatrice (vedi le direttrici e le iniziative della missione "nuova").
La povertà, a modello dell’umiltà di Dio e della spoliazione di Sé compiuta per amore della nostra salvezza, va vissuta come "identificazione con il povero-condivisione-umiltà". La missione richiede questo lasciare tutto, avvicinarsi "al più povero e abbandonato", "fare causa comune con lui", non cercare in nulla se stessi, né il proprio nome e neppure la riuscita dei nostri progetti secondo i nostri criteri solo perché nostri. Non può veramente "far causa comune con gli ultimi", anche se vivesse più miseramente di loro, chi conservasse l’idolo della propria "immagine" (mira principale: il "realizzarsi") e fosse malato di protagonismo, sottile surrogato della volontà di potere.
"Il missionario spoglio affatto di se stesso lavora unicamente per il suo Dio, per le anime più abbandonate della terra, per l’eternità" (S 702 – 2890).
L’obbedienza è fedeltà a Dio modellata su quella del Figlio, quindi fino all’immolazione di sé per la realizzazione del Suo progetto d’amore.
Coinvolge tutti nella ricerca libera e sincera della volontà di Dio (non può essere contraffatta dall’autoritarismo né negata dall’individualismo; richiede dialogo e corresponsabilità).
Nello spirito comboniano, l’obbedienza detta il senso dell’Istituto come famiglia ("piccolo cenacolo di apostoli" S 2648), chiede amore e obbedienza alla Chiesa e fedeltà all’opera comune intrapresa ("nulla senza la Chiesa, perché senza di essa sono meno che zero tutti gli sforzi" (S 959).
Ognuno deve essere disposto a operare come "pietra nascosta sotterra che entra a far parte del fondamento di un nuovo e colossale edificio" (S 2701).
La missione sgorgata dal Cuore
Introdotto dallo Spirito Santo nell’intimità del Cuore di Cristo trafitto sulla croce, Comboni vede in esso, e nella croce stessa, il segno perenne dell’amore che salva e che sgorga incessantemente dal cuore del Padre. Di lì si effonde quella "divina Vampa" che lo segna per sempre, gli rivela il disegno di salvezza che Dio per mezzo di lui vuol portare ai popoli dell’Africa e lo trasporta e lo spinge con l’impeto di quella carità "a stringere tra le braccia e a dare il bacio di pace e di amore a quegli infelici suoi fratelli" (S 2742-43).
Da quell’incontro intimo e trasformante Comboni è portato a vedere in maniera nuova se stesso e l’opera della rigenerazione della Nigrizia che deve fare appello al cuore di tutta la Chiesa. Da quel palpito del Cuore di Cristo, fatto vibrare dallo Spirito nel suo cuore, scaturisce l’idea del Piano, che non è tanto una carta programmatica, quanto la rivelazione dell’amore che Cristo ha per l’africano, la Sua passione che si incarna nel cuore di Comboni, vuol continuare a realizzarsi, e di fatto si realizza, attraverso il cuore di lui e di quanti lo seguiranno.
Quel momento carismatico determinante per la vita di lui e profondamente ecclesiale, traccia in maniera inequivocabile anche il nostro cammino di consacrazione per la missione. Di qui la necessità di riscoprire l’attualità del Piano nella mistica della missione che lo ispira, nelle sue linee portanti, nelle intuizioni profetiche che propone, sostanzialmente valide e capaci di generare nuovi attuali cammini di evangelizzazione.
Fra le indicazioni che da esso emergono, accenniamo alla necessità di operare una lettura critica e coraggiosa dei segni dei tempi, assumendo posizioni anche rischiosamente controcorrente (come ha fatto Comboni intuendo e annunciando "l’ora dell’Africa" proprio nel tempo del massimo disprezzo per la Nigrizia). Lettura dei tempi, la sua, che si serve dei mezzi di indagine umana a disposizione, ma legge la storia nella prospettiva di Dio ("il lume del cattolico"), che è superiore a quella del filantropo e non è condizionata da interessi economici o politici. Comboni annuncia l’ora di Dio, denuncia l’ingiustizia, la povertà e l’abbandono dei popoli a cui vuol portare la liberazione e la salvezza, indica una strategia che riconosce e rivaluta i soggetti-oggetto della missione: "Salvare l’Africa con l’Africa" (S 2568-69); stimola la Chiesa tutta (gerarchia e fedeli) alla partecipazione e corresponsabilità nell’attuazione del disegno di redenzione-rigenerazione dell’Africa. Mostra un’incredibile fiducia negli africani, nel loro capacità di diventare con la grazia di Dio membra vive e operanti della Chiesa, e una altrettanto grande fiducia nelle donne, sia come missionarie che come agenti locali della missione (catechiste, insegnanti, ecc.).
