Non esiste soltanto il gregge, e nemmeno solo il buon Pastore, ma anche il lupo, la belva che viene a disperdere e a rapire le pecore. Bestia rapace, scaltra e sanguinaria. Eppure animale bellissimo, potente, col muso appuntito come una freccia. La sfida dei primi pastori della storia fu allevare le pecore per ricavarne cibo e indumenti.

“Guarda a Colui dal quale sei stato fatto bello”

Il buon pastore dà la propria vita per le pecore
Giovanni 10,11-18

Siamo alla quarta domenica di Pasqua, a metà percorso del tempo pasquale di cinquanta giorni. Ogni anno, in questa domenica, leggiamo un brano del capitolo 10 del vangelo di Giovanni, dove Gesù, attraverso una allegoria, si presenta come il buon pastore. Per questo motivo è chiamata la “Domenica del Buon Pastore”. In concomitanza viene celebrata oggi la Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni, istituita da Paolo VI nel 1964. Il tema della Giornata proposto da Papa Francesco per quest’anno è: “Chiamati a seminare la speranza e a costruire la pace”.

Dove andiamo adesso?

Dopo le tre domeniche delle apparizioni del Risorto, adesso, per tre domeniche, leggeremo dei brani del vangelo di Giovanni, apparentemente non collegati tra di loro, e rischiamo di perdere di vista il filo conduttore del nostro cammino. Mi pare utile ricordare che andiamo verso l’Ascensione del Signore e la Pentecoste, culmine del percorso pasquale. Le letture domenicali intendono prepararci a queste due grandi feste. Lo fanno attraverso tre temi, partendo da tre scritti del Nuovo Testamento:

1. Nella prima lettura, il tema della CHIESA, con la lettura del libro degli Atti degli apostoli: ripercorreremo i primi passi della Chiesa, guidata dallo Spirito Santo;
2. Nella seconda lettura, il tema della VITA CRISTIANA, con la lettura della prima lettera di San Giovanni, per riscoprire la nostra filiazione divina;
3. Nel vangelo, la persona di GESÙ, attraverso alcuni brani del vangelo di Giovanni, sul nuovo rapporto di Gesù con i suoi, come Pastore, come Vite e come Amico.

Che pastore strano!

L’allegoria del pastore richiede, prima di tutto, lo sforzo di immedesimarsi in una realtà di un’epoca che non è più la nostra, per cogliere il messaggio di Gesù. Infatti, nessuno vuole essere una “pecora” né far parte di un “gregge”, anche se, purtroppo, lo siamo, e come! Solo che “pastori”, “pecore” e “greggi” si chiamano diversamente: leader, idoli dello sport, guru mediatici, influencer, fan, tifosi, club, populismi… In ogni caso, qui si tratta di uno strano pastore perché nessuno darebbe la vita per una pecora e poi il pastore stesso diventa agnello e si fa alimento del gregge!…

L’immagine del pastore ha dietro di sé una così lunga e ricca tradizione biblica (particolarmente nei profeti) che non possiamo farne a meno. Attorno ad essa si è sviluppata una spiritualità (vedi Salmo 23: “Il Signore è mio pastore”). Davanti all’infedeltà dei pastori, Dio decide di prendere in mano il suo gregge (Geremia 23; Ezechiele 34) e dare al suo popolo dei “pastori secondo il suo cuore” (Geremia 3,15). La più grande minaccia contro la ribellione sarà: “Non sarò più il vostro pastore!” (Zaccaria 11). Ma la misericordia di Dio ha sempre la meglio: “Riverserò sopra la casa di Davide e sopra gli abitanti di Gerusalemme uno spirito di grazia e di consolazione: guarderanno a me, colui che hanno trafitto” (Zaccaria 12,10).

Gesù il Pastore grande delle pecore, dagli occhi grandi!

Il nuovo testamento riprende questa feconda tradizione: Gesù è “il Pastore grande delle pecore” (Ebrei 13,20), il Pastore trafitto. Non ci sorprende, quindi, che la prima raffigurazione di Gesù, nelle catacombe, sia quella del “buon pastore”, secoli prima del crocifisso. Sulla tomba di un cristiano della fine del II secolo troviamo questa iscrizione: “Sono il discepolo di un pastore santo che ha occhi grandi; il suo sguardo raggiunge tutti”.

