La solennità dell’Ascensione del Signore segna la presa di coscienza dei discepoli che il Cristo non è più presente fisicamente, ma con il suo Spirito e che il messaggio evangelico da diffondere in tutto il mondo è affidato alle loro povere mani. Quaranta giorni dopo la Pasqua avviene una consegna precisa, un mandato: “Andate in tutto il mondo…”.
Ora i discepoli sono pronti, manca solo lo Spirito Santo che, dopo qualche giorno, darà loro il coraggio di affrontare l'esaltante esperienza della missione evangelica. Gesù si è servito di povera gente, Gesù si serve ancora di uomini e donne che, di fronte al suo messaggio, sono sempre poveri. Non è così anche per noi? Il Vangelo e le sue esigenze sembrano spesso superarci, eppure Gesù chiede ancora che venga annunciato a tutti, nessuno escluso, perché è il Vangelo della vita, dal quale ciascuno trae le linee guida di ogni scelta umana. Il Vangelo, affidato a povere mani affinché venga annunciato, deve raggiungere povere mani che lo sappiano accogliere. Infatti, le mani già piene di altro, non lasciano spazio perché il Vangelo trovi posto.
Ascensione: fine o inizio? festa dell’addio o festa dell’invio?
“Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro,
fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio”
Marco 16, 15-20
Stiamo celebrando il “mistero pasquale” che comprende cinque momenti culminanti della vita del Signore: Passione, Morte, Risurrezione, Ascensione e Pentecoste (50 giorni dopo Pasqua). L’Ascensione conclude il periodo simbolico di quaranta giorni in cui il Risorto si manifesta ai suoi discepoli: “Egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni.” (Atti 1,1-11, prima lettura). I “quaranta giorni” di cui parla qui San Luca non rappresentano un tempo cronologico. Infatti, nella conclusione del suo vangelo, egli parla unicamente del giorno della Risurrezione. Infine, notiamo che la festa è spostata da giovedì a domenica per permettere una più numerosa partecipazione dei fedeli.
L’Ascensione, la cenerentola delle feste cristiane?
Il pastore e teologo protestante Paolo Ricca ha scritto che l’Ascensione è diventata “la cenerentola delle feste cristiane”. L’Ascensione, infatti, è una festa che la Chiesa ha valorizzato poco, forse per il suo aspetto di mestizia dovuto alla “dipartita” definitiva di Gesù. Va detto, tuttavia, che “l’Ascensione è un modo di morire agli occhi e di nascere al cuore” (Michel Deneken, teologo francese). Ma allora perché il vangelo di Luca dice che, dopo l’Ascensione, gli apostoli “tornarono a Gerusalemme con grande gioia”? (Luca 24,52). Perché l’Ascensione è l’altra faccia della Risurrezione, cioè dell’esaltazione di Gesù. Inoltre, in quanto testimoni della sua ascensione, prendono coscienza che, come Eliseo ereditò il carisma profetico di Elia per il fatto di avere presenziato la sua elevazione celeste (2 Re 2,1-14), così anche loro sono gli eredi dello Spirito di Gesù. L’Ascensione però porta anche a noi un messaggio gioioso di una doppia presenza. Da una parte, il Signore Gesù “elevato in cielo” garantisce comunque la sua presenza sulla terra, in mezzo ai suoi. Dice Sant’Agostino: “Cristo non ha lasciato il Cielo quando è disceso tra noi e non ci ha lasciati quando è salito in Cielo”. D’altra parte, noi stando ancora sulla terra siamo già con lui in cielo. La nostra vera abitazione è in Dio ma, con l’incarnazione, la dimora di Dio è l’umanità. L’Ascensione rivela che Gesù è la vera “scala di Giacobbe” che mette in comunicazione terra e Cielo.
Il brano del vangelo scelto per questa festa è la conclusione del vangelo di Marco, chiamata “finale canonica” (Marco 16,9-20), che gli studiosi ritengono non scritta dall’evangelista, ma aggiunta da un redattore anonimo verso la fine del I secolo o inizio del II. È un sommario dei racconti delle apparizioni del Risorto che troviamo in Matteo e Luca, perché il vangelo di Marco sembrava concludersi in un modo brusco e stroncato, con le donne impaurite che scappavano dal sepolcro (Marco 16,8). Questa aggiunta, comunque, è ritenuta dalla Chiesa parte integrante del vangelo.
