“Non è degno di me!” È una parola grave ma è una parola vera. I nostri affetti più intimi e importanti se non si aprono ad una grande universalità, fino al mondo intero, se non sono vissuti in Dio, si sclerotizzano, perdono fecondità, e addirittura la casa può trasformarsi in una prigione. (...)

TUTTO IL VANGELO IN UN BICCHIERE D’ACQUA
Matteo 10,37-42

Il vangelo di questa domenica è la conclusione del cosiddetto discorso apostolico o della missione (Matteo 10). È un discorso che riguarda ogni cristiano che per il battesimo diventa discepolo di Gesù, suo apostolo e missionario.

L’IDENTITÀ: Chi sono io?

La prima parola che vorrei sottolineare è il pronome relativo indefinito CHI (ὅς, in greco) che appare dieci volte nel testo. Esso ci ricorda che la vita è scelta. Chi sono io? Chi voglio essere? In quali delle alternative presentate da Gesù mi ritrovo? Tra quelli degni di lui? Tra quelli che rischiano la propria vita per lui? Tra quelli che lo accolgono?

LA RADICALITÀ: Sei degno di Lui?

Certo che le condizioni per essere discepoli di Gesù sono proprio pesanti. Gesù mette ben chiaro, per tre volte: “Chi… chi… chi… non è degno di me!”. Egli vuole, anzi pretende, il primo posto negli affetti e nei progetti. Solo una grande passione per lui e una dedizione totale per il Regno di Dio possono sostenere una vita di impegno radicale nella creazione della nuova umanità. Mai un rabbino aveva avanzato simili pretese. Verrebbe spontaneo dirgli, come i giudei: “Chi credi di essere?” (Giovanni 8,53). Lui ci risponderebbe: “Proprio ciò che io vi dico”(8,25). Prendere o lasciare! Non ci sono mezze vie. Egli rivendica per sé l’amore riservato a Dio solo: “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” (Deuteronomio 6,4-5). Gesù non mette in causa l’amore filiale e materno/paterno, ma ci interroga sulle nostre priorità: Chi è l’amore più grande della tua vita?

L’ACCOGLIENZA: Hai un cuore accogliente?

Troviamo sette volte nel nostro testo il verbo accogliere: accogliere l’apostolo, il profeta, il giusto e il piccolo. In tutti accogliamo Cristo e, in lui, il Padre.
Avere un cuore accogliente è oggigiorno più che mai urgente e necessario, in una società che chiude porte ed erige barriere, per egoismo o per paura del diverso. L’accoglienza è un’opera di misericordia, ma abbiamo perso l’idea biblica dell’accoglienza, che non era solo un atto di timore di Dio, ma una ambita benedizione apportata dall’ospite. Ricordiamo l’esempio di Abramo davanti ai tre viandanti sconosciuti: “Mio signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passare oltre senza fermarti dal tuo servo” (Genesi 18,3).

Nella prima lettura troviamo un bel esempio di accoglienza. Una donna che accoglie il profeta Eliseo: “Facciamo una piccola stanza superiore, in muratura, mettiamoci un letto, un tavolo, una sedia e un candeliere; così, venendo da noi, vi si potrà ritirare” (2 Re 4).

Mi piace vedere qui – come in una icona – un’allusione simbolica alle condizioni essenziali per stabilire una accoglienza di Dio nella nostra vita. Ognuno di noi ha bisogno di questa “piccola stanza superiore” del Profeta, “in muratura”, cioè solida e stabile, dove coltivare l’interiorità e incontrare il Signore. Lì predomina la sobrietà e l’essenzialità: un letto, un tavolo, una sedia e una lampada. Il letto ci ricorda la necessità di un sano equilibrio tra il fare e il riposo; il tavolo e la sedia, la riflessione; la lampada, la meditazione della Parola, “lampada per i nostri passi” (Salmo 119,105).

LA RICOMPENSA: Quale sarà la mia ricompensa?

Gesù parla per tre volte di ricompensa. La Sacra Scrittura parla sovente della ricompensa di Dio e anche Gesù ne parla spesso. Ogni cammino di fede inizia con la promessa: “la tua ricompensa sarà molto grande” (Genesi 15,1). Gli apostoli non esitano a chiedere a Gesù: “Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa dunque ne avremo?” (Matteo 19,27). Noi oggi, però, abbiamo quasi vergogna di parlare di ricompensa nell’ambito della fede, quasi fosse un tradimento alla gratuità dell’amore. E, invece, la nostra dimensione corporea vuole la sua parte e, se ignorata, va a cercarla nell’immediato godimento degli istinti. Quanto è utile ricordare questa promessa del Signore che ogni nostro piccolo gesto fatto per amore avrà la sua ricompensa! “Tutto il Vangelo è nella Croce, ma tutto il Vangelo è anche in un bicchiere d’acqua” (Ermes Ronchi).

