Con la Domenica delle Palme entriamo nella Settimana Santa. Ề una domenica ricca di significati: ci ricordiamo il mistero di Cristo salvatore che dona la vita per noi, e approfondiamo normalmente il senso del nostro essere cristiani. La liturgia inizia con la benedizione delle palme o dei rami d’ulivo, per ricordare l’ingresso trionfale di Gesù in Gerusalemme.
Entriamo nella Grande Settimana!
Marco 11,1-10 (benedizione delle palme); Marco 14,1-15,47 (passione del Signore)
Con la domenica delle palme e della passione del Signore iniziamo la Settimana Santa, chiamata pure la Grande Settimana. Dopo i quaranta giorni di preparazione, ci apprestiamo a celebrare il mistero della Passione, Morte e Risurrezione di Gesù (Triduo Pasquale). Un mistero tremendo e ineffabile, tenebroso e luminoso, davanti al quale rimaniamo stupiti, storditi ed increduli: “Chi avrebbe creduto alla nostra rivelazione?” (Isaia 53,1). La Chiesa e i suoi figli vivono questa settimana come un ritiro spirituale, in comunione intima con il loro Signore. Il modo come viviamo questi giorni è uno dei segni della profondità o meno della nostra fede.
Oggi Gesù entra nella sua città, Gerusalemme, la “città di Davide”, ricevuta in eredità, nella sua qualità di “Figlio di Davide”. Gesù amava Gerusalemme, tanto che pianse su di essa perché non era stata capace di riconoscere l’ora della sua visita. Il Signore entra nella sua città non per prenderne possesso, ma per dare la vita per il suo popolo. Entra cavalcando un puledro preso in prestito, acclamato festosamente dai suoi discepoli e simpatizzanti. A loro ci aggiungiamo noi:
“Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore!
Benedetto il Regno che viene, del nostro padre Davide!
Osanna nel più alto dei cieli!”.
A) Domenica delle palme e la legge del somaro
Questa domenica ha due facce, due parti ben distinte. La prima: il rito delle palme, seguito dalla processione, caratterizzata dalla gioia e l’entusiasmo, segno profetico del trionfo della vita. La seconda: l’Eucaristia, con la proclamazione della passione, contrassegnata dalla mestizia, dal fallimento e dalla morte.
Dal vangelo della benedizione delle palme (Marco 11,1-10) vorrei richiamare l’attenzione su due dei protagonisti: la folla e il puledro. Innanzitutto, la folla che accompagna Gesù nel suo ingresso in Gerusalemme, acclamandolo come Messia. Generalmente identifichiamo questa folla, presumibilmente costituita soprattutto da galilei, con la folla che giorni dopo chiederà la crocifissione di Gesù. Sembra piuttosto improbabile e alquanto ingiusta questa identificazione. Gerusalemme era una città con parecchie decine di migliaia di abitanti e, a Pasqua, raddoppiava la sua popolazione con l’arrivo dei pellegrini. Questa folla di galilei, per di più ritenuti degli esaltati, era naturale che finisse per disperdersi, forse anche delusa nelle attese messianiche su Gesù. La folla che chiederà la morte di Gesù, invece, era sobillata dalle autorità religiose della città e sicuramente formata da cittadini giudei. Il rischio per il discepolo di Gesù non è quello di essere una banderuola o un voltafaccia, ma di lasciarsi sopraffare dalla massa, di lasciarsi condizionare dal “così fan tutti” e dal “politicamente corretto”. Peggio ancora, di peccare di codardia nel dichiararsi un seguace di Gesù. In ogni caso, una fede alimentata da un entusiasmo facile e ambiguo si rivela sempre effimera e fondata sulla sabbia del sentimento!
La messianicità di Gesù richiede un cambio profondo di mentalità. Per questo Gesù va a riprendere una profezia dimenticata, che presenta un messia umile e mansueto che al cavallo preferisce l’asino, animale da soma (porta il peso degli altri): “Ecco, a te viene il tuo re, mite, seduto su un’asina e su un puledro, figlio di una bestia da soma” (Zaccaria 9,9). Gesù è il Messia che porta sulla croce i nostri pesi: “Egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori” (Isaia 53,4). Per conseguenza, anche il cristiano deve fare lo stesso: “Portate i pesi gli uni degli altri: così adempirete la legge di Cristo” (Galati 6,2). “Perché tutta la legge di Cristo è la legge del somaro” (Silvano Fausti).