L’Ascensione, Festa della Missione
Vorrei sottolineare la dimensione missionaria dell’Ascensione che non sempre viene messa sufficientemente in rilievo. Generalmente riteniamo la Pentecoste come la “festa della missione”, con l’effusione dello Spirito, la nascita della Chiesa e l’inizio della predicazione apostolica. Tutto questo è vero. Però, non possiamo lasciar passare sotto silenzio che il “mandato missionario” avviene il giorno dell’Ascensione, almeno nei vangeli sinottici, Matteo, Marco e Luca. Oggi, quindi, è la festa dell’invio della Chiesa in missione!
L’Ascensione è, contemporaneamente, il punto di arrivo per Gesù, cioè la fine del suo ministero, e il punto di partenza per la Chiesa, inviata in missione. I tre sinottici, sottolineano il legame stretto tra l’Ascensione e l’invio in missione:
L’ultimo incontro di Gesù con gli Undici è collegato con l’invio in missione. Al movimento verticale di Gesù verso il cielo corrisponde quello orizzontale degli apostoli verso il mondo. Gesù conclude la sua missione sulla terra e si rende “invisibile” per dare spazio, visibilità e responsabilità alla missione dei suoi discepoli sulla terra.
La Missione vista dall’Ascensione
Il brano del vangelo ci offre alcune indicazioni sulla missione:
La missione è l’Ascensione in atto nella storia
La festa dell’Ascensione ci suggerisce anche la metodologia della missione. Sebbene la missione si presenta, innanzitutto, come un movimento orizzontale, verso il mondo per costruire la fraternità, in realtà il suo spirito è quello della verticalità: della “kenosi”, cioè l’abbassamento, e dell’elevazione (Filippesi 2,5-11); scendere per risalire. Infatti, “cosa significa che ascese, se non che prima era disceso quaggiù sulla terra?” (Efesini 4,1-13, seconda lettura di oggi). La missione obbedisce alla legge dell’incarnazione: scendere per poi risalire. Scendere vuole dire “farsi servo di tutti”, “farsi tutto per tutti” (1 Corinzi 9,19-23), inculturarsi per fare causa comune con ogni uomo e donna. Risalire è il movimento dell’elevazione dell’umanità e della creazione verso Dio. La missione è il travaglio dell’ascensione del mondo.
La missione ravviva la speranza dell’attesa
I due angeli dell’Ascensione annunciano agli apostoli: “Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo”. L’Ascensione comporta la speranza nel ritorno di Cristo per prenderci con sé. Oggi non sappiamo più aspettare. In ogni Eucaristia ripetiamo: “Annunciamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua venuta”! Ma quanti l’attendono davvero? Scrisse Paul Tillich, uno dei maggiori teologi del XX secolo: “Penso a quel teologo che non aspetta Dio perché lo possiede chiuso in un edificio dottrinale… Penso a quell’uomo di chiesa che non aspetta Dio perché lo possiede racchiuso in una istituzione. Penso a quel credente che non aspetta Dio perché lo possiede nella sua propria esperienza. Non è facile sopportare di non avere Dio, di doverlo aspettare”.
La missione ha pure come compito di conservare viva la speranza e di aiutare l’umanità a tenere accesa la lampada della fede nell’attesa del ritorno dello Sposo. Sul ritorno di Cristo, infatti, incombe uno dei più inquietanti interrogativi del vangelo: “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Luca 18,8).
Per la riflessione settimanale vi propongo di meditare sulla seconda lettura: Efesini 4,1-13.