Il nostro cuore non è “puro”, cioè tutto di “un pezzo”, ma “impuro”, composito. Solo Dio è “puro”, puro amore. La Parola di Dio si rivolge alla nostra persona nella sua diversità.
– In noi c’è lo “schiavo” che teme il “castigo”. Quello qui e quello eterno: l’inferno! (E non ditemi che l’inferno non esiste, che è una invenzione dell’oscurantismo del medio-evo. L’inferno è l’assoluto e definitivo allontanamento da Dio – sorgente del Calore dell’amore e della Luce della vita – e, quindi, l’oscurità assoluta o lo “zero assoluto” a -273 gradi). Ebbene, la Parola educa il nostro schiavo perché passi dalla paura al timore riverenziale di Dio.
– In noi c’è il “servo” che lavora per il “salario”, per interesse. La Parola lo educa per passare dalla mentalità del “merito” (idea pagana della retribuzione) a quella della “promessa” di Dio, dalla condizione di “servo” a quella di “ amico” (Giovanni 15,15).
– In noi, infine, c’è il “figlio”. La Parola lo educa ad essere sempre più cosciente di questa parola del Padre: “tutto ciò che è mio è tuo”, e a diventare figlio adulto e responsabile dei fratelli.

Esercizio spirituale e preghiera per la settimana

– Impegnarsi nella costruzione di “una piccola stanza superiore, in muratura”;
– Signore, io credo ma tu aumenta la mia fede! (Marco 9,24)

P. Manuel João Pereira, comboniano
Castel d’Azzano (Verona), giugno 2023

I tratti di un Gesù esigente

Mt 10,37-42

Il passo evangelico, che la liturgia di domenica prossima ci presenta, mostra i tratti di un Gesù che appare particolarmente esigente. «Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me» (Matteo, 10, 37). Il rabbi sta parlando non a folle indistinte di uomini e donne, ma ai suoi discepoli più stretti. Come dev’essere interpretata questa “pretesa gesuana” di un amore che sia, da parte dei suoi, più viscerale di quello dovuto alle viscere che li ha partoriti? Operando un’escursione teologica in terra antico-testamentaria, pare di ritornare con la memoria alla promessa di Adonai, proclamata da Isaia: «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai» (Isaia, 49, 15).

Che cosa va dunque cercando questo maestro dal nome Yeshua? La preminenza di amore chiesta ai discepoli è, di fatto, domanda avanzabile solo da uno che è assai prossimo ad Adonai (così intimo da manifestarne la promessa). La preminenza di amore domandata ai discepoli può esser richiesta solo da uno che sia, al contempo, anche radicalmente uomo.

La messa al centro dell’elemento relazionale — dunque dell’amore — nel rapporto maestro-discepolo non è altro che rivelazione di un’umanità traboccante: quella di Gesù. Il rabbi Yeshua vuole essere amato, posto al centro di ogni centralità d’amore. Così, questo maestro esigente si mette a parlare in seguito anche di croci da accogliere e di vita da perdere: «Chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me. Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà» (Matteo, 10, 38-39). Nella logica del maestro di Galilea ciò che “si perde” a causa di lui è per lui ritrovato, ciò che è condannato è per lui salvato, ciò che è incompiuto è per lui condotto a compimento.

Le relazioni di amore umano (anche quelle più passionali) non sono annullate in vista della preminenza di amore per lui, tutt’altro: sono estese. Allo stesso modo la croce non è paradigma dell’esistenza cristiana, ma solo “una sua parte tra le altre”: il penultimo atto che anticipa l’atto finale, la resurrezione. Proprio lì dove è domandata dal rabbi Yeshua una superiorità d’amore sugli altri amori accade il rovesciamento rivelativo: l’amore per il maestro è il solido terreno perché ogni amore umano possa dispiegarsi con pieno vigore. A tal proposito viene efficacemente in nostro aiuto la bellissima metafora del pastore luterano Dietrich Bonhoeffer: «Dio e la sua eternità vogliono essere amati con tutto il cuore; non in modo che ne risulti compromesso o indebolito l’amore terreno, ma in certo senso come cantus firmus (canto fermo), rispetto al quale le altre voci della vita suonano come contrappunto; uno di questi temi contrappuntistici, che hanno la loro piena autonomia e che sono tuttavia relazionati al cantus firmus, è l’amore terreno. Dove il cantus firmus (l’amore a Cristo) è chiaro e distinto, il contrappunto (ogni amore umano) può dispiegarsi con il massimo vigore».

