La parabola dei vignaioli omicidi nel brano evangelico mette l’accento sul “portare frutti”. La prima sequenza focalizza la figura del proprietario che, costruita con cura una vigna, parte affidandola a dei contadini; la seconda descrive i diversi tentativi di riscossione da parte del padrone, che manda imprudentemente anche suo figlio. Lo scopo dell’invio dei servi è di raccogliere i frutti della vigna. (...)

Custodi o predoni?

Ascoltate un'altra parabola!
Matteo 21,33-43

Il vangelo di questa domenica ci offre la terza parabola che ha come tema la vigna. Come quella dei due figli inviati nella vigna di domenica scorsa, è rivolta ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo, nonché ai farisei (vedi v. 45), che in un primo momento non si accorgono che era proprio indirizzata a loro. La parabola, conosciuta come “dei vignaioli assassini”, è detta nel Tempio, ha toni drammatici ed anticipa profeticamente la fine tragica di Gesù, “preso, cacciato fuori dalla vigna e ucciso” alle porte di Gerusalemme.

1. Dio è un vignaiolo

La simbologia della vigna come rappresentazione del popolo di Dio, Israele, è ben conosciuta e viene illuminata dalla prima lettura del profeta Isaia (5,1-7). Gesù, tuttavia, racconta la parabola contro i responsabili religiosi che si sono impossessati di questa vigna, sordi ai richiami dei profeti (i “servi”) e adesso anche del Figlio, inviati da Dio, il Padrone della vigna. Le prime generazioni cristiane hanno interpretato allegoricamente la parabola: il primo gruppo di servi sarebbero i profeti e il secondo gli apostoli. La sua conclusione: “a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti”, sarebbe l'annuncio del passaggio dalla sinagoga alla chiesa. Tuttavia, non sembra che sia questo il suo senso, ma piuttosto un forte rimprovero alle autorità religiose del suo e di ogni tempo.

2. Noi siamo la vigna di Dio

Mi pare opportuno soffermarsi, prima di tutto, sulla cura premurosa di Dio verso la sua vigna, che rispecchia il suo amore per il suo popolo e per ciascuno di noi. “Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna che io non abbia fatto?”, si lamenta il Signore, constatando che la vigna, invece di produrre uva, ha prodotto acini acerbi (Isaia 5,1-7). Quella vigna piantata “sopra un fertile colle” (quello del Calvario), “dissodata e sgombrata dai sassi” dalla Parola di Dio per diventare terra buona, si riferisce anche a noi. Siamo pure noi delle “viti pregiate”, innestati in colui che è la vera vite (Giovanni 15). Nel nostro cuore egli ha costruito una torre, non quella di Babele, ma quella della Pentecoste dello Spirito! Ha “scavato un tino”, quello del battesimo e del vino dell'Eucaristia! Ci ha protetti nel recinto della Chiesa...
È questa, dunque, una buona opportunità per considerare che “grandi cose ha fatto il Signore per noi” (Salmo 125,3). Ma pure una occasione per interrogarsi sui frutti che sta producendo la nostra vita cristiana: uva o acini acerbi?

3. Noi siamo i vignaioli di Dio

Dio “se ne andò lontano” e, con estrema fiducia, assegnò la sua vigna a noi perché ne prendessimo cura. Cioè, ha affidato i suoi doni alla nostra responsabilità: la vita e la salute, la terra e i beni, le doti personali e i talenti, la fede e le grazie spirituali, tutto da gestire con saggezza al servizio di tutti. La grande tentazione è impossessarsi della “vigna”, cioè di quanto Dio ha affidato alla nostra custodia, usandolo a nostro compiacimento e a nostro solo vantaggio. D'altronde, il primo peccato è nato dal desiderio di appropriarsi di un dono. La nostra bramosia ci porta ad accaparrarci dei beni, ad ignorare il bisogno degli altri e le loro giuste rivendicazioni, a sottomettere le persone a nostro servizio, a calpestare i poveri e perfino ad uccidere, come ben illustra la parabola.