“Quando il cristianesimo, la Chiesa, ciascuno di noi, sapendo che l’unica modalità d’esistenza è il vivere come l’asino, comincerà ad ammiccare al ‘mondo’, ai re e ai potenti della terra, desiderando vivere ed essere come loro attraverso il potere, la ricchezza e il successo, allora si realizzerà una sorta di tragica ibridazione. Noi fatti per vivere come asini ci uniremo al cavallo, simbolo da sempre del potere mondano, e il risultato sarà ritrovarsi come muli, animali stupidi ma soprattutto sterili.” (Paolo Scquizzato).
B) La sacralità del racconto della passione
La liturgia ci fa compiere un salto dalle palme alla passione, con la proclamazione del racconto della passione del Signore secondo il vangelo di Marco, che leggiamo quest’anno. Venerdì Santo ascolteremo ancora questo racconto secondo Giovanni. È proclamato due volte, nel tentativo di far penetrare questa Parola nel cuore del credente.
Il racconto della passione è la parte più antica, più sviluppata e più sacra dei vangeli. Si ritiene che la stesura essenziale, ripresa nel vangelo di Marco, sia avvenuta pochi anni dopo la morte di Gesù nell’anno 30, possibilmente prima dell’anno 36 quando Caifa terminò come sommo sacerdote, dato che nel racconto di Marco non viene menzionato il suo nome, e ciò fa supporre che Caifa fosse ancora in carica. Questo racconto circolava nelle comunità e presumibilmente era letto nella celebrazione eucaristica.
Gli apostoli erano i “testimoni della risurrezione”. Come mai, dunque, i cristiani della prima generazione hanno dato tanta importanza alla memoria della passione? Perché hanno visto che il pericolo di ignorare la croce di Cristo era molto forte e questo sarebbe stato un tradimento del messaggio cristiano. Tale rischio è tuttora una grande tentazione per non pochi cristiani. Il “kerigma”, cioè l’annuncio, è un trittico che unisce indissolubilmente la passione, la morte e la risurrezione del Signore.
C) La Passione secondo San Marco
Ogni evangelista ha una sua prospettiva teologica e catechetica, secondo la propria sensibilità personale e i bisogni delle comunità. Vediamo alcuni elementi caratteristici del racconto di Marco, raccolti attorno ad alcune parole chiave, come stimolo per la riflessione personale.
1) L’angoscia e la solidarietà. La prima nota sconcertante del racconto è il riferimento alla paura e all’angoscia di Gesù davanti alla morte imminente: “Cominciò a sentire paura e angoscia. Disse loro: La mia anima è triste fino alla morte”. Non si tratta di un supereroe che va impavido verso la morte. È un uomo come noi che ama la vita e teme la morte. Quando la paura, l’angoscia e la tristezza minacciano di sopraffarci, pensiamo a lui che abita tuttora in queste realtà, in estrema solidarietà con noi!
2) La solitudine. Gesù appare abbandonato da tutti, addirittura dai suoi più stretti amici, incapaci di vegliare con lui e di consolarlo. Si sentirà abbandonato persino dal Padre sulla croce: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. La solitudine fa parte dell’esperienza del cristiano. È il momento della prova e della purificazione della fede!
3) Abba! In quest’ora della prova Gesù prega con estrema fiducia: “Abbà! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu”. Pensiamo comunemente che il modo abituale di Gesù per rivolgersi al Padre sia quello di “Abbà”, il nome affettuoso del bambino per chiamare il padre: papà, babbo, papino. In realtà, questa è la sola volta in tutti i vangeli che troviamo questa parola e, guarda caso, nel momento più tragico della sua vita. Interroghiamoci se, nei momenti di angoscia e di bisogno, ci rivolgiamo a Dio come ad un papà o al “Dio onnipotente”.