Così è da intendere la preminenza dell’amore “dovuto” a Dio rispetto a quello donato all’uomo: come una preminenza fondativa. Il bacio a Cristo rende pienezza ogni bacio dato all’uomo (e agli uomini) nel mondo. 
[Deborah Sutera - L’Osservatore Romano]

Missione come accoglienza:
di Gesù e dei Suoi

2Re 4,8-11.14-16; Salmo 88; Romani 6,3-4.8-11; Matteo 10,37-42

Riflessioni
Nella conclusione del “discorso missionario” (Mt 10), Gesù dispone l’animo dei suoi discepoli ad assumere due atteggiamenti necessari per chiunque è inviato ad annunciare il Regno: la vocazione con le sue esigenze e la missione come accoglienza. Un messaggio che tocca da vicino ogni cristiano, non soltanto i ‘missionari’. Anzitutto, la vocazione vissuta nell’amore. Gesù parla chiaramente di amore (v. 37) e di vita (v. 39). È in gioco la scelta per un amore più grande. L’amore ai familiari - doveroso, legittimo e benedetto - va visto insieme e confrontato con l’amore per Gesù. Solo alla luce dell’amore e della vita hanno senso le esigenze di una vocazione di servizio alla missione di Gesù; solo per amore è possibile fare scelte ardue, che risultano incomprensibili per chi è fuori di questa logica. Davanti al bene supremo - che è sempre e solo Dio - si dà il giusto peso anche a valori umani importanti, quali gli affetti familiari o gli interessi professionali, riservando, però, a Dio il primo posto, la prima scelta.

Il linguaggio di Gesù (‘prendere la croce’, ‘perdere la vita’) è scandaloso, sembra addirittura crudele, ma è l’unica parola che libera dalle illusioni e che ci fa trovare veramente la vita (v. 39); la via della croce è l’unica che sbocca nella vita vera: la risurrezione. Sono sempre attuali le parole di San Giovanni Paolo II: “Non abbiate paura di Cristo! Egli non toglie nulla, e dona tutto. Chi si dona a lui, riceve il centuplo. Sì, aprite, spalancate le porte a Cristo e troverete la vera vita”. Questo messaggio riguarda sia il missionario che annuncia il Vangelo sia coloro ai quali egli lo annuncia. A questa radicalità fa appello anche S. Paolo (II lettura): per il Battesimo siamo chiamati a “camminare in una vita nuova” (v. 4), perché “siamo morti con Cristo” e  “vivremo con Lui” (v. 8.11).

Il secondo grande tema missionario di questa domenica è l’accoglienza. È esemplare l’ospitalità che la donna di Sunem e suo marito offrono al profeta Eliseo (I lettura), ma lo è anche la gratitudine di questo ‘uomo di Dio’ verso quella coppia sterile: dopo aver consultato il suo servo Giezi, Eliseo profetizza che presto avranno un figlio. Si tratta di uno scambio di doni, offerti nella gratuità. Gesù loda il gesto semplice, gratuito, di “chi avrà dato anche solo un bicchiere di acqua fresca” (Mt 10,42). Da notare il dettaglio dell’acqua fresca, particolarmente gradita nei paesi caldi. La missione come accoglienza ha il suo fondamento nell’identità che Gesù stabilisce tra Sé e i suoi: “Chi accoglie voi accoglie me” (v. 40); parole che riecheggiano il test del giudizio finale: “Avevo sete e mi avete dato da bere” (Mt 25,35).

