Un anno dopo la beatificazione di padre Giuseppe Ambrosoli: “La missione continua”

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Martedì 14 novembre 2023
Il 20 novembre sarà il primo anniversario della beatificazione di padre Ambrosoli, avvenuta a Kalongo il 20 novembre 2022. Una ricorrenza non indifferente, se si pensa che il Beato Giuseppe Ambrosoli è stato l’incarnazione anticipata di quello che si può considerare un balzo in avanti nel concepire il contenuto unitario dell’evangelizzazione, ossia la sua ratio constitutiva (annuncio di Cristo e liberazione integrale) e l’articolazione del fare missione (due realtà che, pur nella loro distinzione, non possono non implicarsi).

Infatti, che evangelizzazione sarebbe quella che non mettesse Cristo come priorità assoluta e che, al contempo, relegasse la giustizia e lo sviluppo umano a conseguenze semplicemente facoltative? Il fatto è che, spesso, la nostra distinzione delle due realtà ha significato una separazione nella prassi.

Padre Giuseppe Ambrosoli all’ospedale di Kalongo in Uganda.

Eppure, il Sinodo dei Vescovi del 1971, nel documento finale, intitolato La Giustizia nel mondo, afferma che «l’agire per la giustizia e il partecipare alla trasformazione del mondo ci appaiono chiaramente come dimensione costitutiva (ratio constitutiva) della predicazione del Vangelo, cioè della missione della Chiesa per la redenzione del genere umano e la liberazione da ogni stato di cose oppressivo» (Documento finale, 6). E ancora: «La missione di predicare il Vangelo, ai nostri giorni, richiede che ci impegniamo per la totale liberazione dell’uomo già nella sua esistenza terrena» (Ibidem, 37).

Anche l’Esortazione apostolica di Paolo VI, Evangelii nuntiandi (1975), ha ribadito tale stretta connessione, affermando che «è impossibile accettare che nell’evangelizzazione si possa o si debba trascurare l’importanza dei problemi, oggi così dibattuti, che riguardano la giustizia, la liberazione, lo sviluppo e la pace nel mondo. Sarebbe dimenticare la lezione che ci viene dal Vangelo sull’amore del prossimo sofferente e bisognoso» (EN, 31).

Ambrosoli, in quanto prete e medico, ha tenuto strettamente unite le due realtà, senza dover sacrificare o il medico o il prete, ma sapendo declinare nella pratica il rapporto di intima connessione e di reciproca dipendenza tra di esse. È stato il primo esempio tra di noi di una simbiosi ben riuscita. Il medico è arrivato all’anima del paziente e il prete si è rivestito di più concreta umanità irradiante vicinanza, rispetto per l’altro, desiderio di trasformazione e responsabilità.

Scorrendo velocemente la biografia del beato Ambrosoli, cercheremo di cogliere alcuni elementi qualificanti la sua persona e i momenti topici che gli hanno richiesto scelte determinanti. Presteremo attenzione, dunque, ad alcuni dati essenziali che, pur scarni, evidenziano la qualità umana e spirituale del testimone. In generale, bisogna dire che in Ambrosoli, salta subito agli occhi che il Dio in cui crede è solo amore proteso a mettere a fuoco la persona nella sua umanità, per alleviare le sue pene e curarla nei suoi bisogni, restituendola alla sua piena dignità. Per il beato Ambrosoli esistono solo Dio e la persona bisognosa che gli sta avanti. Questa priorità rivela che lui, non solo per una certa inclinazione naturale, sta sempre un passo indietro per creare spazio all’altro. Quindi, il prete-medico, in quanto evangelizzatore, non è più preoccupato di tutelare la sua immagine e la sua opera, né è disturbato dal voler difendere sé stesso. Ciò che colpisce in lui è che questa costante umana discrezione strutturale, messa al servizio dell’amore divino e dell’amore umano solidale, sia ravvisabile fin dal tempo della sua giovinezza e applicabile a tutta la sua vita.

Cenni biografici

  1.  Dall’entrata nell’Istituto comboniano al sacerdozio (1951-1955)

Giuseppe Ambrosoli arriva tra i comboniani con un robusto percorso formativo che lo ha forgiato e, allo stesso tempo, lo ha anche reso capace di accettare ulteriori sviluppi. Senza dimenticanze del molto ricevuto e senza supponenza per la sua preparazione professionale, senza rigidità e senza chiusure, è rimasto aperto ad acquisire i contenuti formativi comboniani che gli hanno permesso di affinare le sue qualità umane e spirituali e di esercitare con creatività e autonomia la sua professione medica.

Quando, il 18 ottobre 1951, Giuseppe Ambrosoli entra nel noviziato comboniano di Gozzano (Novara), ha 28 anni. Alle spalle ha già un’esperienza educativa e professionale che lo ha forgiato per tutta la vita: prima il “Cenacolo” a Como (1945-1950), poi l’università statale di Milano, facoltà di medicina (1946-1951), cioè un entroterra spirituale, accademico ed ecclesiale. L’orizzonte spirituale che il Cenacolo proponeva era l’eroismo. Mario Mascetti, suo compagno del tempo del Cenacolo, scrive: «Non staccava mai la spina del circuito della grazia, come se avesse elaborato l’abitudine di verificare ogni momento (oggi diremmo in tempo reale) la conformità del suo agire con ciò che piace a Dio». Una spiritualità, tuttavia, continuamente sfidata dalla realtà. Nel tempo caldissimo della tornata elettorale del 1948, Giuseppe scriveva: «Non basta che gli altri mi dicano democristiano; devono sentire l’influenza del Gesù che porto con me; devono sentire che in me c’è una vita soprannaturale espansiva e irradiantesi per sua natura».

Anche lo studio universitario, pur con tutto l’impegno e il rigore che esigeva, alla luce di questa spiritualità incarnata si svincolava da futuri benefici personali e materiali: «Mettermi nell’apostolato fra i poveri con umiltà, farmi come loro, sul loro piano, amarli, interessarmi a loro». Non si tratta solo di una chiara opzione per i più poveri, ma anche di una opzione fatta all’interno della comunità ecclesiale, che si traduceva in capacità di operare in gruppo. Scriveva all’amico Virginio Somaini, come lui delegato di Azione Cattolica nella parrocchia di Cagno (Varese), riconoscendo un’unica matrice: «Tutti e due chiamati dal Signore a rendergli gloria nel campo dell’Azione Cattolica, collaboriamo, vivendo insieme nella preghiera e nella Grazia, nel trafficare i nostri talenti, nel rendere fruttuosa questa palese predilezione di Dio. Lavoriamo insieme, caro Virgilio nell’A.C.! Alla domenica mattina, in propaganda, avrò la consolazione di poter pensare che un altro giovane come me, cui sono unito nell’amore al Cristo, compie il mio stesso lavoro per il medesimo ideale!».