4) La sindone. Marco presenta un dettaglio pittoresco che ha, da sempre, sfidato gli interpreti ed incuriosito i lettori. Al momento dell’arresto di Gesù “tutti lo abbandonarono e fuggirono. Lo seguiva però un ragazzo, che aveva addosso soltanto un lenzuolo, e lo afferrarono. Ma egli, lasciato cadere il lenzuolo, fuggì via nudo”. Chi è questo ragazzo? Si pensa che sia un aneddoto autobiografico che Marco ha voluto inserire nel suo vangelo. Sarebbe lui stesso. Altri pensano che abbia, invece, una portata simbolica. Questo giovanotto rappresenterebbe il catecumeno chiamato a seguire Gesù fino alla croce, ma che, all’ora della verità, ha paura e scappa nudo, lasciando dietro la veste del suo battesimo, il lenzuolo (“sindone”, in greco). Alcuni, ancora, ci vedono un simbolismo positivo, perché gli stessi vocaboli “giovanotto” e “sindone” li troviamo presso il sepolcro, al mattino di Pasqua: Le donne “entrate nel sepolcro, videro un giovane, seduto sulla destra, vestito d’una veste bianca, ed ebbero paura” (16,5). In questo caso rappresenterebbe la vita stessa di Gesù che gli avversari credono di afferrare, ma si troveranno in mano solo il lenzuolo che l’aveva avvolto nel sepolcro! A ciascuno di noi il lasciarsi interrogare dalla comparsa di questo giovane!
5) Il silenzio. Ci stupisce il silenzio di Gesù, sottolineato diverse volte: “Ma egli taceva e non rispondeva” (a Caifa); “Ma Gesù non rispose più nulla, tanto che Pilato rimase stupito”. Questo silenzio ci interroga. Gesù non risponde perché è cosciente che è inutile parlare, che questo giudizio è una farsa e che i suoi oppositori cercano solo di intrappolarlo, non cercano la verità. Gesù, dunque, rinuncia a difendersi, consapevole che, alla fine, la verità verrà a galla e il bene trionferà. Noi, purtroppo, tendiamo a reagire ad ogni costo, anche in modo isterico, incapaci di subire l’umiliazione.
6) La professione di fede. “Il centurione, che si trovava di fronte a lui, avendolo visto spirare in quel modo, disse: Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!”. Che strano! Gesù non viene riconosciuto come Figlio di Dio nell’operare i miracoli, ma per il suo modo di subire e di morire in croce! È un pagano la prima persona nel vangelo di Marco che fa la professione di fede in Gesù come Figlio di Dio, verso la quale Marco voleva condurre i suoi lettori. All’inizio del vangelo, Marco aveva scritto: “Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio” (1,1). Era il titolo, l’indicazione del percorso e il fine del suo vangelo: portare il lettore a riconoscere che Gesù è il Cristo e il Figlio di Dio!
7) Il coraggio. “Giuseppe d’Arimatea, membro autorevole del sinedrio, che aspettava anch’egli il regno di Dio, con coraggio andò da Pilato e chiese il corpo di Gesù”. Marco sottolinea che questa mossa è stata un atto di coraggio, il coraggio di manifestarsi come un amico di Gesù, un condannato dal potere e un maledetto dalla Legge. Questo coraggio non l’hanno avuto i suoi discepoli. L’avremo noi?
D) Ricordi personali…
La domenica delle palme evoca in me dei ricordi nostalgici dell’infanzia. Ragazzi e giovani, il sabato andavamo sul monte per cercare un bel ramo di alloro, il più lungo possibile, che poi ornavamo di fiori. La domenica, la chiesa sembrava una foresta ondeggiante, con piante alte anche diversi metri che profumavano tutta la navata. Oggi i ramoscelli sono spesso così minuscoli e stilizzati, da essere ridotti a un simbolo ‘insignificante’, come tanti altri elementi della nostra liturgia, purtroppo.
Un altro ricordo risale alla Pasqua del 2002, trascorsa a Gerusalemme. La domenica delle palme tutta la comunità cristiana scendeva dal monte degli olivi brandendo rami di olivo e cantando con gioia ed entusiasmo. Ricordo che qualche ragazzino palestinese ci tirava dei sassi. Un ricordo che mi fa pensare a tanti cristiani che non possono professare liberamente la loro fede in questa Pasqua. Sono 365 milioni (un cristiano su 7 nel mondo, uno su 5 in Africa e 2 su 5 in Asia).
Il mio pensiero va pure alle tante pasque vissute in Africa, caratterizzate dalla giovinezza e dall’entusiasmo, segno di una nuova chiesa che avanza e porta nuova vitalità alla vecchia cristianità. E ne abbiamo veramente bisogno!
Proposta per interiorizzare il racconto della passione:
Un modo di affrontare il lungo racconto potrebbe essere di fissare l’attenzione su ogni personaggio che interviene in questo dramma (sono tantissimi, tra gruppi e singole persone) e domandarci in quale/i ci vediamo rispecchiati. Ognuno di noi ha la sua parte in questo dramma. Ogni persona che interviene interpreta un ruolo in cui si compie la Scrittura. Quale parola si compie in me?