Domandiamoci quale sia la nostra “vigna” e come la stiamo gestendo: da padroni o da affittuari? Come esercitiamo un ruolo: come servizio o come potere? Il Signore ci chiederà: cosa avete fatto della mia vigna? Come avete accolto i miei messaggeri? Come avete trattato mio Figlio? E teniamo presente che ci sono molti modi di uccidere Cristo!...

4. Nella vigna del mondo: custodi o predoni?

Giorni fa, il 4 ottobre, Papa Francesco ha pubblicato una nuova esortazione apostolica Laudate Deum, continuazione della Laudato Si', in cui richiama tutti alla responsabilità nella gestione dei beni della terra. Le conseguenze di un uso sfrenato, egoista e predatorio della natura sono davanti a tutti. Spesso abbiamo un atteggiamento di quasi indifferenza o di minimizzazione, come se la questione non ci riguardasi più di tanto, forse perché non siamo disposti a cambiare il nostro stile di vita. Altre volte scarichiamo la responsabilità sugli altri, specie i politici, mano lunga dei latifondisti e delle multinazionali, ma non assumiamo la nostra parte di responsabilità, ritenendola forse insignificante. Rendere la terra un paradiso o un deserto dipende da ciascuno di noi!

Davanti all'evidente irresponsabilità di tanti capi politici e di molte nazioni, il Papa lancia un nuovo grido d'allarme, prima che sia troppo tardi. Ci ricorda che “il mondo che ci circonda non è un oggetto di sfruttamento, di uso sfrenato, di ambizione illimitata” (n. 25). “Abbiamo compiuto progressi tecnologici impressionanti e sorprendenti, e non ci rendiamo conto che allo stesso tempo siamo diventati altamente pericolosi, capaci di mettere a repentaglio la vita di molti esseri e la nostra stessa sopravvivenza” (n. 28). Sottolinea che “gli sforzi delle famiglie per inquinare meno, ridurre gli sprechi, consumare in modo oculato, stanno creando una nuova cultura” (n. 71). E conclude dicendo: “'Lodate Dio' è il nome di questa lettera. Perché un essere umano che pretende di sostituirsi a Dio diventa il peggior pericolo per sé stesso” (n. 73).

Domandiamoci: il nostro rapporto con la natura è un atto di lode a Dio o un calpestare il suo dono? nella vigna del creato ci comportiamo da custodi o da padroni e predoni?

Per la riflessione settimanale

Per vedere se la nostra vita sta producendo l'uva buona dell'amore e la giustizia o, al contrario, gli acini acerbi dell'egoismo e l'ingiustizia, confrontiamoci con quanto dice San Paolo nella seconda lettura: “Quello che è vero, quello che è nobile, quello che è giusto, quello che è puro, quello che è amabile, quello che è onorato, ciò che è virtù e ciò che merita lode, questo sia oggetto dei vostri pensieri” (Filippesi 4,6-9).

P. Manuel João Pereira, comboniano
Castel d'Azzano (Verona), ottobre 2023

Ridare vigore alla fede
promuovere la Missione

Isaia 5,1-7; Salmo 79; Filippesi 4,6-9; Matteo 21,33-43

Riflessioni
La vigna ha il suo cantore. Il profeta Isaia, denominato il “Dante della letteratura biblica”, dedica uno dei suoi appassionati cantici poetici alla vigna di un amico (I lettura). Si tratta di una vigna piantata con amore, curata, protetta, ripulita con ogni cura e tante speranze (v. 1-2.4). La vigna del Signore è il suo popolo (v. 7 e il salmo responsoriale). Purtroppo, la vigna - cioè il popolo - è stato infedele. Al momento della vendemmia, le attese si scontrano con delusioni e amarezze: acini acerbi invece di uva (v. 4); invece di frutti di giustizia e rettitudine, il popolo ha prodotto spargimento di sangue e grida di oppressi (v. 7). Il dramma di quella vigna diventa, di fatto, tragedia nella parabola di Gesù (Vangelo). I vignaioli, oltre ad appropriarsi del raccolto, diventano omicidi: bastonano, lapidano e uccidono non solo gli inviati del padrone, ma perfino suo figlio (v. 35-39).