Ambrosoli era, a tutti gli effetti, come un motore diesel inarrestabile. Infatti, il 18 luglio 1949 difende la tesi di laurea in medicina, e ai primi di agosto è nella casa comboniana di Rebbio (Como), a chiedere informazioni. Rassicurato che potrà esercitare la sua professione medica in missione, parte per Londra per frequenta il Corso di medicina tropicale fino all’agosto 1951. Il 5 settembre, scrive al superiore generale dei comboniani, padre Todesco, chiedendogli di poter entrare nell’Istituto e il 18 ottobre è già nel noviziato di Gozzano.

L’orizzonte futuro della missione gli permette di affrontare un ambiente ristretto come quello del noviziato e di riuscire a inserirsi fra 51 giovani, la maggior parte dei quali ha un’età tra i 17 e i 19 anni, abituati solo al ristretto ambiente clericale. Giuseppe, abituato al più articolato mondo diocesano e all’ambiente laico dell’università, cresce spiritualmente, conservando il suo spirito acuto e autonomo, finalizzato alla missione. Spirito interiore, missione, professionalità e comunità sono i pilastri. Giuseppe non gioca mai a essere l’emergente, il ‘fuori dal gruppo’, o a sentirsi – o camuffarsi – come il diverso, il più preparato, il superiore per ascendenze familiari o per esperienze acquisite in vari campi. È uno che sa inserirsi cordialmente, nonostante l’iniziale difficoltà, dapprima nella comunità del noviziato, poi in quella dello scolasticato (1953). Studia la teologia nello scolasticato di Venegono, continuando la pratica medica nel vicino ospedale di Tradate e svolgendo frequenti incombenze di “addetto medico” nella numerosa comunità.

Al dr. Aldo Marchesini, che nel 1970 si recherà a Kalongo per impratichirsi nella chirurgia, confiderà che era stato il chirurgo Angelo Zanaboni a insegnargli in un anno le cose essenziali, ma si affretterà ad aggiungere: «Ma le occasioni per imparare continuano per tutta la vita. Si può imparare da tutti, anche dal personale non medico».

Sentendosi parte viva della comunità – fratello tra fratelli – convince il superiore dello scolasticato, padre Giuseppe Baj, piuttosto stretto di manica, a lasciargli montare l’impianto di riscaldamento nella vecchia ghiacciaia del castello di Venegono, affermando: «Bisogna preservare la salute dei futuri missionari, anche se in Africa non ci sarà più bisogno di termosifoni!». Il dott. Tettamanzi Folliero, che l’ha conosciuto mentre Giuseppe s’impratichisce all’ospedale di Tradate, lo ricorda molto dedicato nel seguire i confratelli per i quali aveva consigliato il ricovero nella struttura ospedaliera, in modo particolare nei confronti di un vescovo africano, piuttosto eccentrico ed esorbitante nelle sue richieste. Alle rimostranze dei colleghi, padre Ambrosoli rispondeva con un sorriso e con una semplice frase: «La nostra livrea è la carità».

Tra le molte qualità di padre Ambrosoli che si prepara al suo futuro servizio missionario – e che anche oggi s’impongono e sono imprescindibili – alcune emergono in modo chiaro: uno spiccato senso comunitario, grande disponibilità a offrire qualsiasi servizio, rimanendo “in seconda fila”, volontà di offrire prestazioni professionali, cercando sempre il meglio. Ambrosoli anticipa nella pratica quanto più tardi dirà a suor Enrica Galimberti, sua aiutante all’ospedale di Kalongo: «Cerca di fare le cose alla perfezione. Tuttavia, se ti riescono bene, non disfarle per farle perfette: le rovineresti. Accontentati di averle fatte bene. Cerca sempre, però, la perfezione». Un concetto né pietistico, né moralistico, né superficiale, ma di pura marca altruista: per poter donarsi al meglio, bisogna continuamente prepararsi.

  1. Una vita in missione – Kalongo (1956-1987)

Il prete e medico Ambrosoli arriva in missione a 33 anni, con un bel bagaglio umano, spirituale e professionale. Ha già dato bella prova di sé in noviziato e in scolasticato, ma è negli anni di missione dove egli appare in tutto il suo splendore. Per 31 anni, sempre nello stesso posto, dal 19 febbraio 1956, quando mette piede per la prima volta nell’ospedale di Kalongo, fino alla tragica evacuazione dell’istituzione cui ha dato tutto, il 13 febbraio 1987.

A Kalongo, trova un confratello e una sorella comboniana di grandi capacità: padre Alfredo Malandra e suor Eletta Mantiero. Grazie a loro, il primo dispensario si è già sviluppato in una vera e propria maternità. Con l’arrivo di un medico, il sogno di una Scuola per Ostetriche comincia a prendere forma. Ambrosoli si inserisce, pertanto, in una struttura preesistente e la porterà a piena efficienza in termini di personale e operatività. La St. Mary’s Midwifery School diventerà il fiore all’occhiello dell’intera struttura ospedaliera di Kalongo, anche a prezzo della sua stessa vita.

Gli inizi sono tutt’altro che facili: il suo primo compito è mettere a norma tutti dispensari del Nord Uganda (Aber, Padibe, Nyapea, Moyo e Angal) e trovare un medico, specializzato in Inghilterra in ostetricia e ginecologia, per ottenere dal governo britannico – peraltro favorevole solo a parole – l’approvazione della Scuola per Ostetriche. Una teoria di nomi si sussegue in quegli anni, contrassegnata da una altrettanto lunga teoria di speranze e cocenti delusioni: la dottoressa polacca Lydia Wlosczyk; la coppia dei dottori Remotti del Cuamm (Collegio Universitario Aspiranti Medici Missionari, oggi Medici con l’Africa) di Padova); la dottoressa scozzese Jane Mac Shane; il dottor Pietro Tozzi, la dottoressa Morelli, il medico olandese Bonnar, una dottoressa del Golfo Persico, la dottoressa Doyle, e altri.

Anche l’ospedale va gradatamente prendendo forma ed espandendosi, fino a raggiungere una capacità di 200 posti letto. Nel frattempo, cresce la fama dell’Aiwaka Madit (“grande medico”) o Doctor Ladit (“grande dottore”) che poi dilagherà in tutta l’Uganda e anche al di fuori di essa, raggiungendo il Kenya, la Tanzania, lo Zaire, l’Etiopia, il Sudan, e perfino l’India.