Buon ingresso nella Settimana Santa!
P. Manuel João Pereira Correia, MCCJ
Verona, 21 marzo 2024
La morte in croce manifesta il figlio di Dio
Is 50,4-7; Salmo 21; Fil 2,6-11; Mc 14,1- 15,47
Con la Domenica delle Palme entriamo nella Settimana Santa. Ề una domenica ricca di significati: ci ricordiamo il mistero di Cristo salvatore che dona la vita per noi, e approfondiamo normalmente il senso del nostro essere cristiani. La liturgia inizia con la benedizione delle palme o dei rami d’ulivo, per ricordare l’ingresso trionfale di Gesù in Gerusalemme. Essi erano segno di gioia, perché il popolo aveva trovato in Gesù il suo re e messia. I cristiani porteranno questi rami benedetti nelle loro case, come ricordo di Cristo vincitore della morte e come segno manifesto della loro volontà di rimanere uniti a lui, per portare frutti di opere buone.
Nella liturgia della Parola, questa domenica è dominata dal racconto della Passione del Signore. La breve lettura dal profeta Isaia crea il clima adatto per l’ascolto di quest’episodio narrato da Luca. Il testo di Isaia riporta il terzo canto del servo del Signore che viene presentato come un “discepolo” del Signore. Si tratta di un personaggio perseguitato, offeso e maltrattato che si trova in prigione in attesa di processo. Ma egli è certo che il Signore lo assisterà come suo avvocato di fronte a quelli che lo accusano. L’unica preoccupazione del servo è di restare fedele al Signore che gli parla e lo istruisce perché egli sappia confortare chi è sfiduciato.
L’altra lezione è quella della non-violenza: non rispondere male al male, insulto ad insulto. Infatti il servo non si ribella al suo destino di flagellazioni, insulti, sputi, di sofferenza e di umiliazione, ma si fida di Dio che lo assiste. Ha la sicurezza di non restare deluso, perché Dio non inganna mai.
Nella prospettiva cristiana, questo destino tragico si concentra in Gesù, il servo fedele a Dio e solidale con tutti gli uomini oppressi e perseguitati. Egli, nonostante la sua uguaglianza a Dio, come dice la seconda lettura, ha scelto di farsi servo e di condividere la sorte di tutti gli esseri umani, rimanendo fedele a Dio anche nella morte infame e dolorosissima sulla croce. Perciò Dio lo ha costituito Signore universale: egli “è il Signore, a gloria di Dio Padre”.
Questa figura del servo-Signore si riscontra nel racconto lucano della Passione. Gesù è il servo in quanto dona il suo corpo e versa il suo sangue. Gesù stesso interpreta la sua morte come un atto di donazione a favore dei discepoli (“per voi”) e fondamento della “nuova alleanza”.
Una delle ultime parole di Gesù prima di morire è una parola di speranza per un peccatore: “Oggi sarai con me in paradiso”. Si tratta di un annuncio di salvezza per tutti i peccatori che si pentono. E con l’ultima sua parola Gesù ci insegna come morire, nella preghiera di fiducia sul modello de salmo 31,6: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”. Opportunamente, a questa preghiera di fiducia reagisce il centurione glorificando Gesù: “Veramente quest’uomo era giusto”.
Il clima di speranza che avvolge la scena della morte di Gesù dovrebbe animare ogni cristiano in questa Pasqua e per tutta la vita.
Don Joseph Ndoum
Domenica delle Palme e della Passione del Signore
Di fronte a quel Dio “deludente”
inchiodato alla nostra vita per sempre
Mentre tutti si aspettano un Messia forte, trionfante e vittorioso, immagine di un Dio potente, Gesù entra a Gerusalemme cavalcando un puledro, figlio d’asino. Un Dio diverso da come è stato immaginato e da tutte le proiezioni che su di Lui erano state costruite, mentre compiva prodigi per le strade di Galilea.
Al centro del dramma, che si consuma in poche ore a Gerusalemme durante la festa di Pasqua e che oggi riviviamo in questa Domenica delle Palme, c’è la delusione. È deludente il Dio dell’umiltà, che usa la mitezza per disarmare le forze del male; è deludente il Dio fragile, che non interviene con forza e braccio teso per trasformare le cose ma si affida al potere dell’amore e si appella alla mia libertà e al mio desiderio di cambiare; è deludente il Dio che abita le piccole cose nascoste dentro le nostre giornate più grigie, mentre noi lo cerchiamo in segni straordinari del cielo. Questo Dio che ha piantato la sua tenda nella fragilità della carne e delle cose, che sono chiamato a scoprire vivo e presente nel volto dei fratelli e a non rinchiudere nelle mie preghiere, che mi rimanda con coraggio nel mondo e in tutte le situazioni della mia vita senza sostituirsi al posto mio, che mi chiama a essere segno, in tutto, di amore, di accoglienza, di perdono, di povertà, è fondamentalmente un Dio scomodo. Un Dio “deludente”.