Accogliere in casa o nel proprio paese chi è nel bisogno, o chi scappa da guerre, o è alla ricerca di condizioni più dignitose per sé e la famiglia, è sempre stata una meritevole opera di misericordia, ancora secondo le parole di Gesù: “ero straniero e mi avete accolto” (Mt 25,35). Oggi, purtroppo, il complesso problema dell’accoglienza ai migranti-rifugiati-profughi è diventato un acceso tema politico a livello nazionale, europeo e mondiale, materia di continui dibattiti pubblici, carichi spesso di ideologie contrapposte. Lo scarso coinvolgimento di privati, associazioni e governi nel cercare soluzioni adeguate alle migrazioni è, almeno in parte, alla base di numerose tragedie e morti in terra e in mare, anche di donne, mamme e bambini. (*)

Si apre qui il tema della cooperazione missionaria alle opere di evangelizzazione e di promozione umana, che è un diritto-dovere di ogni battezzato, sia nelle forme sempre valide della preghiera, sacrificio, offerte…, come nelle forme nuove: l’informazione, la formazione, l’impegno per la giustizia, diritti umani... per un mondo più fraterno e solidale.  

Parola del Papa

(*) “Ieri le Nazioni Unite hanno celebrato la Giornata mondiale del Rifugiato. La crisi provocata dal coronavirus ha messo in luce l’esigenza di assicurare la necessaria protezione anche alle persone rifugiate, per garantire la loro dignità e sicurezza. Vi invito ad unirvi alla mia preghiera per un rinnovato ed efficace impegno di tutti a favore della effettiva protezione di ogni essere umano, in particolare di quanti sono stati costretti a fuggire per situazioni di grave pericolo per loro o per le loro famiglie”.
Papa Francesco
Angelus domenica 21-6-2000

P. Romeo Ballan, MCCJ

Senza difese né maschere
Matteo 10, 37-42

“Non è degno di me!” È una parola grave ma è una parola vera. I nostri affetti più intimi e importanti se non si aprono ad una grande universalità, fino al mondo intero, se non sono vissuti in Dio, si sclerotizzano, perdono fecondità, e addirittura la casa può trasformarsi in una prigione. Anche per questo Gesù invita a prendere la sua croce, che non significa amare il dolore, ma fare una scelta per una vita più grande. Vivere i nostri giorni senza difese né maschere, con i nostri amori e i nostri dolori, tutto condividendo, nella coscienza che nessuno è degno, ma tutti siamo stati resi degni dalla croce di Cristo. Aprire la nostra famiglia, la nostra casa, i nostri confini, la nostra Chiesa ad una fraternità universale per la quale Gesù ha donato la vita. Come possiamo realizzare questa fraternità?

C’è una luce al numero 19 della enciclica Laudato si’, dove il Papa ci invita a compiere un passo che io definirei decisivo, necessario, per comprendere veramente la realtà. Quale è questo passo?: «L’obiettivo è […] di prendere dolorosa coscienza, osare trasformare in sofferenza personale quello che accade al mondo». Prendere dolorosa coscienza, osare trasformare in sofferenza personale è una espressione commovente e straordinaria; è una vocazione, la nostra; è servire l’uomo concretamente, è costruire la fraternità entrandovi dentro, è per noi cristiani partecipare al Mistero Pasquale.

In questo orizzonte non è bene fare una distinzione netta tra colui che accoglie e chi è accolto. Ogni persona che incontriamo può essere una opportunità di un dono reciproco, per accogliere Gesù e in Lui, il Padre stesso. Ogni incontro, ogni persona, porta con sé un dono particolare: accogliere, riconoscere, dare spazio al profeta come profeta e al giusto come giusto, significa non soltanto crescere nel nostro cammino di vita, mettendosi alla loro scuola, ma partecipare agli stessi doni. La ricompensa del profeta o quella del giusto è far parte dello stesso dono, vorrei dire gustare l’abbondanza dei doni di Dio nelle relazioni tra di noi e con tutta la Creazione.

Con stupore vediamo nel vangelo anche quelli che sembrano non avere nessun dono da scambiare: sono i “piccoli”, cioè i bambini, i poveri, gli ultimi, le persone che potrebbero darci solo il loro dolore e la loro miseria, uomini e donne che secondo la “legge” non hanno né diritti né dignità. Sappiamo che il vangelo è pieno di questi piccoli. Oggi dobbiamo aprire gli occhi per tornare a vedere che questi piccoli sono in mezzo a noi, bussano agli avanzi dei nostri festini, e sono uno straordinario dono del Signore. Penso in particolare al fenomeno migratorio che non è affatto un esodo biblico; è invece una epifania, una manifestazione del Signore che ci sta parlando attraverso questi piccoli. Per ascoltarlo serve soltanto un bicchiere di acqua fresca.
[Francesco Pesce – L’Osservatore Romano]

Accogliere un fratello, ricco o povero,
chiunque sia è accogliere Dio

2Re 4,8-11.14-16; Salmo 88/89; Romani 6,3-4.8-11; Matteo 10,37-42

Da due domeniche ascoltiamo brani del discorso apostolico o missionario di Gesù. Egli spiega agli apostoli come devono svolgere la loro missione in mezzo alla gente. La prima missione era temporanea e locale: in Israele, per annunciare il regno dei cieli; annuncio che sarà accompagnato dal dono dei miracoli, ma anche con l’esigenza di un disinteresse assoluto nei confronti delle ricchezze e dei vantaggi personali: “Andate e predicate che il regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”.