Gli eventi politici, che con l’indipendenza dell’Uganda nel 1962 dovrebbero dare inizio a un tempo di pace e di sviluppo, tessono invece una tela con uno fondo troppo mutevole e spesso drammatico. Nel 1963 sono nazionalizzate tutte le scuole elementari. Nel gennaio 1967, sono espulsi dieci missionari, accusati di aver intrattenuto contatti con i movimenti di liberazione del Sud Sudan e di aver divulgato notizie false sul conto del Governo di Kampala, a cui imputano accordi segreti con quello di Khartoum per l’eliminazione dei ribelli. Nel 1972, c’è una nuova espulsione di altri sei missionari per mancanza di documentazione legale. Nel luglio dello stesso anno, si negano i visti di entrata a nuovi missionari, medici, infermieri e insegnanti. Alla fine dell’anno, altri 50 missionari e missionarie devono lasciare il paese. Nel giugno 1975, ci sono altre espulsioni di 16 missionari, scelti “chirurgicamente” in posti cruciali.

Nel frattempo, nonostante l’incertezza, Ambrosoli continua ad ampliare l’ospedale. Alla fine del 1972, dà inizio alla costruzione del nuovo reparto di chirurgia, in sostituzione delle quattro casette che costituivano il vecchio reparto, riuscendo a ultimare i lavori nel maggio 1973. Ora il reparto di chirurgia ha 67 nuovi posti letto. Altre costruzioni sono erette nello stesso tempo: un’ampia aula per dimostrazioni pratiche, un capiente magazzino lungo 13 metri, un bel refettorio per ospitare 25 ragazze non qualificate che lavorano in ospedale, 6 piccoli sgabuzzini, il reparto centrale di medicina, e altre ancora. Si lavora pure a un capace serbatoio sullo sperone roccioso che sovrasta Kalongo.

Padre Ambrosoli comincia a chiedersi se, date le condizioni difficili in cui si trova l’Uganda, tutta quell’attività costruttiva possa sembrare umanamente una follia. Rallentare un poco il ritmo sarebbe un’ipotesi plausibile, che però scarta subito, perché lui lavora solo per la gloria Dio e per il bene della gente. Sa perfettamente – come lo sanno tutti gli altri – che l’ospedale di Kalongo è l’unica struttura sanitaria in un raggio di 70 chilometri. Alla suora comboniana, dott. Donata Pacini, che gli fa notare come quell’allargarsi si traduce necessariamente in una mole eccessiva di lavoro, risponde candidamente e senza possibilità di replica: «I malati ne hanno bisogno».

Le statistiche del 1973 rendono conto di quanto gli ammalati abbiano preso possesso della vita di padre Ambrosoli: visite ambulatoriali, 44.946; ricoveri, 5.488; parti, 885; visite prenatali, 1.810; operazioni, 632; radiografie, 1.128; esami di laboratorio, 37.421. Ed è per lo più padre Giuseppe stesso a eseguire le operazioni, o a supervisionare gli altri medici, insegnando loro le sue tecniche, o a sorvegliare i nuovi arrivati affinché tutto proceda per il meglio.

La fonte segreta

Dove trova la forza per portare avanti tutte quelle attività e il coraggio di continuare in tempi così difficili? Certamente a padre Ambrosoli non mancano doti manageriali fuori dal comune. Tuttavia, la sorgente di quella sua audace e prorompente attività va cercata altrove. Nell’aprile 1973, in una lettera agli amici della Caritas di Bologna, scrive: «Mi pare che sia proprio questo il momento buono per far vedere che non lavoriamo per il nostro interesse. Mi pare che questo sia per noi più che il momento di chiedere aiuti economici, quello di chiedere aiuti spirituali, perché il Buon Dio salvi la cristianità ugandese». Di tali tempi drammatici scriverà l’on. Ambrogio Okulu, un parlamentare acholi, in una rievocazione postuma: «Arrivato nel 1956, [padre Ambrosoli] sperimentò 6 anni di lotta politica condotta dagli Ugandesi per la conquista dell’indipendenza dagli Inglesi. In seguito, visse sotto la prima dittatura di Obote e la dittatura militare di Amin. [...] Tutte queste condizioni avverse portarono il dottor Ambrosoli a impegnarsi ancora di più e gli procurarono la stima di coloro che odiavano i missionari. […] Negli sconvolgimenti dell’Uganda di allora, il dottor Ambrosoli affrontò con lo stesso coraggio religiosi zeloti, politici vendicativi e ufficiali dell’esercito indisciplinati. Davanti ad essi, mai fece un passo indietro per paura».

Padre Giuseppe non ha ceduto e continua a non cedere, perché alcuni punti fermi comandano la sua azione. In una lettera al prof. Canova del C.U.A.M.M. ne enumera tre che considera fondamentali: «Il primo, e più importante, è lo spirito di Cristo, consistente nella volontà decisa di lavorare per la diffusione del regno di Dio; il secondo, lo spirito di sacrificio, e il terzo, una buona preparazione tecnica». Certamente, riconosce alla chirurgia «anche un chiaro influsso psicologico sulle persone che la confrontano con l’inefficacia dei guaritori locali». Tuttavia, il punto fermo da cui tutto deve partire e a cui tutto deve sottostare è un’affermazione scritta nel settembre 1957, poco più di un anno dopo essere arrivato a Kalongo: «Devo cercare di “impersonificare” il Maestro quando curava i malati che venivano a lui». Una fede cristologica che ha già scandito la sua vita di studente universitario responsabile dei giovani di Aziona Cattolica di Uggiate. Già in quel periodo, ha scritto a un amico: «Il nostro tempo prezioso che dedichiamo all’A.C. ha, in ogni momento, una finalità soprannaturale, e non c’è pericolo ci si possa disperdere in cose vane, perché questo lavoro ci porta sempre più vicini a Lui, il Cristo!». Stella polare, dunque, è il Cristo presente nei momenti più duri e che lo porta alla formulazione centrale del suo agire evangelizzante: «Dio è amore. C’è un prossimo che soffre, io ne sono il servitore». Non è una frase ad effetto, ma una concretizzazione di quanto ha scritto nel suo “libro dell’anima” (diario): «Bisogna che cerchi Te solo, e in Cruce»; «dobbiamo entrare nel cerchio della Trinità […] e arrivare un po’ più vicino a Gesù nella sua via della Croce»; «[voglio] accettare di essere disturbato», ossia, come Gesù, vivere con gli altri, sotto gli altri, e per gli altri. Ambrosoli fa capire da subito che non intende lasciare che la molteplicità delle opere diventi un vortice esterno, una visibilità a tutti i costi, un turbine che lo travolga nelle sue spire inebrianti e, alla fine, lo renda schiavo di sé stesso e della sua immagine.