La caratteristica principale del buon pastore è che egli “dà la sua vita per le pecore”. Dare la vita è l’amore più grande. “Il buon Pastore è la versione dolce del crocifisso. Dolce solo a livello figurativo, perché la sostanza è la stessa. Non per niente nel brano di Giovanni la frase “dare la vita” è quella che spiega cosa significa ‘buono’, e ricorre ben cinque volte” (D. Pezzini).

La bellezza come testimonianza

“Io sono il buon pastore!”. C’è da sottolineare, però, che l’aggettivo greco impiegato dall’evangelista non è “agathòs” (buono), ma “kalòs”, cioè bello. Quindi la traduzione letterale sarebbe “Io sono il bel pastore” o “il pastore bello”! Questo ci può offrire un’altra prospettiva della bontà. La bontà rende bella la persona e la bellezza è irradiazione della sua bontà (Platone). Gesù è l’epifania non solo della bontà, ma anche della bellezza. Dio è Amore perché è Bellezza, ed è Bellezza perché è Amore.

“Bellezza e bontà s’intrecciano tra loro. […] Nell’Antico Testamento ci si imbatte per 741 volte nell’aggettivo tôb (si pronuncia anche tôv) e il suo significato oscilla appunto tra «buono» e «bello», per cui bontà e bellezza, etica ed estetica sono due volti della stessa realtà” (Gianfranco Ravasi). Le sette esclamazioni in Genesi 1: “Dio vide che era tôb” (Genesi 1), dunque, potrebbero essere tradotte come: “Dio vide che era una cosa bella”. Oggi la Parola del “Buon/Bel Pastore” potrebbe tradursi in un invito: “Gustate e vedete com’è buono/bello il Signore!” (Salmo 34,9). Egli è, davvero, “il più bello tra i figli dell’uomo” (Salmo 45,3).

Dice Simone Weil: “In tutto ciò che suscita in noi il sentimento puro e autentico del bello c’è come una specie di incarnazione di Dio […]; quindi tutta l’arte di prim’ordine è per essenza religiosa [in quanto] testimonianza in favore dell’Incarnazione. Una melodia gregoriana testimonia quanto la morte di un martire”!La bellezza, l’armonia estetica è una via verso Dio, che forse non abbiamo sfruttato abbastanza, e a cui oggi l’umanità è particolarmente sensibile.

I santi sono coltivatori e cantori della bellezza. San Francesco ne è un esempio eloquente. Egli contempla soprattutto nel Crocifisso di San Damiano la Bellezza di Dio, ma in ogni cosa bella il santo vedeva la bellezza del Creatore: “Tu sei Bellezza!” “E quale estasi pensi gli procurasse la bellezza dei fiori quando ammirava le loro forme o ne aspirava la delicata fragranza? Subito rivolgeva l’occhio del pensiero alla bellezza di quell’altro Fiore il quale spuntando luminoso nel tempo della fioritura dalla radice di Jesse, con il suo profumo richiama alla vita migliaia e migliaia di morti” (dal suo biografo Tommaso da Celano).

Il mondo ha bisogno di bellezza

“L’umanità spesso smarrisce il vero senso della bellezza; si lascia prendere dalla vertigine di ciò che è appariscente, e trasforma il bello in spettacolo, in bene di consumo, abbandonandosi all’immediatamente fruibile. La bellezza che si è resa trasfigurata e crocifissa ci redime dalla seduzione dell’effimero” (Lucia Antinucci). Oggi, quando si coltiva tanto la bellezza estetica, il cristiano è chiamato a rendere testimonianza del bello, rispecchiando la bellezza del suo Signore (2 Corinzi 3,18). Dice Sant’Agostino: “Guarda a Colui dal quale sei stato fatto bello”.

Potremmo dire che coltivare e testimoniare la bellezza di Cristo è una modalità di definire la nostra vocazione. Lo esprime bene il Papa nel suo messaggio:
“La Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni ci invita, ogni anno, a considerare il dono prezioso della chiamata che il Signore rivolge a ciascuno di noi, suo popolo fedele in cammino, perché possiamo prendere parte al suo progetto d’amore e incarnare la bellezza del Vangelo nei diversi stati di vita”.