L’applicazione ai fatti della morte di Gesù è diretta. Ma l’amore di Dio per il suo popolo supera qualunque malvagità. Dio, che si è inserito nella storia, dà un senso nuovo ai fatti umani: recupera la pietra – Gesù! – scartata dai costruttori e ne fa la pietra d’angolo (v. 42), cioè la base della salvezza per tutti i popoli. Ormai è chiaro: chi rifiuta Dio si autocondanna all’infruttuosità; solo chi l’accetta e rimane in Lui produce molto frutto. Perché senza di Lui non possiamo far nulla (Gv 15,5). Dio vuole ostinatamente il nostro bene, e quindi non molla, non cede alla delusione, non rinuncia ai frutti. Ritenta dopo ogni rifiuto: ripropone a nuovi popoli il medesimo Salvatore, affinché, uniti a Lui, diano frutti di vita (v. 34.41.43).

La storia dell’annuncio del Vangelo nel mondo registra le vicende e l’alternarsi di popoli che, in epoche successive, accolsero o rifiutarono il messaggio cristiano, con le relative conseguenze di bene o di male. Nessun popolo può autodefinirsi migliore degli altri, o ritenersi evangelizzato una volta per sempre. Il fatto della nascita, fioritura e poi scomparsa di numerose comunità cristiane in varie regioni del mondo, invita a fare serie riflessioni missionarie. Di tante fiorenti comunità cristiane del Nord-Africa e dell’Asia Minore - anche se fondate da Apostoli e guidate da Padri della Chiesa - ora sono rimasti soltanto i nomi, alcuni resti archeologici e poco più. Nel frattempo, altre nazioni e continenti si sono aperti al Vangelo e continuano a dare frutti (in Africa, America, Asia, Oceania…); mentre alcuni popoli dell’occidente cristiano, che un tempo erano forti nella fede, ora sperimentano stanchezza e fatiche, con scarsi frutti. Nel cuore delle persone e nelle culture dei popoli vi sono zone che permangono nel mistero! Ma come recuperare freschezza e vigore nella fede? È questa la grande sfida per un’efficace attività missionaria.

San Paolo si rivolge ai cristiani di Filippi (II lettura), comunità che, a suo tempo, ha dato buoni frutti, ed enumera otto frutti da coltivare e promuovere: ciò che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, virtuoso, lodevole (v. 8), per garantire la pace con Dio e con il prossimo (v. 8-9). Sono valori che invitano a pensare in positivo, e sono la base per i cammini della Missione nel mondo, quali: dialogo con le altre religioni, inculturazione, dialogo ecumenico, promozione della giustizia, salvaguardia del creato

Paolo raccomanda quei frutti e valori ai cristiani di Filippi, la prima comunità che egli fondò in Europa durante il secondo viaggio missionario (anni 49-50); una comunità con la quale egli stabilì rapporti particolarmente affettuosi. Le origini della comunità di Filippi offrono spunti missionari interessanti. Dopo il concilio di Gerusalemme (At 15), Paolo rivisitò le comunità dell’Asia Minore (da lui fondate l’anno prima), vi nominò dei responsabili e cominciò a cerca nuovi campi da evangelizzare (At 16,6-7). Giunto a Tròade (Asia Minore), gli apparve in un sogno notturno un Macedone, che gli aprì la via a un mondo nuovo: “Passa in Macedonia e aiutaci!” (At 16,9-10). Il mare da attraversare era piccolo, ma quel passaggio era assai significativo: per Paolo e compagni era l’ingresso in Europa. Ormai lo sguardo di Paolo puntava su Roma, capitale dell’Impero romano.