La malattia (1982) e l’evacuazione di Kalongo (1987)

Sorprende come padre Ambrosoli riesca ad abbinare con naturalezza una vita spirituale, all’insegna dell’essenzialità e della semplicità, e un servizio chirurgico sempre più esigente in termini di prestazioni e competenze. In tal senso, l’incontro con la spiritualità di Charles de Foucauld gli illumina il cammino, e così la strada intrapresa da giovane si approfondisce e lo avvicina sempre più al Gesù storico, aprendolo «alla preghiera dell’abbandono» e all’accettazione dell’«insuccesso amato» di de Foucauld. Scrive nel quaderno degli Esercizi Spirituali: «Resta che devo continuare nello sforzo di vivere la presenza di Gesù nel mio cuore e chiedermi frequentemente cosa farebbe lui al mio posto». All’amico Piergiorgio Trevisan confida: «L’unica delusione è che, quando chiedo a qualcuno se si è accorto che sono cambiato in bene, mi sento rispondere di no! Ad ogni modo, vivo molto più felice di prima, anche se c’è più sacrificio. […] Ringrazio sempre il Signore che il lavoro sia tanto, perché siamo qui proprio per questo, ed è attraverso il lavoro medico che possiamo arrivare all’anima di tanti malati. In questi paesi la pastorale passa sempre attraverso il corpo. Sembra strano, ma è così».

Affermazioni sacrosante che gli torneranno alla mente nel dicembre del 1982, al tempo dello smacco della malattia (un rene atrofizzato e l’altro gravemente compromesso, con una funzionalità renale ridotta al 30%) e durante gli anni calamitosi del dopo-Amin che segneranno drammaticamente la storia dell’Uganda. In successione: il tempo del secondo governo di Obote (dal 17 dicembre 1980 al 27 luglio 1985), il breve interregno di Bazilio Olara Okello (27 luglio 1985) e del generale Tito Okello (29 luglio 1985 – 26 gennaio 1986) seguito dalla loro destituzione, e l’entrata in scena di Yoweri Kaguta Museveni, con l’occupazione di Kampala (26 gennaio 1986) e la progressiva “liberazione” dell’Uganda. Quel che rimane dell’esercito degli Okello fugge, o verso il Nord o in Sud Sudan. Altri ancora nascondono le armi e restano nelle loro case ad aspettare lo sviluppo degli eventi. Naturalmente, dopo la ritirata e la disfatta, i vinti si abbandonano a saccheggi e assassinii di gente del sud del paese. Nelle regioni del nord, l’odio tribale cresce. Neppure le missioni sono risparmiate. In una cronaca dei padri di Kitgum si legge: «Quel che rattrista di più noi e la gente è che i saccheggiatori sono della nostra stessa tribù: “Sono i nostri figli”, dicono sconsolati». C’è un clima di grande confusione e paura, mentre si aspetta che le truppe governative arrivino a ristabilire un briciolo di regalità e a portare un po’ di pace. Anche a Kalongo le condizioni sono drammatiche, al punto che padre Ambrosoli scrive: «Il 1986 è stato l’anno più difficile dei miei trent’anni a Kalongo».

L’epilogo temuto – la comunicazione dell’evacuazione dell’ospedale di Kalongo – arriva il 30 gennaio 1987. Il 7 febbraio viene dato l’ordine perentorio di prepararsi a partire. Il giorno 13, giungono 16 camion. Viene formato un convoglio: 34 tra autovetture e camion, con 1.500 tra soldati e civili. Alle spalle si lasciano i magazzini in preda alle fiamme che riducono in cenere viveri e medicine. Di tutto il materiale dell’ospedale si è potuto prendere solo il 20%.

Il superiore generale, padre Francesco Pierli, scrive una commovente lettera a padre Ambrosoli. Tra l’altro, vi si legge: «Per tutti noi l’ospedale di Kalongo era molto più di un semplice ospedale. Era il segno di questo appassionato amore per il popolo, di questo farsi carico delle piaghe della gente che costituisce il nucleo più bello della nostra vocazione. […] Faccio mie le tue parole: “Il cuore soffre, ma la fede e la speranza addolciscono tutto”».

La strazio provato non uccide la speranza: quell’esodo di popolo – missionari, missionarie, medici, ammalati, e infermiere di ostetricia in procinto di fare gli esami finali per l’abilitazione – è l’estremo atto di amore e di identificazione con un popolo e con un’opera. Questo spiega la decisione di padre Ambrosoli di essere sepolto in Africa, accanto al suo ospedale. Questo spiega anche perché abbia voluto, a costo della sua vita, salvare la Scuola per le Ostetriche per garantire gli esami ufficiali alle ragazze che si erano a lungo preparate. Questo ci aiuta a capire come le parole da lui sussurrate mentre muore a Lira siano da considerarsi il punto finale e la rivelazione inequivocabile di ciò che ha mosso e dinamizzato interiormente tutta la sua vita: «Signore, si faccia la tua volontà, fosse anche cento volte…!». Sono le 13.50 di venerdì 27 marzo 1987, quando spira sulla breccia, a 64 anni.

È la conclusione di un’esperienza spirituale che ha raggiunto il suo vertice, perché rivela un forte e profondo senso del piano amoroso di Dio su tutta la sua storia di missionario. Vi si scorge un lucido senso dell’“ora di Dio”, nella consapevolezza che lì ogni pensiero, ogni sforzo, ogni progetto umano trovano la loro giusta collocazione e soluzione. Si è di fronte al più alto momento di unione con il Dio invocato e all’espressione più pregnante dell’amore verso fratelli e sorelle, consegnati ora alla loro libertà e autonomia. Padre Ambrosoli sigilla definitivamente in morte quello che è sempre stato in vita: “una persona tra le persone”.

Tutta la sua vita in Uganda è stata scandita da questo duplice movimento di fede empatica nei confronti della persona che ha accanto, e di servizio medico offerto nella più pura gratuità. Per il missionario Ambrosoli, non si può prestare un servizio professionale che eleva, cura e salva, senza un profondo amore per la persona; né si può mostrare autentica empatia, senza sforzarsi di donare professionalmente il meglio di sé stessi.