Il dramma è questo: una folla che prima lo applaude, lo loda, agita per lui le palme della vittoria e, poche ore dopo, quando comprende che l’unico modo in cui Dio vince è correre il rischio dell’amore, lo abbandona e grida “Crocifiggilo”. E davanti a questo racconto della Passione, forse anche noi oggi siamo chiamati a chiederci: e io, oggi, nella mia vita, dove sono in questo racconto?
Entriamo nella Settimana Santa con questa domanda nel cuore. Contemplando la Croce, il Dio che muore d’amore per noi e ci chiede di spalancare le braccia alla vita come Lui e di essere appassionati come Lui verso noi stessi ma anche verso ogni fratello o sorella che incontriamo nel cammino, possiamo chiederci dove siamo in questo momento. Se nei confronti di Dio abbiamo solo entusiasmi passeggeri ed emotivi, per poi abbandonarlo un attimo dopo; se l’impegno di seguirlo ci spaventa e sotto la croce scappiamo anche noi per paura; se abbiamo elevato a nostro idolo il potere e un Dio umile, povero e fragile ci è di scandalo; oppure se, pur nella fatica quotidiana, accogliamo il mistero che da quella Croce si svela e cioè che il segreto di una vita riuscita e felice è l’amore: l’amore che si dona, che si impegna, che costruisce il bene, che fa la felicità dell’altro, che spezza ogni forma di violenza, che libera e guarisce.
Questo amore possiamo impararlo solo se lo accogliamo dalla Croce. Solo guardando a quel Dio “deludente” inchiodato alla nostra vita per sempre.
[Francesco Cosentino – L’Osservatore Romano]
Il Cireneo, uomo d’Africa: dal rifiuto al servizio
Marco 11,1-10 (processione)
Is 50,4-7: Sl 21; Fil 2,6-11; Mc 14,1-15,47
Riflessioni
L’ingresso nella Settimana Santa, la settimana grande dell’amore fino alle estreme conseguenze (Gv 13,1), è segnato quest’anno dal racconto della passione e morte di Cristo narrata dall’evangelista Marco (Vangelo). Quella Passio non è solo storia del passato: gli stessi avvenimenti si ripetono oggi. I personaggi di allora (Caifa, Erode, Pilato, farisei, sacerdoti, Pietro, Giuda, Cireneo, pie donne, soldati, Centurione, Giuseppe d’Arimatea…) sono emblematici di quanto succede oggi nei riguardi di Cristo e dei sofferenti, con i quali Egli si identifica (cfr. Mt 25,35s).
Ogni persona può trovarsi ad essere, nel bene o nel male, l’uno o l’altro dei personaggi della passione di Gesù. Ognuno può essere, per esempio, come il Cireneo, personaggio caro all’evangelista Marco, il quale ne presenta così l’incontro con quello strano Condannato di spicco: “Costrinsero a portare la sua croce un tale che passava, un certo Simone di Cirene, che veniva dalla campagna, padre di Alessandro e di Rufo” (v. 15,21; cfr. Rm 16,13). Da allora il Cireneo (uomo della Cirenaica, nell’Africa del nord, attuale Libia) è divenuto un’icona dell’uomo che, per istinto, rifiuta il fardello altrui, tanto più di un condannato; ma, appena scopre il volto e il cuore di quello Sconosciuto, se ne innamorano lui e la sua famiglia.
Il Cireneo diviene, in questo modo, fratello del Buon Samaritano, della Veronica e dei loro seguaci, che, sugli infiniti cammini del dolore umano, si prodigano, per puro amore, accanto alle vittime delle ingiustizie di ogni tempo. Due voci autorevoli e coincidenti giungono dall’Africa, ambedue dal Camerun, a commentare l’icona del Cireneo: sono P. Mveng e Benedetto XVI. La voce di P. Engelbert Mveng, gesuita camerunese, teologo, poeta e artista, assassinato nel 1995, è raccolta nella sua Via Crucis, “Se qualcuno…” (Ed. Nigrizia, Bologna 1963), abbellita con i tipici disegni del suo laboratorio di arte africana. Nella V stazione della Via Crucis, P. Mveng presenta con passione e fraterna ammirazione il Cireneo, “un uomo d’Africa”:
«Un povero uomo stanco; ritorna dai campi; è un uomo d'Africa!