Gli inizi della comunità di Filippi e l’invito del Macedone (“Passa…e aiutaci!”) costituiscono un fatto emblematico e un richiamo missionario alle comunità ecclesiali di ogni tempo, ad accogliere il grido - aperto o silenzioso - dei tanti Macedoni di oggi (persone, popoli, eventi, situazioni…). (*) Sono temi permanenti, che richiedono preghiera, riflessione e impegno in questo ottobre missionario e nella Giornata Missionaria Mondiale. Ma anche dopo queste date. Sempre!

Parola del Papa

(*) “Già l’aver ricevuto gratuitamente la vita costituisce un implicito invito ad entrare nella dinamica del dono di sé: un seme che, nei battezzati, prenderà forma matura come risposta d’amore nel matrimonio e nella verginità per il Regno di Dio. La vita umana nasce dall’amore di Dio, cresce nell’amore e tende verso l’amore. Nessuno è escluso dall’amore di Dio… La Chiesa, sacramento universale dell’amore di Dio per il mondo, continua nella storia la missione di Gesù e ci invia dappertutto affinché, attraverso la nostra testimonianza della fede e l’annuncio del Vangelo, Dio manifesti ancora il suo amore e possa toccare e trasformare cuori, menti, corpi, società e culture in ogni luogo e tempo”.
Papa Francesco

Messaggio per Giornata Missionaria Mondiale 2020

P. Romeo Ballan, MCCJ

Quando l'uomo delude Dio

Isaia 5,1-7; Salmo 79/80; Filippesi 4,6-9; Matteo 21,33-43

L’immagine della vigna come simbolo del rapporto di alleanza tra Dio e il suo popolo è il filo conduttore della liturgia della parola di questa domenica. Nella prima lettura ci è offerto dal profeta Isaia un testo poetico noto come il “canto della vigna del Signore”, che già anticipa la parabola del vangelo. Il profeta si presenta come l’amico dello sposo, che ha un ruolo ufficiale nelle trattative del matrimonio, e propone agli abitanti di Gerusalemme una canzone di lamenti per un amore non corrisposto. Il canto si sviluppa in tre fasi: la descrizione delle cure prodigate alla vigna e l’attesa delusa, la decisione di ridurre la vigna sterile in pascolo, e l’applicazione finale della parabola alla casa di Israele.

Infatti, Israele è stato oggetto di cure tutte particolari da parte di Dio. Ma la risposta all’elezione e alla grazia è stata quella dell’infedeltà e dell’inadempienza delle clausole di alleanza. Se il popolo di Dio viene poi esposto alle invasioni, distruzioni e deportazioni, questo non può essere imputato a Dio, ma alla conseguenza della sua violazione delle clausole di alleanza. La pazienza di Dio ha un limite, e alla fine c’è un giudizio. In modo paradossale egli si lamenta non perché desideri essere amato, ma perché si pratichi la giustizia, cioè che si ami un altro. Con la sua pedagogia di amore, Dio desidera che Israele rispetti ed ami il prossimo.

La parabola dei vignaioli omicidi nel brano evangelico mette l’accento sul “portare frutti”. La prima sequenza focalizza la figura del proprietario che, costruita con cura una vigna, parte affidandola a dei contadini; la seconda descrive i diversi tentativi di riscossione da parte del padrone, che manda imprudentemente anche suo figlio. Lo scopo dell’invio dei servi è di raccogliere i frutti della vigna. L’insistenza del padrone nel suo intento è evidenziata nel suo triplice invio prima di alcuni servi, poi di altri più numerosi dei primi, e alla fine del proprio figlio. I vignaioli non si limitano a respingere i servi inviati, ma li maltrattano e li uccidono. L’ostinata speranza del padrone si scontra con l’ostinata malvagità dei contadini: egli è ostinato nelle proposte e nella pazienza, e loro ostinati nel rifiuto.