Nella sua vita vediamo realizzato l’aspetto fondamentale dell’ecclesiologia del Concilio Vaticano II: «la Chiesa è, in Cristo, in qualche modo il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (Lumen gentium, 1). Una ecclesiologia che è anche oggi più che mai attuale: la missione della Chiesa è compiuta, prima che con la messa in opera o il miglioramento delle strutture, con il primato riconosciuto alle relazioni umane e in esse vissuto concretamente. Tali relazioni, a loro volta, spingeranno la Chiesa al giusto rapporto con il mondo e la società, e la porteranno a rispondere con coraggio e creatività alle sollecitazioni e ai cambiamenti delle mutate situazioni odierne.

Dalla vita di padre Ambrosoli indicazioni per essere evangelizzatori oggi

Passiamo ora dalla biografia di padre Ambrosoli ad alcuni valori che hanno reso la sua vita una testimonianza evangelizzante. Vi troviamo una consonanza stupefacente con la griglia di lettura che Papa Francesco offre nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium – Sull’annuncio del Vangelo nel mondo attuale. Nel quinto capitolo, Francesco indica un complesso di valori che costituiscono altrettante linee operative per una missione attuale (EG, 250-274). In pratica, non puoi fare missione senza l’elaborazione o l’inserimento in un progetto comunitario e senza un bagaglio di valori che diano consistenza alla persona e al gruppo.

  1. “Chiesa in uscita” – Aprirsi alla diversità

Nella Evangelii gaudium, Francesco insiste molto sulla necessità che la Chiesa ha di «imparare ad accettare gli altri nel loro differente modo di essere, di pensare e di esprimersi. Con questo metodo, potremo assumere insieme il dovere di servire la giustizia e la pace, che dovrà diventare un criterio fondamentale di qualsiasi interscambio» (EG, 250). Affermato questo atteggiamento di fondo, che consiste nella capacità di uscire dagli schemi preconfezionati e nell’urgenza di dotarsi di uno spirito di apertura per narrare «le grandezze di Dio» (EG, 259), Francesco invoca lo Spirito Santo: «Lo prego che venga a rinnovare, a scuotere, a dare impulso alla Chiesa in un’audace uscita fuori da sé per evangelizzare tutti i popoli» (EG, 261). Questo “uscire da sé”, in ascolto attento delle situazioni, è un dono e una caratteristica che rende possibile identificare un’azione come azione dello Spirito.

Di questa apertura di spirito alla diversità, Ambrosoli è un testimone per eccellenza, un esempio particolarmente avvincente.

Nel 1944, in occasione del suo addestramento in Germania, il giovane Giuseppe si viene a trovare con studenti medici destinati a futuri incarichi nella tristemente nota Repubblica Sociale di Salò. In ambiente ideologicamente ostile, egli potrebbe rinchiudersi nel suo piccolo mondo. Invece, si distingue per la concezione di puro servizio dell’attività medica, per il grande rispetto delle opinioni avverse dei suoi commilitoni, per il senso di misura e di convinzione con cui manifesta il suo credo religioso, e per la capacità di aprire spazi di serenità e d’incoraggiamento in un habitat demotivato e a tratti violento. Camillo Terzaghi, suo compagno di baracca, scrive: «Il soldato Giuseppe Ambrosoli già dal principio mostrava una profonda conoscenza teologica, e i camerati si domandavano a che fede politica appartenesse. Tuttavia, anche nella discussione con i più accesi atei, era conciliante, portando il suo contributo alla conoscenza, non scandalizzandosi delle contraddizioni e palesando i principi dell’amore e della fratellanza. Naturalmente, per questa sua pacatezza angelica, veniva rispettato e considerato, mentre gli altri credenti, per la loro intransigenza, venivano duramente attaccati e anche offesi».

Il dottor Luciano Giornazzi, anch’egli commilitone di Giuseppe e di fede politica tutt’altro che favorevole alla Chiesa, non può non constatare con ammirazione il connubio di vita e di parola in lui, che va però sempre al di là del puro esistente, fosse pure il suo tornaconto personale o gli steccati ideali o ideologici di appartenenza. Giornazzi scrive: «Eccolo mentre, alla fine del consumo del nostro scarso rancio, si ritira sul proprio pagliericcio e a voce alta recita qualche preghiera nell’indifferenza quasi totale. Eccolo, mentre ‘rimprovera’ qualcuno di noi che impreca contro la malasorte che ci ha portati, volenti o nolenti, in quel maledetto posto. Ha una buona parola per tutti, e, alla fine, riesce a calmare la rabbia, il dolore, l’ansia. Lo ricordo durante una marcia di addestramento (15 km!) quando si carica, oltre al suo, anche il mio zaino per la mia incapacità di camminare per un improvviso dolore a un ginocchio. Lo ricordo anche quando, mentre io giacevo in ‘infermeria’ (così la chiamavano) con febbre alta e incapace di muovermi, mi ha portato due volte al giorno il rancio, sempre con il sorriso sulle labbra, sempre con qualche parola di incoraggiamento (e tutto questo, lo ha fatto per un mese circa). Insomma, per farla breve, durante quel periodo Ambrosoli è sempre stato a disposizione di tutti ed è sempre stato di buon esempio per tutti. Era diverso da noi. Aveva una marcia in più, morale e materiale, che certamente gli veniva dalla sua permanente serenità».

Nel 1946, in tempo di grandi polarizzazioni di idee e di partiti – quindi, tendenzialmente tempo di grandi opposizioni ed esclusioni –, Giuseppe, convinto e attivo militante di Azione Cattolica, esce dai puri steccati confessionali per costituirsi esistenzialmente piattaforma di dialogo, di intesa, di testimonianza di valori vissuti senza proselitismi, ma, allo stesso tempo, senza infingimenti. Quello che è, è quello che vive, aprendo spazi sempre più vasti di comprensione e di collaborazione. Scrive in suo quadernetto del 1947: «L’apostolato in famiglia è tanto importante e devo dedicarmi con decisione, bandendo il rispetto umano. L’apostolato d’ambiente: a scuola, in ospedale. Non basta che gli altri mi dicano democristiano; devono sentire l’influenza del Gesù che porto con me; devono sentire che in me c’è una vita soprannaturale espansiva ed irradiantesi per sua natura… Devo amare i poveri e non temere di stare con loro. Devo mettermi sul loro piano e portare a loro una parola buona. L’apostolato deve essere per me non solo d’ambiente, ma deve svolgersi anche alle classi sociali più umili, ai poveri, non badare se sono operai invece che studenti. Mettermi nell’apostolato fra i poveri con umiltà, farmi come loro, sul loro piano, amarli, interessarmi a loro».