Padre Manuel João Pereira Correia mccj
Verona, maggio 2024
Gesù inizia nella Chiesa una nuova presenza
Atti 1,1-11; Salmo 46/47; Efesini 4,1-13; Marco 16,15-20
La festa dell’ascensione al cielo del Signore nostro Gesù Cristo è una splendida occasione per riflettere su quelle parole del credo, che recitiamo nella messa ogni domenica: “credo in un solo Signore, Gesù Cristo, il quale fu crocifisso, è risuscitato, è salito al cielo, siede alla destra del Padre”. Questa scena riferita da Luca, negli Atti e nel Vangelo, e accennata nella finale di Marco. Essa è caratterizzata da due aspetti: la separazione e l’elevazione. In quanto separazione, essa dice la cessazione di un certo modo di relazione tra Gesù e i suoi discepoli, pur rimanendo con loro fino alla fine del mondo. In questa elevazione in alto o salito al cielo, essa simboleggia l’esaltazione, la glorificazione o la Signoria del Figlio di Dio. Il Verbo di Dio, tornato al Padre, là prepara un posto per ognuno di noi.
Quindi la celebrazione dell’Ascensione traduce il nostro desiderio, ogni anno, di vedere dilatare questo mistero del Risorto nella nostra persona in modo da condividere la stessa glorificazione. Poiché la contemplazione di Gesù che sale al cielo esprime il punto di riferimento di ogni cristiano, che scopre come la propria esistenza sia un cammino proteso verso la pienezza della gloria. È lassù il destino della nostra storia quotidiana Questa tensione in avanti non dovrebbe farci dimenticare la serietà del nostro impregno nell’oggi concreto, ma ci dovrebbe anche permetterci di comprendere tutta la provvisorietà.
La celebrazione dell’Ascensione, infatti, rappresenta il canto della speranza: in Cristo che sale al cielo, ogni uomo vede la meta della propria esistenza. Il cammino terreno risulta allora un pellegrinaggio, un itinerario verso la configurazione di tutti a Cristo. Quel posto, che Gesù è andato a preparare per ognuno di noi, è promesso e donato, ma va anche meritato. Per questo il cristiano vive nella speranza di vivere in cielo con Cristo facendo bene la sua parte quaggiù: in famiglia, nel lavoro, tra gli amici e dappertutto.
Gli apostoli sono stati rimproverati proprio perché stavano lì impalati a guardare verso il cielo. Ormai occorre guardare verso la terra e verso i prossimi. Tocca a noi assicurare la presenza visibile di Cristo (scomparso all’orizzonte) nel mondo. Cristo deve continuare a manifestarsi, a parlare, a servire, a rendersi tangibile attraverso la nostra persona. Dobbiamo, in breve, essere presenza reale di Cristo nel mondo.
Tuttavia, il guardare verso la terra, mal compreso o compreso unilateralmente, può essere un disastro. Non si tratta di un’ostinazione a guardare troppo e soltanto in direzione della terra. Bisogna non dimenticare di guardare anche verso l’alto dove Cristo nostro fratello è andato a prepararci il posto. Ci vuole quest’equilibrio!
Don Joseph Ndoum
«Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura» (Mc 16, 15). L’invito rivolto da Gesù ai suoi discepoli e riportato al termine del Vangelo di Marco non potrebbe essere più chiaro. A conclusione dei quaranta giorni trascorsi con i discepoli dopo la risurrezione, il Maestro ribadisce la fiducia con la quale si era rivolto a ciascuno di loro all’inizio di tutta la storia, quando «ne costituì Dodici — che chiamò apostoli — perché stessero con lui e per mandarli a predicare» (Mc 3, 14-15). Tra questi due inviti c’è la storia personale di ogni apostolo.
Siamo forse troppo abituati alle parole e alle immagini del Vangelo, per cui a volte non ne cogliamo l’aspetto sorprendente. Le parole di Gesù, infatti, seguono immediatamente un forte rimprovero rivolto agli stessi apostoli, «per la loro incredulità e durezza di cuore» (Mc 16, 14). Esiste una prima chiamata, che dà l’avvio alla storia della vocazione di ogni apostolo. E poi ce n’è una seconda, poco prima dell’Ascensione. Tra le due chiamate ogni apostolo fa esperienza di un grande fallimento, anch’esso riportato in modo inequivocabile nel Vangelo: «Tutti lo abbandonarono e fuggirono» (Mc 14, 50). Sembra quasi che Gesù, prima di confermare in modo definitivo la sua fiducia negli apostoli, abbia bisogno che ognuno di loro sia consapevole della propria inadeguatezza. Contrariamente a ogni logica umana, le “colonne” della Chiesa sono considerate solide da Gesù soltanto quando hanno fatto esperienza della loro personale fragilità.