Scrisse Dostoevskij, nel suo romanzo “L’idiota”: “La bellezza salverà il mondo”. Carlo Maria Martini riprese questa espressione nella sua lettera pastorale “Quale bellezza salverà il mondo?” (1999). Scrisse: “Non basta deplorare e denunciare le brutture del nostro mondo. Non basta neppure, per la nostra epoca disincantata, parlare di giustizia, di doveri, di bene comune, di programmi pastorali, di esigenze evangeliche. Bisogna parlarne con un cuore carico di amore compassionevole, facendo esperienza di quella carità che dona con gioia e suscita entusiasmo: bisogna irradiare la bellezza di ciò che è vero e giusto nella vita, perché solo questa bellezza rapisce veramente i cuori e li rivolge a Dio”. Disse ancora:
“Ciò che ci spinge a cercare tanto intensamente la bellezza di Dio rivelata a Pasqua è anche il suo contrario, cioè la negazione della bellezza. La vera bellezza è negata dovunque il male sembra trionfare, dovunque la violenza e l’odio prendono il posto dell’amore e la sopraffazione quello della giustizia. Ma la vera bellezza è negata anche dove non c’è più gioia, specialmente là dove il cuore dei credenti sembra essersi arreso all’evidenza del male, dove manca l’entusiasmo della vita di fede e non si irradia più il fervore di chi crede e segue il Signore della storia”.

Abbiamo qui materia per un serio esame di coscienza per ciascuno/ciascuna di noi, per le nostre comunità e per la Chiesa! Ci lamentiamo spesso che la gente si allontana dalla fede e le chiese si svuotano. La nostra vita, il nostro viso, i nostri rapporti rispecchiano, però, la bellezza del “Pastore Bello”?

P. Manuel João Pereira Correia mccj
Verona, aprile 2024

Il lupo e l’Agnello

Giovanni 10,11-18

Non esiste soltanto il gregge, e nemmeno solo il buon Pastore, ma anche il lupo, la belva che viene a disperdere e a rapire le pecore. Bestia rapace, scaltra e sanguinaria. Eppure animale bellissimo, potente, col muso appuntito come una freccia. La sfida dei primi pastori della storia fu allevare le pecore per ricavarne cibo e indumenti. Impararono ad averne cura, garantendo pascoli e difesa. Ma la loro più grande gloria fu addomesticare i lupi, rendendoli custodi gelosi, guardiani fedeli e instancabili delle pecore. Riuscirono a trasformare quelle macchine da guerra in scudo per gli indifesi, convertendo la loro vorace, selvaggia astuzia in guardia premurosa e infaticabile. Se i lupi non fossero stati così aggressivi e spietati, non sarebbero divenuti cani pastore energici, resistenti e intrepidi. Del resto, Isaia l’aveva preannunciato: il lupo abiterà con l’agnello (Is 11,6). Esattamente con quell’Agnello che è il pastore migliore (Ap 7,17).

Anche in questo san Francesco d’Assisi assomiglia al suo Signore: ha ammansito un lupo. Non l’ha scacciato, l’ha addomesticato, rendendolo fedele alleato delle persone che prima impauriva. In effetti, se leggiamo attentamente i Vangeli, il buon Pastore ha incontrato tanti lupi: gli arrivisti fratelli Giacomo e Giovanni, l’approfittatore Zaccheo, l’adultera, il delinquente che chiamiamo “buon Ladrone”, quel giovane intelligentissimo e arrogante di nome Saulo… Tutta gente che minacciava le sue pecore, le disperdeva e le rapiva. Non li ha cacciati a bastonate, ma ha convertito la loro violenza in forza.

Abbiamo quindi almeno due motivi per rinvigorire la nostra speranza: lì dove siamo animali indifesi, il buon Pastore ci proteggerà; lì dove siamo lupi, il buon Pastore sa come trasformarci in custodi.