Tuttavia, è in missione dove la diversità diviene per Ambrosoli stimolo per passare dalla comprensione all’accettazione, al cambiamento. Ambrosoli è uno che, pur accettando l’esistente, non si accontenta dell’esistente. Trovandosi con due personalità forti, come padre Alfredo Malandra e suor Eletta Mantiero, i due pilastri della missione di Kalongo e delle sue strutture, lo spazio di manovra per lui medico pivellino di cose d’Africa doveva sembrare molto risicato, se non addirittura deludente. Per sopravvivere, avrebbe potuto rivendicare una preparazione medica ben superiore e con ciò essere la causa di tensioni inconciliabili. Invece, si inserisce portando a piena fioritura ciò che inconsciamente era il desiderio profondo dei due anziani missionari. A Kalongo non si viene sconfitti nelle proprie idee, perché impossibile è reggere il confronto con qualcuno più grande, ma si viene via via trasformati. I sogni, allora, diventano realtà: la modesta maternità della savana di suor Mantiero si sviluppa in un ospedale di 350 letti, e una condizione femminile servile si riscatta in una Scuola per Ostetriche conosciuta a livello nazionale e testardamente sognata da padre Malandra. Detto per assurdo, Ambrosoli era un elefante che sapeva destreggiarsi tra la cristalleria. La missione spesso obbliga a far convivere grandi progetti e fragilità.

L’“ospedaletto del bosco” – come lo chiamava Ambrosoli –, cresciuto sorprendentemente negli anni, non sfigurava neppure al confronto del Lachor Hospital di Gulu, l’ospedale del capoluogo, quindi più centrale e sovvenzionato dal governo. Il rapporto annuale della Diocesi di Gulu del 1979 permette un utile confronto: a Kalongo lavorano 5 medici, di cui uno completamente dedito ai lebbrosi, mentre a Lachor operano 7 medici, di cui uno ugandese; le infermiere a Kalongo sono 14 e al Lachor Hospital 13; le ostetriche con corso sono 62 a Kalongo, al Lachor Hospital 63; i letti d’ospedale 323, al Lachor Hospital 220; i letti in maternità 75, al Lachor Hospital 34; a Kalongo le chiamate dei pazienti esterni sono state 113.661, contro le 39.735 al Lachor Hospital; a Kalongo gli interventi maggiori sono stati 1.012, al Lachor Hospital 732; a Kalongo 1.379 parti, al Lachor Hospital 701.

La Scuola per le Ostetriche costituiva il fiore all’occhiello, la creatura così fortemente voluta e curata da padre Ambrosoli. Dal 1961 al 1978, l’ospedale ha qualificato 245 ostetriche regolarmente iscritte all’albo (enrolled midwives), delle quali 65 dal 1961 al 1967 e 180 dal 1968 al 1978. Visti i risultati eccezionali, nel 1979 il Ministero della Sanità approva un nuovo Corso per Ostetriche a livello superiore, che però, a causa della guerra, potrà iniziare solo nel 1980. Comunque, la Scuola per Ostetriche, nei suoi 30 anni di attività, diplomerà 400 ostetriche professionali, 40 delle quali con il grado di caposala (registered midwives).

Ambrosoli, già a questo primo livello “dell’audace uscita da sé”, pone a noi la domanda se nel nostro essere e fare missione c’è questa apertura mentale di pensare oltre l’esistente, con il sano realismo di volerlo far crescere con l’apporto di chi era prima di noi e di chi rimarrà dopo di noi. Ambrosoli ci stimola a cogliere quali sono i campi di presenza e di azione dove oggi il cambio è più urgente. Esattamente il contrario di chi rinuncia a pensare e si trincera nell’autodifesa, nelle sterili recriminazioni, nel progressivo non vedere, non sentire, non mettersi in discussione. Con ciò, Ambrosoli ci pone domande ineludibili su cui impostare tante nostre riflessioni e cambi di passo nella missione: quali sono attualmente le esperienze di missione significative tra di noi? Quali sono le esperienze, ricalcanti un progetto con una storia, con opzioni fatte e testate attraverso periodici discernimenti e bilanci? Le sue opzioni sono ancora lì, davanti a tutti.

b.  Né spiritualismi disincarnati, né azioni senz’anima

Il secondo aspetto di una “evangelizzazione secondo lo Spirito” è il viverla e proporla come impegno totale, tenendo strettamente unite contemplazione e azione, ossia contemplazione in azione e viceversa. «Dal punto di vista dell’evangelizzazione, non servono né le proposte mistiche senza un forte impegno sociale missionario, né i discorsi e le prassi sociali e pastorali senza una spiritualità che trasformi il cuore» (EG, 262), scrive papa Francesco. E citando da Novo millennio ineunte di Giovanni Paolo II, aggiunge: «Si deve respingere la tentazione di una spiritualità intimistica e individualistica, che mal si comporrebbe con le esigenze della carità, oltre che con la logica dell’Incarnazione” (ibidem). Scindere le due cose significherebbe cadere nello svuotamento di significato dell’azione, nell’intimismo e nell’individualismo.

Nel tempo in cui ha vissuto il suo servizio missionario, Ambrosoli ha certamente contribuito a inserire a pieno titolo il servizio medico nella prassi evangelizzatrice, che allora era soprattutto intesa quasi esclusivamente come annuncio della Parola e celebrazione-pratica dei sacramenti, in vista della fondazione di una Chiesa locale. Pur senza mettere in discussione questa opzione di fondo, Ambrosoli con l’offerta della sua professionalità medica ha contribuito ad allargare il concetto e la realtà dell’annuncio. Il servizio agli ammalati come lui l’ha vissuto è divenuto una modalità di annuncio evangelico, tanto nobile e necessaria quanto la predicazione. Ne fanno fede il suo discernimento vocazionale rigoroso, mantenendo l’esercizio dell’attività medica e l’impegno pastorale; la decisione di scegliere i comboniani, per la prioritaria missio ad gentes, a differenza della prima scelta dei gesuiti; la chiarezza interiore del suo pronunciamento; la decisione dei passi intrapresi; le scadenze concrete inserite in un processo o quadro globale pregato, riflettuto, attuato. Ambrosoli non era il tipo da decisioni affrettate ed entusiasmi passeggeri, né da azioni senza riflessione o riflessione senza azioni. Convinzioni e prassi costituivano il duplice aspetto delle sue decisioni. L’azione era riflessa in valori interiori coltivati, vagliati e a lungo contemplati (frutto di una disciplina interiore, di orari esigenti di preghiera, di spazi e tempi all’insegna dell’efficacia e dell’efficienza, di approfondimento costante di virtù specifiche quali il servizio, la disponibilità, la comprensione, l’umiltà ecc.) e, per contro, questa sua riflessività e serietà interiori cercavano la loro autenticazione in una prassi elaborata in comune e perseguita con costanza, metodo e rigore.