La seconda missione era universale con una promessa d’assistenza dello Spirito Santo e con alcuni detti di Gesù da fissare nel cuore: non si deve avere paura di chi uccide il corpo, ma di colui che ha il potere di far perire l’anima e il corpo nella Geenna; non si deve essere indifferenti alla provvidenza amorosa di Dio e bisogna avere il coraggio nel seguire il Maestro e nella testimonianza di Cristo senza vergognarsi di lui.

E oggi ascoltiamo l’ultima parte di questo discorso, in cui ci sono sentenze che ricordano agli apostoli e a noi le condizioni della sequela di Gesù (collocare Dio al centro dell’esistenza e vivere in un atteggiamento di dono) e sentenze sull’accoglienza che dobbiamo praticare verso gli altri. Anzitutto, Gesù ci richiama i discepoli al primato assoluto di Dio: “Chi ama il padre e la madre più di me non è degno di me…”. Gesù Cristo va collocato al primo posto e amato più di tutti o di tutto; anche i legami naturali più intimi e legittimi passano in secondo ordine. Cioè l’adesione a Cristo comporta una scelta radicale che passa sopra anche ai vincoli del sangue, e non può essere confrontata con nessun altro legame. Gesù richiede quindi la libertà radicale nei confronti dei vincoli parentali, che devono occupare nel cuore solo il secondo posto: il primo è per il Signore.

Infatti, Gesù intende fissare la gerarchia del vero amore. “Chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me”. Il condannato al patibolo prendeva sulle spalle la trave trasversale e la portava fino al luogo dell’esecuzione capitale. In tale contesto l’espressione “prendere la croce” non sta per indicare prima di tutto la sopportazione delle sofferenze, ma la scelta di fedeltà totale nella sequela di Gesù fino a condividerne il suo destino dell’uomo dei dolori e del crocifisso.

Questo modo di assomigliare Gesù nelle prove, angosce o per suzioni comporta i dolori per un istante, ma la gioia per l’eternità. Infatti la sequela di Cristo, se vuole essere fedele e concreta, non può evitare la croce. L’idea di rischio mortale nell’adesione a Cristo è anche indicata dalla sentenza che chiude la serie sulla sequela: “Chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà”. I verbi al futuro e in una forma impersonale rimandano all’iniziativa di Dio che alla fine farà trovare la vita al discepolo che sceglie di condividere il destino del Maestro soprattutto nella forma estrema del martirio.

Le ultime quattro sentenze fanno leva sul verbo “accogliere”: “Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato”. L’inviato di Gesù è come Gesù stesso. “Chi accoglie un profeta come profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie il giusto come giusto, avrà la ricompensa del giusto”: ai “profeti” sono associati i “giusti”; si tratta dei discepoli fedeli di Cristo. Nella terza sentenza Gesù parla di questi piccoli che devono essere accolti in quanto discepoli di Gesù: “E chi avrà dato anche solo un bicchiere di acqua fresca a uno di questi piccoli, perché è mio discepolo, in verità vi dico: non perderà la sua ricompensa”. Ci viene anche detto che nel “piccolo”, cioè nel discepolo di Gesù, noi serviamo Gesù stesso. Egli valorizza il gesto più semplice, il dare “anche solo un bicchiere di acqua fresca” per amor suo.

La prima lettura spiega o illustra con un esempio concreto il valore dell’ospitalità generosamente offerta a un profeta di Dio, Eliseo. Essa viene ricompensata o ricambiata con un dono più desiderato: la nascita tanto attesa di un figlio. Dio sa vincere anche la sterilità, poiché è Lui la sorgente di vita. Abbiamo qui soltanto un semplice esempio sull’importanza di quella solidarietà a cui ci invita Gesù nel vangelo.
Don Joseph Ndoum