Queste sue prerogative sono diventate anche le nostre, dal momento che generosamente ci ha donato il suo stesso Respiro.
[Giovanni Cesare Pagazzi - L'Osservatore Romano]

Un solo gregge guidato da Dio

Atti 4,8-12; Salmo 117; 1Giovanni 3,1-2; Giovanni 10,11-18

"Io sono il buon pastore". Questa espressione con la quale Gesù si presenta nel vangelo dà l'intonazione alla liturgia della parola di questa domenica. Con questa tematica si armonizza anche il brano del kèrygma sviluppato da Pietro, nella prima lettura, davanti ai capi del popolo e agli anziani di Gerusalemme. Si tratta di un annunzio: mediante la risurrezione dai morti, Dio Padre ha fatto di Gesù la "pietra angolare" dell'edificio della salvezza; in nessun altro c'è salvezza. In queste parole si intravedono due coordinate del disegno divino di salvezza: l'iniziativa di Dio e l'apertura universale della salvezza, offerta per mezzo di Cristo a tutti gli uomini.

Nel brano evangelico, in effetti, Gesù si identifica con il "buon pastore" e si contrappone al "mercenario", di fronte a un "gregge" che non è mai sicuro, perché continuamente minacciato. Il buon pastore è "per" le pecore, affronta il rischio per la difesa del gregge; instancabile, egli va alla ricerca della pecora smarrita, chiama i dispersi, gli sbanditi, gli emarginati, i rifiutati; accorre dove c'è uno che non ce la fa più, schiacciato sotto il peso del dolore, della solitudine, dell'incomprensione, ecc. Questo ritratto del pastore ideale è un modello del servizio e dell'impegno pastorale dei responsabili della comunità.

Invece, nell'ottica del mercenario, le pecore sono "per" il suo interesse, le sue comodità. È un calcolatore ("pastore") che vede il gregge in funzione dei propri conti, del proprio piedestallo, del proprio nome e vantaggio. Questa presentazione negativa e insistente della figura del mercenario ha un chiaro risvolto ecclesiale e riproduce i tratti tipici del "falso pastore" della tradizione biblica. Anche la minaccia del "lupo" richiama la situazione della comunità cristiana esposta alle tensioni interne e alle ostilità esterne.

«Conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me...». Si tratta, nella tradizione biblica, di quella conoscenza che non ha niente da fare con la semplice intelligenza, ma è questione di amore e di un rapporto di profonda comunione. È in forza di questo legame di conoscenza e di amore che Gesù "buon pastore" dona ha sua vita "per" le pecore. Con un pastore di questo genere non è più possibile vergognarsi di appartenere alla chiesa, gregge di Cristo. Ognuno ha un valore unico ai suoi occhi. Egli è attento a ciascuna delle sue pecore.

Le "altre pecore" che non appartengono a "questo ovile" sono i pagani. Si tratta della prospettiva universale della salvezza, recata da Cristo, che abbraccia tutto il genere umano. Cioè Gesù è il Messia escatologico che ha ricevuto dal Padre il compito di condurre l'umanità intera per realizzare la promessa biblica di "un solo gregge e un solo pastore". Si coglie allora più facilmente lo spessore cristologico e soteriologico-universale della formula "io sono il buon pastore".
Don Joseph Ndoum

L’allegria della vita e della mente

«La mente si nutre soltanto di ciò che la rallegra», scrive Agostino. La mente può essere tante cose: acuta, tagliente, speculativa, vispa, teorica o pratica, empatica o analitica, stupida ed intelligente. Ma di cosa si nutre? Cosa la fa intuire, comprendere, accogliere la realtà di sé, dell’altro, di un pezzo di questo mondo? Forse solo ciò che la convince, conforta, che allarga i suoi orizzonti, che la fa respirare. In un tale clima rinascono e risorgono sia il soggetto che quella briciola del cosmo che viene illuminata da esso. È un momento di gioia, che può creare un habitus, un’allegria o letizia o serenità nell’intimo dell’uomo.

L’allegria è il titolo della prima raccolta di poesie di Giuseppe Ungaretti, di quella catena aurea, di quel rosario doloroso e gioioso di opere che marca le stagioni della Vita di un uomo: Il porto sepolto, Sentimento del tempo, Il Dolore (Giorno per giorno), Il taccuino del vecchio, La terra Promessa — col cantico di una piccola e potente risurrezione: Per sempre. Vi si conserva e rinnova il tono fresco, immediato, laconico e coinvolgente dei suoi esordi, di quelle splendide poesie che si devono alla illuminazione di un attimo e che da parte loro fanno brillare la sorte degli uomini, perfino nella stagione della Prima guerra mondiale. Una letizia malgrado tutto.