Negli appunti presi durante gli Esercizi Spirituali del 1974 scriveva: «Potessero vedere Gesù in me! Non si tratta di fare cose diverse, ma del modo di trattare gli ammalati. Devono sentire che il contatto è fraterno per la carità di Cristo». E, in effetti, il contatto fraterno può solo trasmettere la sollecitudine di Cristo, se è un servizio specifico – nel caso nostro, medico – che si avvale dell’apporto di tutti, avviene attraverso accurata preparazione e competenza, e si realizza in un rapporto empatico con l’ammalato, quindi mette assieme rispetto, attenzione alla persona e rigorosa tecnicalità.

Ha scritto il dott. Augusto Cosulich, di Pordenone, a Kalongo dal 1983 al 1985: «Ciò che più ho imparato da Giuseppe è stata la sua efficienza in sala operatoria, il non dare importanza all’eleganza del gesto chirurgico, al fatto che la luce sul campo operatorio non è magari ottimale o che chi ti aiuta non lo fa nel modo migliore. Lui era abituato ad andare avanti, anche se magari c’era un po’ di sanguinamento o se il paziente non era perfettamente rilassato. Il suo motto era ottenere il massimo risultato per il paziente con il minimo dispendio di risorse (sempre relativamente scarse a Kalongo). Poteva fare questo grazie all’enorme esperienza che, unita alle capacità professionali, gli permetteva di capire subito qual era il problema appena aperto l’addome del paziente (non si deve dimenticare che in posti come Kalongo si fa tuttora, e si farà ancora per molto tempo, diagnosi al momento dell’intervento chirurgico, il famoso open and see), decidere cosa fare, e portarlo a compimento nel più breve tempo possibile in modo da non sprecare materiale chirurgico o farmaci anestetici più del necessario. Da questo punto di vista, era a volte addirittura esagerato: poteva riutilizzare varie volte garze imbevute di sangue dopo averle strizzate in una bacinella; usava i fili di sutura in modo così parsimonioso che sarebbe stato di grande esempio per tutti quei chirurghi italiani così facilmente spreconi con il materiale ospedaliero pubblico. Mi dicono che addirittura, negli anni precedenti, quando non c’era nessuno che potesse occuparsi dell’anestesia, lui stesso praticava le anestesie spinali o epidurali (per quest’ultima aveva anche ideato una modifica rispetto alla classica tecnica d’infissione dell’ago) subito prima di andare a vestirsi sterilmente per iniziare l’intervento chirurgico stesso. Dimostrava anche notevole senso pratico e avvedutezza, sempre nell’ottica di essere utile al paziente e minimizzare i costi ospedalieri [...]. Era maestro paziente e validissimo, amava insegnare sinceramente tutto ciò che sapeva, compresi i ‘trucchetti’ e tutti quei piccoli tips che fanno la differenza tra un chirurgo normale e un grande chirurgo, quale lui era».

Nella vita dell’evangelizzatore, collegare strettamente l’aspetto umano del rapporto e la professionalità, sia nel campo medico che in quello pastorale, richiede un ricercato equilibrio tra contemplazione e azione e la loro necessaria correlazione. La vera contemplazione porta sempre a considerare un problema da risolvere o una necessità a cui dare una risposta come esigenze della persona. L’aspetto personalista, così evidente in padre Ambrosoli, lo conduce poi ancora di più a un servizio medico estremamente competente e accurato. Con la sua prassi, egli pone il problema della preparazione specifica: che tipo di preparazione e di programmazione attualmente noi garantiamo di fronte alle urgenze della missione? In gioco ci sono il tipo di cammino formativo, la preparazione non generica ma mirata, e la capacità di inserimento e di collaborazione in un piano comune dove è bandita ogni nascosta compensazione di tipo personale. Ambrosoli ci fa capire che un progetto comune esige una consistente interiorità, la quale, a sua volta, richiede competenze specifiche. Forse dovremmo riconsiderare il rapporto tra provvisorietà, preparazione e continuità, e chiedere umilmente a lui che ci illumini!

Alle fonti del discepolato gioioso ed entusiasta

L’evangelizzatore credibile per il nostro tempo non può essere che «una persona convinta, entusiasta, sicura, innamorata» (cfr. EG, 266). Papa Francesco lo identifica in colui che è cercatore della gloria di Dio (la miglior tutela del bene della persona e della difesa ad oltranza degli indifesi e piccoli), uomo o donna di preghiera (la via necessaria da battere per lottare e ottenere la liberazione integrale). Scrive Francesco: «Si tratta della gloria del Padre, che Gesù ha cercato nel corso di tutta la sua esistenza» (EG, 267), ed è necessario essere «ben fondati sulla preghiera, senza la quale ogni azione corre il rischio di rimanere vuota e l’annuncio alla fine privo di anima» (EG, 259).

Basterebbe ricordare il preziosissimo duplice lascito di Ambrosoli, su cui non possiamo non confrontarci e che è stato il filo rosso di tutta la sua vita: il respiro della preghiera e il sospiro in morte attraverso la consegna di sé stesso alla volontà di Dio. Con un ospedale evacuato, una scuola in precarie condizioni e l’incognita di dover lasciare l’Uganda, prima di morire egli sussurra: «Signore, si faccia la tua volontà, fosse anche cento volte!». Il Dio invocato è il Dio riconosciuto come il protagonista di tutto, del presente e del futuro. L’apparente fallimento, allora, può ben essere chiamato «l’amato insuccesso». E non può essere che così per chi, fin da giovane, ha scritto: «L’apostolo vale in quanto prega». E da affermato chirurgo, ripeteva: «È Dio che fa. Io sono ignorante!», e sul letto di morte ha chiesto: «Aiutatemi a pregare! Voglio pregare». Ha spesso fatto esattamente così con gli ammalati, quando non li poteva più curare, chiedendo loro di pregare con lui, coinvolgendo nella preghiera il personale presente in sala operatoria. Ha scritto il dottor Luciano Tacconi, presente a Kalongo dal 1978 al 1987: «Nei momenti più drammatici di una malattia, la preoccupazione di noi collaboratori era di fare in fretta, perché consideravamo tempo sottratto al paziente quello che padre Ambrosoli impiegava invece nel prepararlo all’estremo passo. Invece ci siamo accorti che anche il preparare un uomo o una donna ad accettare la morte rientra nei doveri del medico e riflette il rispetto che si deve avere della persona tutta intera: corpo e spirito».