È una dinamica che non riguarda soltanto coloro che sono chiamati a svolgere un ruolo di pastori nella Chiesa. Ogni battezzato riceve, proprio al momento del battesimo, una chiamata esplicita a essere apostolo, inviato a portare la luce del Vangelo in tutti i cammini della terra: «La vocazione cristiana è per sua natura anche vocazione all’apostolato» (Apostolicam actuositatem, n.2). E la luce accesa nel battesimo nel cuore di ognuno di noi continua a risplendere nella nostra vita, malgrado e attraverso i nostri sbagli. L’evangelizzazione è affidata a persone normali, piene di difetti che sono ben conosciuti da Dio, che tuttavia vede in ciascuno un apostolo degno di tutta la fiducia del Padre. «I santi — insegna Papa Francesco — non sono superuomini, né sono nati perfetti. Sono come noi, come ognuno di noi, sono persone che prima di raggiungere la gloria del cielo hanno vissuto una vita normale, con gioie e dolori, fatiche e speranze».
Gesù non nasconde le difficoltà che l’apostolo troverà lungo la strada: veleni, serpenti e demoni. Ma il Signore promette che i suoi «parleranno lingue nuove», adatte ai tempi e ai luoghi dove si troveranno. E che «imporranno le mani ai malati e questi guariranno» (Mc 16, 18). Quest’ultima promessa sembra quanto mai adatta ai nostri tempi inquieti, nei quali siamo chiamati a «imbarcarci nell’avventura di entusiasmare di nuovo un mondo stanco» (beato Alvaro del Portillo). Proprio la consapevolezza della personale fragilità di ciascuno renderà convincenti le vite dei cristiani. E sarà l’esperienza di essere stati guariti a renderli capaci di guarire gli altri.
[Carlo De Marchi – L’Osservatore Romano]
“Andate!”
I ‘piedi’ della Chiesa missionaria
Atti 1,1-11; Sl 46; Ef 4,1-13; Marco 16,15-20
Riflessioni
Le letture di oggi presentano l’Ascensione di Gesù al cielo sotto tre aspetti complementari:
- 1°: come gloriosa manifestazione di Dio (I lettura), con la nube delle apparizioni divine, uomini in bianche vesti, ben 4 riferimenti al cielo in pochi versetti, annuncio del ritorno futuro (v. 9-11);
- 2°: come epilogo di una impresa difficile e paradossale, ma riuscita (II lettura): Gesù, ascendendo al cielo, distribuisce doni agli uomini ed è la pienezza di tutte le cose (v. 8.10);
- 3°: come invio degli apostoli per una missione grande come il mondo (Vangelo).
Gli avvenimenti finali della vita terrena di Gesù danno senso e illuminano il tribolato percorso anteriore. “Per questo l’evangelista Giovanni parla di esaltazione, quindi di ascensione di Gesù nel giorno stesso della morte in croce: morte-risurrezione-ascensione costituiscono l’unico mistero pasquale cristiano che vede il recupero in Dio della storia umana e dell’essere cosmico. Anche i quaranta giorni, di cui si fa menzione in Atti 1,2-3, evocano un tempo perfetto e definitivo e non sono certo da vedersi come un’informazione cronologica” (G. Ravasi).
Il compimento, o epilogo, della Pasqua di Gesù sta alla radice della gioiosa speranza della Chiesa e della “serena fiducia” dei fedeli di essere un giorno “nella stessa gloria” di Cristo (Prefazio). È questa la radice dell’impegno apostolico e dell’ottimismo che anima i missionari del Vangelo, nella certezza di essere portatori di un messaggio e di un’esperienza di vita riuscita, grazie alla risurrezione. Anzitutto, è vita pienamente riuscita in Cristo; ed è già, anche se solo in forma iniziale, una vita riuscita nei membri della comunità cristiana.