Il suo atteggiamento, decisamente nuovo e profetico verso l’Africa, apre ai suoi collaboratori e ai futuri missionari il capitolo della preparazione del clero e del laicato locale, della collaborazione alla pari o alle dipendenze dalla gerarchia locale, della capacità di lavorare insieme, di aprire le strade all’autonomia dei popoli, alla cittadinanza matura e responsabile, all’ecumenismo (S 3049) e al dialogo interreligioso, alla serena e rispettosa capacità di collaborazione - anche a livello programmatico e decisionale -, con le missionarie e in generale con l’elemento femminile, nella Chiesa enella società. Alle missionarie il compito di sviluppare la propria formazione, l’assunzione delle proprie responsabilità e, in particolare, l’impegno a collaborare alla promozione della donna nella famiglia e nella società.
Verso le nuove sfide
La capacità e il modo di Comboni di affrontare le sfide del suo tempo invita tutti noi ad aprire gli occhi ed affrontare le nuove sfide della nostra epoca: accenniamo solo al pluralismo religioso, l’internazionalità comunitaria ed ecclesiale, l’inculturazione del vangelo e della Chiesa, la realtà del mondo secolarizzato, della globalizzazione, della comunicazione con tutti i mezzi del nostro tempo, la cultura del denaro e l’onnipresenza delle grandi imprese multinazionali, le regole del mercato e dell’economia, il mercato delle armi, le guerre, le grandi migrazioni e immigrazioni, la perdita dei valori fondanti la comunità umana…
L’ottica comboniana ci invita (e ci con-verte) a ripartire dalla stessa adesione amorosa di lui al mistero del Cuore di Cristo e della croce che salva, a recuperarne il senso profondo, che la mentalità contemporanea, anche religiosa, facilmente sfugge o presenta in modo riduttivo; ci guida a dare risposte adeguate e ben studiate a queste e altre sfide della missione, ma inquadrandole in una visione più ampia e superiore, nella consapevolezza di fede che il vero protagonista della missione è il Signore. "Siccome l’opera che ho tra le mani è tutta di Dio, così è con Dio specialmente che va trattato ogni grande e piccolo affare della missione: perciò importa moltissimo che fra i suoi membri domini potentemente la pietà e lo spirito di orazione" (S 3615).
Quello spirito di orazione che ha portato lui a contemplare ed "entrare" nel mistero di "un Dio morto per noi", ha fatto sì che per lui l’anelito supremo del Crocifisso, il sangue e l’acqua che sgorgano dal Suo Cuore, non siano eventi del passato, definitivamente conclusi con la Risurrezione, e relegati alla sfera dei ricordi. Al contrario sono realtà che si perpetuano e si inverano costantemente in chi l’accoglie e ne condivide dedizione, immolazione, amore che sacrificandosi rigenera e dà vita.
Il fuoco dello Spirito ("la divina Vampa di carità") è attualmente all’opera nella manifestazione ecclesiale della santità di lui (la sua canonizzazione). Nella realtà del Corpo Mistico e della Comunione dei santi, l’Amore che salva passa dal Cuore di Cristo a quello di Comboni e dal suo al nostro. In Cristo egli vive, è presente, oggi, continua a operare ed è attualmente vivo e presente nella nostra vita consacrata missionaria. Il suo desiderio di avere mille vite da spendere per la Nigrizia, non è un sogno né tanto meno un’illusione: è e può essere sempre più concreta realtà.
Sr M. Irene Bersani, smc
Interrogativi per la riflessione
- Che senso ha per me la consacrazione e in che rapporto con la missione la percepisco e la vivo? Difficoltà? Conflitto o unità di vita?
- Come vedo percepito questo rapporto a livello comunitario, di Istituto?
- Santità: una parola "troppo grande" o di altri tempi?
- La missione che sgorga dal Cuore di Cristo e abbraccia il mistero della croce è forse inconciliabile con le esigenze di giustizia, liberazione, promozione dei diritti umani…? o con la mia realizzazione personale?
- Mi accorgo dell’esistenza di veri/e testimoni del carisma comboniano, nel nostro tempo, anche se non appariscenti, e cerco di seguirne l’esempio, o preferisco solo criticare "quello che non va" (nella comunità, nell’Istituto, nella Chiesa…)? Prego per quelle persone o situazioni che mi sembrano da "risanare"?
Sr. M. Irene Bersani, smc