Con l’adesione totale alla volontà di Dio e con la preghiera, il medico Ambrosoli ha trasfigurato il suo servizio in annuncio salvifico. In lui si è realizzato alla lettera quanto papa Francesco scrive di un annunciatore vero: «Gesù vuole evangelizzatori che annuncino la Buona Notizia non solo con le parole, ma soprattutto con una vita trasfigurata dalla presenza di Dio» (EG, 259). Temprato dalla missione, padre Giuseppe giungerà a sintetizzare tutto questo nel suo indimenticato motto: «Dio è amore. C’è un prossimo che soffre, e io ne sono il servitore».

Inevitabile la domanda che ci dobbiamo porre, sia come individui che come comunità missionarie: non tanto se preghiamo o per chi preghiamo, ma qual è la qualità della nostra preghiera.

L’esperienza di essere popolo

C’è un’altra condizione indispensabile per essere «evangelizzatori con Spirito, cioè evangelizzatori che si aprono senza paura all’azione dello Spirito Santo» (EG, 259): “Il piacere spirituale di essere popolo” (cfr. EG, 268-274). Tale condizione può essere così sintetizzata: vivere la vicinanza, sentirsi spiritualmente vicini alla gente. Sono parole che hanno un significato tremendamente concreto. La vicinanza racchiude varie sfumature: “rimanere-con” quando gli altri fuggono; amare con l’intensità di una passione che va fino al “patire”; guardare negli occhi; sentire il contatto; vivere lo spazio senza autodifese; essere presenti lì dove le cose accadono; andare al di là delle apparenze; ecc. Solo così «accettiamo veramente di entrare in contatto con l’esistenza concreta degli altri e conosciamo la forza della tenerezza» (EG, 270), perché «acquistiamo pienezza [solo] quando rompiamo le pareti e il nostro cuore si riempie di volti e di nomi!» (EG, 274).

Papa Francesco offre qui un campionario significativo di questa vicinanza: «per essere evangelizzatori autentici, occorre sviluppare il gusto spirituale di rimanere vicini alla vita della gente, fino al punto di scoprire che ciò diventa fonte di una gioia superiore. La missione è una passione per Gesù ma, allo stesso tempo, è una passione per il suo popolo» (EG, 268); come Gesù, se parliamo con qualcuno, «dobbiamo guardare i suoi occhi con una profonda attenzione piena d’amore… rallegrandoci con coloro che sono nella gioia, piangendo con quelli che piangono e impegnandoci nella costruzione di un mondo nuovo, gomito a gomito con gli altri» (EG, 269); «Gesù vuole che tocchiamo la miseria umana, che tocchiamo la carne sofferente degli altri… che rinunciamo a cercare quei ripari personali o comunitari che ci permettono di mantenerci a distanza dal nodo del dramma umano» (EG, 270).

Ambrosoli ha mostrato una capacità unica di stare con la gente per la facilità che aveva di creare rapporti con chiunque, la naturalezza del suo convivere con le persone più disparate e la generosità con cui si mostra disponibile ad ogni richiesta. Pazienza e senso del servizio, prontezza e dimenticanza di sé, condite con il suo immancabile sorriso, indicavano non solo quanto si sentisse in simbiosi con il popolo che ruotava attorno all’ospedale, ma soprattutto costituivano quella via della gioia e della serenità indispensabili per sentirsi bene e per crescere insieme.

Nella sua proverbiale “pazienza” tocchiamo l’estrema frontiera della carità del medico missionario Ambrosoli: l’altro era accettato con tutta la sua diversità, fosse esso l’ammalato africano, o il richiedente di turno, o il medico venuto a Kalongo per impratichirsi nella chirurgia. A Suor Silveria Pezzali, che trascorse con lui 14 anni a Kalongo e che molto si lamentava per la sua infinita pazienza, rispondeva immancabilmente: «Comprendere, tollerare, perdonare, e amare».

Molti che l’hanno conosciuto hanno detto di lui: «Sembrava che non avesse altro da fare se non ascoltare la persona che gli stava davanti», Invece, era l’applicazione giornaliera di un suo criterio interiore sposato da molto tempo: «Per poter amare, devo formarmi un giudizio di amabilità sulla persona che ho davanti». Il “giudizio di amabilità” è stata la sua livrea in privato e in pubblico, con europei e africani, con gente istruita o analfabeta. Agli occhi delle persone semplici questo è argomento sensibile dove è impossibile barare. Lino Labeja, un catechista di Kalongo, ha detto: «Non ho mai trovato una persona disponibile all’ascolto come padre Ambrosoli». E Martino Omach, anch’egli catechista: «Accoglieva i poveri, le vedove e gli orfani in modo tutto particolare». Non meraviglia quindi che un altro catechista John Ogaba, nella sua deposizione, abbia sentito il bisogno di usare le seguenti ammirate parole: «Dal suo modo di accogliere le persone e di intrattenersi con loro, di consigliarle e di incoraggiarle, si aveva l’impressione di trovarsi davanti a Gesù. Aveva un grande rispetto verso tutti, ma in particolare verso i poveri e gli abbandonati». Insomma, chi si trovava in difficoltà sapeva di poter contare su padre Ambrosoli. Se, in un dato momento, pur senza perdere la calma e la compostezza, non ha paura di riprendere, anche in pubblico, un suo confratello arrogante e violento, più tardi non porrà remore nel difenderlo pubblicamente per essere stato a sua volta schiaffeggiato da un medico.

L’inarrivabile ammirazione nei suoi confronti era simile alla sua proverbiale mitezza, fermezza, semplicità e accessibilità. Non s’imponeva – non ne aveva bisogno –, ma attirava tutti.

Padre Ambrosoli ha espresso la sua “gioia di essere popolo” nel voler rimanere a Kalongo a prestare il suo servizio medico, nel voler morire tra il suo popolo Acholi ed essere sepolto come un povero qualunque tra la sua gente.

Dio l’ha portato presso di sé, e la Chiesa ce lo ha “restituito”, decretandone l’esemplarità e la venerabilità. Un anno dopo la celebrazione della sua beatificazione, siamo invitati a riprendere in mano vita e atteggiamenti missionari del Beato Giuseppe Ambrosoli, per conoscerli, capirli, assaporarli e riesprimerli nelle nostre vite per il bene della missione e della Chiesa.

P. Arnaldo Baritussio, mccj
Postulatore generale