Motivati interiormente dalla positiva esperienza di vita nuova in Cristo, gli Apostoli - e i missionari di tutti i tempi - ne diventano “testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra” (At 1,8), in un percorso che si apre progressivamente dal centro iniziale (Gerusalemme) verso una periferia vasta come il mondo intero. Tutto il mondo, infatti, è il campo al quale Gesù, prima di salire al cielo, manda i suoi discepoli (Vangelo): “Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura” (v. 15). In alcune illustrazioni la festa odierna viene raffigurata con due piedi che sporgono dalla nube che avvolge il corpo di Gesù. Sono i piedi della Chiesa missionaria, i piedi con cui Gesù continua a camminare oggi per le strade del mondo; e non solo i piedi, ma anche le mani, la bocca, il cuore… al servizio della missione. L’Ascensione, quindi, non è festa di addio, ma festa di invio, festa di missione. Una missione che si realizza grazie alla presenza permanente del Signore, che agisce insieme agli evangelizzatori e conferma la Parola con i segni (v. 20). Egli ci rassicura: “Io sono con voi tutti i giorni” (Mt 28,20).
I verbi dell’invio in missione mantengono la loro perenne attualità: ‘andare’ indica il dinamismo e il coraggio per immergersi nelle sempre nuove situazioni del mondo; (*) ‘proclamare il Vangelo,’ perché i popoli diventino seguaci non tanto di una dottrina, ma di una Persona; ‘credere’ richiama l’obbedienza della fede; ‘battezzare’ segnala il sacramento che trasforma e inserisce le persone nella vita trinitaria ed ecclesiale.
Gli apostoli mettono in pratica subito il comando di Gesù: “Partirono e predicarono dappertutto” (v. 20). Le ultime parole dei quattro Vangeli sono il lancio della Chiesa in missione - una Chiesa in stato permanente di Missione! - per continuare l’opera di Gesù. Ovunque, sempre! Con la sua parola e il suo stile di vita Gesù ci insegna a coniugare il cielo con la terra: guardare il cielo e non dimenticare la terra. Esorta ciascuno/a a rimboccarsi le maniche, perché il progetto inaugurato da Lui arrivi a trasformare le persone dal di dentro, nel cuore, e, in tal modo, si crei un mondo più giusto, fraterno, solidale. Lo sguardo al cielo - meta finale e ispiratrice del grande viaggio della vita - non distrae e non toglie energie, anzi stimola i cristiani e gli evangelizzatori ad avere uno sguardo d’amore sul mondo. A realizzare un impegno missionario generoso e creativo, in sintonia con le situazioni concrete. Per la vita della famiglia umana!
Parola del Papa
(*) «Oggi, in questo ‘andate’ di Gesù, sono presenti gli scenari e le sfide sempre nuovi della missione evangelizzatrice della Chiesa, e tutti siamo chiamati a questa nuova ‘uscita’ missionaria. Ogni cristiano e ogni comunità discernerà quale sia il cammino che il Signore chiede, però tutti siamo invitati ad accettare questa chiamata: uscire dalla propria comodità e avere il coraggio di raggiungere tutte le periferie che hanno bisogno della luce del Vangelo. La gioia del Vangelo che riempie la vita della comunità dei discepoli è una gioia missionaria».
Papa Francesco
Esortazione apostolica Evangelii Gaudium (2013) n. 20-21
P. Romeo Ballan, MCCJ
Gesù ci passa il “testimone” della missione
Commentario a Mc 16, 15-20
Questa volta la lettura evangelica della liturgia fa un salto. Dal vangelo di Giovanni, che abbiamo letto le ultime domeniche, passiamo a leggere l’ultima parte dell’ultimo capitolo di Marco, che gli esperti assicurano che è stata aggiunta più tarde alla redazione originale, il che non gli toglie niente al suo importante significato per la Chiesa primitiva e per noi. I cinque versetti che leggiamo oggi ci parlano di come Gesù ha passato il “testimone” della missione alla Chiesa per continuare la sua missione nel mondo. Vediamo brevemente questi cinque versetti:
1. “Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo a ogni creatura”
Più chiaro non può essere detto. Gli amici e i discepoli di Gesù capirono ben presto tre cose: a) che l’esperienza di amicizia e discepolato che avevano fatto accanto a Gesù di Nazareth era la “perla preziosa”, quello che di più importante era capitato nella loro vite; b) che non ostante la sua morte, o precisamente in essa, Gesù non era un perdente ma un vincitore, non in base alla prepotenza, ma in base all’amore, e che adesso Lui vive acanto al Padre, per cui è presente in ogni epoca della storia; c) che questa meravigliosa notizia non possono tenerla per loro soli, ma deve arrivare a tutti gli angoli della Terra. Annunciare questa “Buona Notizia”, questo “vangelo” non è un mandato per imporre ad altri un’ideologia o alcuni riti, ma per condividere con tutti l’enorme dono ricevuto.