Il padrone mediante l’invio del proprio figlio nutre la speranza di ristabilire i rapporti con questi vignaioli ribelli (“Avranno rispetto di mio figlio”), ma essi prendono lo spunto da questa misura eccezionale per dare attuazione al loro progetto (“Costui né l’erede; venite uccidiamolo ed avremmo noi l’eredità”).

È facile identificare il padrone con Dio, la vigna con Israele, i vignaioli coi responsabili di Israele, i servi coi profeti, e il figlio con Gesù. Infatti, in questa parabola si rispecchia la storia del rifiuto e della condanna a morte di Gesù da parte dei destinatari immediati della sua missione. A causa degli uomini e per la nostra salvezza, Dio ha esaurito tutte le risorse e possibilità. L ‘ultimo tesoro da rischiare è stato il suo Figlio. Ultimo nel senso di definitivo e tutto, cioè dopo di che non resta più nulla. Infatti, nella sua inguaribile passione per gli uomini, Dio non ha tenuto per se neppure il proprio unico Figlio.

In questa parabola siamo in un quadro giudiziario. Gli imputati sono principalmente i responsabili del popolo eletto; ma neppure Israele, nel suo insieme, è immune dalla colpa: la sua religiosità, infatti, non è sempre quella gradita da Dio, e i suoi frutti non rispondono sempre alle sue attese. La storia può anche ripetersi per noi, che siamo termine di un amore infinito da parte di Dio, e spesso così ingrati.

Il capo di accusa è l’appropriazione dei frutti della vigna, l’aver agito come se la vigna fosse proprietà personale ed esclusiva, il non riconoscere di dover rispondere a Dio della gestione della vigna. In realtà, una vigna dove giochino soltanto interessi personali e si dimentichi ciò che spetta a Dio, è colpevole e condannabile allo stesso modo del fico sterile. Cioè chiunque si appropria dei doni di Dio e pretende monopolizzarli, o volgerli a proprio vantaggio, non porta frutto, è sterile e ladro.

La sentenza nella parabola non riguarda la distruzione della vigna, ma il suo passaggio ad altri coltivatori che gli consegneranno i frutti a suo tempo. Cioè Dio può anche venir sconfitto dalla malvagità degli uomini, non per questo si interrompe il suo progetto di amore per l’umanità. La morte del Figlio non mette fine al suo piano di salvezza.

La vigna designa qui non tanto l’Israele storico, ma una realtà permanente, vivente nel cuore di Dio, che si chiama Regno di Dio. Neppure vengono precisati chi sono gli “altri”, cui la vigna sarà affidata, per farla fruttificare. Basti sapere che sono sempre “altri”, perché d’ora in poi la vigna non si collocherà più in uno spazio o territorio definito, e nessuno può rivendicare il diritto di proprietà sul Regno di Dio. Il titolo di appartenenza alla comunità messianica o al popolo di Dio non è più l’identità etnica, ma la fecondità, “facendo fruttificare” il Regno di Dio.

La Chiesa, alla quale viene ora affidato il Regno di Dio, è il popolo di Dio che prende il posto dell’Israele storico. Ma non si tratta di un “nuovo popolo” di Dio, perché esso è unico come una sola è la storia di salvezza che include Israele e tutti gli altri popoli. Il criterio per essere accolti nel regno del Padre è l’attuazione della sua volontà, e questa si concretizza nelle opere buone dell’amore attivo verso tutti, soprattutto verso i “fratelli più piccoli” di Gesù. Solo il giudizio finale farà conoscere chi ha praticato questa fedeltà. Il valore definitivo della Chiesa è quindi escatologico.

“La pietra che i costruttori hanno scartata è diventata testata d’angolo; dal signore è stato fatto questo ed è mirabile agli occhi nostri”. Questa citazione dal Salmo117 travalica la cornice del della parabola. Lo sguardo porta sul figlio ucciso, del quale si annuncia il miracolo della sua esaltazione e del suo permanente significato di salvezza. Si tratta di una testimonianza di fede nell’evento pasquale, che proclama la validità perenne dell’opera di salvezza compiuta da Gesù.
Don Joseph Ndoum