E dentro la sua testa, la stanchezza del giorno imbastisce un lungo ritornello,
l'oppressione del giorno pesa come un bolide sui suoi passi vacillanti,
sulle sue labbra che si agitano, sull'affanno del suo cuore che non ne può più...
Un povero uomo d'Africa…
Non è Deputato; non è Consigliere;
non è un Notabile ascoltato negli ambienti tradizionali,
e i soldati, di fronte a lui, non scatteranno sull'attenti!
Né i passanti gli diranno: «buonasera, Signore!»
È un povero uomo d'Africa, il cui passo è timido,
e che porta su di sé quasi un firmamento di mistero…
Uno di quegli uomini che nessuno capisce, che non si capiscono neppure loro,
che si portano addosso un groppo di silenzio
dove Dio canta melodie sconosciute agli altri uomini…
Ed ecco che gli mettono le mani addosso, che lo scuotono, lo trascinano,
ecco che l'obbligano a portare la Croce del Condannato...
E Gesù, in piedi, l'aspettava come un fratello...
Questo povero uomo d'Africa che non capiva troppo bene,
che era stanco e non voleva saperne della Croce di un condannato...
Gesù l'aspettava come un fratello,
e nel suo cuore tutto sanguinante di fatica e di amore,
la sua mano firmava il grande patto dell'Appello all'incrocio delle loro due vite...
All'orizzonte dello sguardo di Simone, uomo di Cirene, uomo d'Africa,
saliva l'alba della redenzione del mondo.
Mio Gesù, Tu attendi anche me:
con Simone, l'uomo di Cirene, eccomi qui» (E. Mveng).
Benedetto XVI, nel suo viaggio in Africa, incontrò il 19 marzo 2009 a Yaoundé (Camerun), il mondo della sofferenza, davanti al quale si è ampiamente ispirato all’icona del Cireneo:
«La storia ricorda che un africano, un figlio del vostro continente, ha partecipato, con la sua stessa sofferenza, alla pena infinita di Colui che ha redento tutti gli uomini compresi i suoi persecutori. Simone di Cirene non poteva sapere che egli aveva il suo Salvatore davanti agli occhi. Egli è stato “requisito” per aiutarlo (cfr. Mc 15,21); egli fu costretto, forzato a farlo… È solo dopo la risurrezione che egli ha potuto comprendere quello che aveva fatto… Solo la vittoria finale del Signore ci svelerà il senso definitivo delle nostre prove… Prego, cari fratelli e sorelle malati, perché molti ‘Simone di Cirene’ vengano anche al vostro capezzale».
Davanti alle stragi, distruzioni e morti che il violento tifone Yolanda aveva provocato nelle Filippine nel novembre 2014, Papa Francesco decise di andare sul posto, come un cireneo, a portare un po’ di conforto ai superstiti; ma non trovò altro messaggio di sollievo se non lo sguardo a Cristo Crocifisso. (*)
Parola del Papa
(*) «Sono qui per dirvi che Gesù è il Signore, che Gesù non delude… Lo vedo lì inchiodato, e da lì non ci delude! … Gesù è il Signore! Ed è il Signore dalla Croce, là ha regnato! Per questo Egli è capace di comprenderci… abbiamo un Signore che è capace di piangere con noi… Molti di voi hanno perso tutto. Io non so che cosa dirvi. Lui sì, sa che cosa dirvi! Molti di voi hanno perso parte della famiglia. Solamente rimango in silenzio, vi accompagno con il mio cuore in silenzio… Molti di voi si sono domandati guardando Cristo: “Perché Signore?”. E ad ognuno il Signore risponde nel cuore, dal suo cuore. Io non ho altre parole da dirvi. Guardiamo Cristo. E insieme a Lui crocifisso stava la madre… Nei momenti in cui non capiamo niente, nei momenti in cui vogliamo ribellarci, ci viene solo da tendere la mano e aggrapparci alla sua sottana e dirle: “Mamma!”. Come un bambino che quando ha paura dice: Mamma!».
Papa Francesco
Omelia a Tacloban (Filippine), 17-1-2015
P. Romeo Ballan, MCCJ