E Gesù, conosceva lui l’allegria della mente, il sorriso raggiante, ironico, irenico, confortante? La sua vita è impensabile senza la gioia dei pranzi condivisi, dell’ospitalità, della vicinanza sorprendente ai malati e depressi per via della sua gratia elevans, senza l’umorismo nascosto, leggiadro e leggero del Discorso sulla Montagna, dove fa passare in rassegna gli uccelli, i gigli, i capelli, i passeri, i pagani, la regina di Saba, solo per stuzzicare l’esperienza della libertà vangelica, per allargare i suoi spazi di manovra e di letizia. O prendiamo la domanda di Giovanni 8: «Chi di voi è senza peccato…»: non lo dice con tono perentorio, smascherante, cinico, ma forse con un lieve sorriso, sapiente, triste e confortante che rispecchia la verità della condizione umana, condividendola.

Nel vangelo come messaggio lieto ritroviamo il clima che Ungaretti sa cogliere nella poesia “Senza più peso”: «Per un Iddio che rida come un bimbo,/ Tanti gridi di passeri,/ Tante danze nei rami,/ Un’anima si fa senza più peso,/ I prati hanno una tale tenerezza,/ Tale pudore negli occhi rivive,/ La mani come foglie/ s’incantano nell’aria…/ Chi teme più, chi giudica?».

Un piccolo canto della risurrezione, che, forse, invera la promessa che Italo Calvino esprime all’inizio delle sue Lezioni americane: l’opera della poesia sarebbe quello di togliere i falsi pesi alla realtà. E se questo fosse anche l’operazione più intima e “graziosa” della religione?
[Elmar Salmann – L’Osservatore Romano]

Il Pastore Buono
abbraccia il mondo intero nel suo Cuore

Atti 4,8-12; Salmo 117; 1Giovanni 3,1-2; Giovanni 10,11-18

Riflessioni
La prima immagine che i cristiani usarono, fin dalle catacombe, per rappresentare Gesù Cristo, fu quella del Buon Pastore. molti secoli prima del crocifisso. «Il buon Pastore è la versione dolce del crocifisso. Dolce solo a livello figurativo, perché la sostanza è la stessa. Non per niente nel brano di Giovanni la frase “dare la vita” è quella che spiega cosa significa ‘buono’, e ricorre ben cinque volte” (D. Pezzini). Gesù ripete con insistenza (Vangelo) che “il buon pastore dà la propria vita per le pecore” (v. 11.15). Gesù si è identificato con l’immagine biblica del pastore (cfr. Esodo, Ezechiele, Salmi…), e l’evangelista Giovanni l’ha riletta in chiave messianica. Abbondano le espressioni che indicano la stretta relazione tra Gesù e le pecore: entrare-uscire, chiamare-ascoltare, camminare-seguire, aprire, condurre, guidare, conoscere, dare la vita… Fino a identificarsi pienamente con ‘il buon pastore che dà la vita per le pecore’ (v. 11.15). Da notare che il testo greco usa un sinonimo: il pastore ‘bello’ (v. 11.14), cioè buono, perfetto, che unisce in sé la perfezione etica ed estetica. Bella, cioè, buona, è una persona, un’anima, un raccolto, una coppia, ecc. È così, perché “la bellezza salverà il mondo”, come affermano vari autori moderni: F. M. Dostoevskij, card. Carlo M. Martini, B. Forte, G. Bregantini, O. Paz, L. Esquivel.

Gesù dà la sua vita per tutti, vicini e lontani; ha anche altre pecore da guidare, fino a formare un solo gregge con un solo pastore (v. 16). Egli non rinuncia a nessuna pecora, anche se sono lontane o non lo conoscono: tutte devono entrare per la porta che è Lui stesso (cfr. Gv 10,7.9), perché Egli è l’unico salvatore. La missione della Chiesa si muove su questi parametri di universalità: vita offerta per tutti, prospettiva dell’unico gregge, vita in abbondanza... Anche se il gregge è numeroso, nessuno è in più, nessuno si perde nell’anonimato; al contrario i rapporti sono personali: il pastore conosce le sue pecore e queste lo conoscono (v. 14), le chiama una per una, per nome (v. 3). Vi è una circolarità di vita e di rapporti fra il Padre, Gesù e le pecore, animati da una linfa comune di conoscenza e di amore (v. 15). Questa circolarità diventa un modello per la missione della Chiesa.