2. “Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo”
I discepoli sanno anche che la misericordia di Dio fu rivelata a loro e a tutti gli esseri umani in Gesù Cristo. E che per ricevere questa misericordia non c’è bisogno di diventare “i migliori”, di fare qualche cammino straordinario; c’è bisogno soltanto di credere, di non chiudersi nel nostro orgoglio e ipocrisia, ma aprirsi gratuitamente al dono di un Amore gratuitamente offertoci. Il Battesimo è il segno eloquente di quest’accettazione, di questo riconoscimento del proprio peccato e di questo lasciarsi purificare e liberare dall’Amore senza limiti rivelato in Colui che “non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso… divenendo simile agli uomini”.
3. “Imporranno le mani ai malati e questi guariranno”
Molte volte pensiamo che la missione che Gesù ci affida consista nel predicare. Ed è vero che la parola è molto importante; essa illumina il nostro cammino e ci fa entrare in relazione con Dio e con il prossimo. Ma il Messaggio cristiano è molto di più che parole; è vita, azione, salute, educazione, libertà… agisce nelle realtà concrete delle persone e della società. E’ interessante notare come dall’inizio della missione cristiana ha prodotto intorno a se tutto un mondo di solidarietà (scuole, ospedali, centri per anziani e bambini, etc.). Queste azioni sociali non sono un modo per guadagnarsi la simpatia della gente; sono dei “segni messianici”, come quelli che faceva Gesù: azioni concrete che mostrano l’amore di Dio per ogni persona nella sua concreta situazione storica. D’altronde, questa “sanazione”, che nel mondo occidentale è capita come semplice guarigione fisica, è molto di più: è una sanazione della persona stessa, nella sua profonda identità, il che ha, tra l’altro, evidenti effetti fisici, psicologici e anche sociali. Non c’è dubbio, il Vangelo, quando è annunciato e ricevuto nella sincerità, ha in se una straordinaria forza sanatrice e liberatrice.
4. “Fu assunto in cielo e sedette alla destra di Dio”
Naturalmente, questi termini – assunto, sedersi, e destra – hanno un valore simbolico e vogliono trasmetterci una verità importante: che Gesù, adesso che è “nel cielo”, oltre la storia, non ha più le limitazioni proprie di un galileo del primo secolo; adesso Lui è contemporaneo di tutti noi, di qualunque cultura, e de qualunque esperienza umana. In questa sua nuova condizione, Gesù non è più manipolabile da nessuno (“Non mi toccare”, dice alla Maddalena), ma allo stesso tempo è vicino di ognuno di noi, qualunque sia la sua condizione di vita: uomo o donna, bianco o nero, più o meno peccatore, progressista o conservatore… Tutti noi possiamo entrare in comunione con Colui che è “seduto alla destra di Dio”.
5. “Essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore cooperava con loro”
I discepoli non rimassero a Gerusalemme, paralizzati dal ricordo e dalla nostalgia del Maestro. Si fecero responsabili del Vangelo nel Mondo e partirono, con uno spirito di libera fedeltà e creatività apostolica, sentendo che il Signore continuava sempre presente, anche se in un altro modo. Questa è la Chiesa, la comunità dei discepoli che si fa carico del Vangelo nel mondo. Ognuno di noi è parte di questa Chiesa missionaria e ha la sua parte di responsabilità nella missione ricevuta da Gesù.
P. Antonio Villarino, MCCJ