L’intenso amore con cui il Buon Pastore dà la propria vita per le pecore produce frutti meravigliosi: fa di noi dei figli di Dio (II lettura). Giovanni ci assicura che “lo siamo realmente!”. E che un giorno vedremo Dio “così come Egli è” (v. 1-2). Con il dono della sua vita, il Buon Pastore è divenuto il Salvatore unico e universale, di tutti. Lo afferma con decisione l’apostolo Pietro, parlando di Gesù Cristo davanti al Sinedrio (I lettura): “In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati” (v. 12).

Seguire le orme di Gesù ‘il Buon Pastore’ è anche l’obiettivo che si propone quest’anno la 58° Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni, nella quale il Papa presenta San Giuseppe come modello e ispiratore per le vocazioni, poiché il padre legale di Gesù, «attraverso i sogni che Dio gli ha ispirato, ha fatto della sua esistenza un dono». (*) La vocazione di speciale consacrazione (sacerdozio, vita consacrata, vita missionaria, servizi laicali…) si radica e si rafforza nell’esperienza personale di sentirsi amato e chiamato da Qualcuno che esiste prima di te. Per qualunque tipo di vocazione, è determinante sentire come vera la parola di Gesù: “Conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me” (v. 14). Si tratta di un’esperienza fondante: sentire che sei conosciuto e amato da Dio ti fa vivere, ti dà sicurezza, ti fa sentire figlio e fratello, fa di te un discepolo-missionario, che cammina sulle orme di Gesù-Buon Pastore.

Sapere che vivi nel cuore di Dio ti apre al mondo, ti rende pronto a condividere i progetti e le preoccupazioni del Pastore Buono, che ha “altre pecore” (v. 16) da radunare, guidare, salvare. La vicinanza e la contemplazione del Pastore Buono ti fa essere Chiesa missionaria, con orizzonti grandi come il mondo intero. A tale scopo occorre animare le parrocchie e le comunità a non essere dei recinti chiusi, dove ci si prende cura di chi è rimasto, ma piuttosto comunità in uscita, campi base dove si sperimenta l’incontro con il Risorto e da cui si parte per annunciare Gesù ai vicini e ai lontani. La sfida – grande e gioiosa sfida! - per tutti noi, preti-suore-laici, è prendersi cura dei bisognosi, come fece il buon samaritano. Detto in parole di oggi: far propria l’espressione inglese “I care”, cioè: mi importa, mi prendo cura, mi sta a cuore.  

Parola del Papa

(*) «Il Signore desidera plasmare cuori di padri, cuori di madri: cuori aperti, capaci di grandi slanci, generosi nel donarsi, compassionevoli nel consolare le angosce e saldi per rafforzare le speranze. Di questo hanno bisogno il sacerdozio e la vita consacrata, oggi in modo particolare, in tempi segnati da fragilità e sofferenze dovute anche alla pandemia... San Giuseppe ci suggerisce tre parole-chiave per la vocazione di ciascuno. La prima è sogno. Tutti nella vita sognano di realizzarsi. Ed è giusto nutrire grandi attese, aspettative alte che traguardi effimeri – come il successo, il denaro e il divertimento – non riescono ad appagare. In effetti, se chiedessimo alle persone di esprimere in una sola parola il sogno della vita, non sarebbe difficile immaginare la risposta: “amore”. È l’amore a dare senso alla vita, perché ne rivela il mistero. La vita, infatti, si ha solo se si , si possiede davvero solo se si dona pienamente. San Giuseppe ha molto da dirci in proposito, perché, attraverso i sogni che Dio gli ha ispirato, ha fatto della sua esistenza un dono».
Papa Francesco
Messaggio per la 58° Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni, 2021

P. Romeo Ballan, MCCJ