Originario del Vicentino, si è spento a Verona il 29 ottobre scorso. Era stato attivo in Africa per oltre 50 anni, di cui 40 in Togo. Gran costruttore di chiese, fanatico della catechesi, tenero con i bisognosi. Zoppicava nelle lingue, ma la gente gli voleva bene.

Francesco nasce a Malo, un paese del Vicentino, secondo di sette figli. Terminate le elementari, frequenta un corso di avviamento al lavoro. Al secondo anno, nasce in lui il desiderio di diventare sacerdote e decide di iscriversi al ginnasio. Poco dopo, entra nel seminario di Vicenza, dove completa gli studi liceali. Nel 1941 ini¬zia il corso di teologia. Non nasconde il suo desiderio di partire per "le missioni". Ma, ordinato sacerdote nel 1944, accetta dal vescovo l'incarico di cappellano a Bassano del Grappa. Sei anni dopo, con 1'approvazione del vescovo, entra nel noviziato dei missionari comboniani a Firenze.

La sua vocazione per l'Africa è legata anche alle vicende familiari. Pa-pa Luigi, che aveva un calzaturificio di modeste dimensioni, s'era lasciato convincere a tentare la fortuna in Africa e, nel 1938 era partito per 1'Etiopia, portandosi dietro due figli. Era pero tornato a Malo 1'anno seguente, lasciando i due figli laggiù a portare avanti la piccola attività. Chiamati ad arruolarsi nelle forze italiane di occupazione, furono fatti prigionieri dagli inglesi. Sarebbero tornati a casa solo all'inizio degli anni Cinquanta. Uno, pero, data la situazione difficile del dopo-guerra italiano, si sarebbe trasferito nella Rhodesia del sud (oggi Zimbabwe) dove sarebbe rimasto fino alla morte, non prima pero di ricevere alcune visite dal fratello Francesco, missionario in Togo.

Terminato il noviziato, nel 1952 padre Francesco viene inviato dai superiori in Sud Sudan. La sua prima missione è Torit, presso il confine con 1'Uganda, tra l'etnia lotuho. Non lontana dalla casa dei padri c'è una caserma militare con numerosi soldati. Punta gli occhi su di loro e si dà da fare presso gli ufficiali perchè gli sia consentito iniziare un corso di catecumenato nel campo militare. I soldati che chiedono il battesimo sono molti, forse anche per reazione contro la politica islamista del governo di Khartoum. Nel 1955 è diretto testimone di una sanguinosa rivolta dei militari sudisti contro gli ufficiali nordisti che intendono trasferirli in qualche distretto settentrionale: 311 i morti, soprattutto donne e bambini, per lo più annegati nel fiume nel tentativo di fuggire dagli spari.

Nel 1956, Francesco è trasferito a Kapoeta, tra i topossa, pastori nomadi. Se la gente si muove dietro le mandrie, lui li segue. Scrive ai superiori a Verona: “Sono diventato un apostolo itinerante, senza fissa dimora”.

Due anni dopo, può tornare a Torit. Felice di rivedere i vecchi amici, chiede a un confratello di scattargli una fotografia vicino a un gruppo di bambini che stanno giocando a fare i soldati.

 

Per un mistero mai svelato, una copia della foto finisce nelle mani del prefetto della provincia, un musulmano del nord, che lo accusa di "lesa maestà" nei confronti del governo centrale e lo condanna all'espulsione con la seguente motivazione: “La foto denigra il glorioso esercito del Sudan”. Il superiore della missione riesce, tuttavia, a convincere il funzionario della buona fede di padre Francesco. Che pero è costretto ad accettare il trasferimento a Palotaka, nel vicariato di Juba.

Intanto, la situazione politica nel paese diventa sempre pin ostile alla presenza dei missionari. Le leggi che ne ostacolano 1'attività sono molte. Nel 1963, arrivano i primi decreti di espulsione dei missionari, che culmineranno nel febbraio 1964 con l'ordine di allontanamento forzato di tutte le forze missionarie dal Sud Sudan.

 

 

DAL SUDAN AL TOGO

Costretto a rientrare in Italia, padre Francesco si dice disponibile per un nuovo campo di lavoro. I superiori lo chiamano a far parte del gruppo dei primi Otto comboniani che, nel gennaio 1964, arrivano sulle spiagge del Togo, dopo un viaggio in nave durato due settimane.

Ad accoglierli c'è mons. Robert Dosseh-Anyron, da tre anni arcivescovo di Lome (lo sarà fino al 1992, quando si ritirerà; è tuttora vescovo emerito della diocesi). Ha da poco conosciuto i comboniani, a Roma, durante le sessioni del Concilio Vaticano II. A presentarglieli è stato mons. Ireneo Dud, allora vicario apostolico di Wau (Sud Sudan), che glieli ha descritti come “instancabili lavoratori, capaci di fare causa comune con la gente, abili nell'apprendere le lingue africane, disposti a mangiare il cibo locale, rotti alle grandi difficoltà, e ora anche alle persecuzioni”. “Giuro che fui lì lì per non credere ai miei orecchi”, ricorderà ancora molti anni dopo, lui che aveva conosciuto soltanto missionari francesi, piuttosto riluttanti allo stile di vita africano: “Ma mi affrettai a Verona per chiedere che venissero nella mia diocesi e mi fu subito detto di sì”.

Dopo alcuni mesi di studio della lingua ewé, p. Francesco viene inviato con altri confratelli ad Afagnan per fondarvi una missione. La zona, nel sud-est del paese, a un'ottantina di chilometri dalla capitale, non lontana dal confine con il Benin. La scelta del luogo è dettata dal fatto che i Fatebenefratelli della provincia lombardo-veneta vi hanno aperto dal 1962 un ospedale, che è gia una perla – e lo sara ancora di pin in futuro – della sanità in Togo. Per alcuni mesi la comunità comboniana è ospitata in una delle strutture dell'ospedale.

Si tratta praticamente di partire da zero. La zona assegnata ai comboniani comprende alcune decine di villaggi, con una popolazione di oltre 80mila persone, appartenenti al gruppo etnico degli ouatchi. Ci sono gia stati tentativi di evangelizzazione, ma sono miseramente falliti. “Lo so che è una missione difficile”, confida mons. Dosseh ai nuovi arrivati, “ma è per questo che vi ho invitati: so che saprete arrivare al cuore del popolo”. Ed è lui a offrire loro le prime informazioni sulla cultura e religione locali. Che conosce molto bene, perchè e originario della zona, essendo nato nel vicino villaggio di Vogan. Parla a lungo del vodù, la religione tradizionale che riveste tutti gli aspetti della vita personale e sociale.

L'universo religioso di questo popolo suscita la curiosità di p. Francesco: vuole entrarci profondamente possibile per poterlo meglio evangelizzare. Ma sia lui che gli altri confratelli finiscono presto con 1'accettare 1'enorme difficoltà di questo compito. Non solo sbattono la testa contro la pratica generalizzata della poligamia, ma anche sperimentano la quasi indifferenza della gente davanti al loro desiderio di sviluppo: creano varie scuole, senza pero incontrare 1'entusiasmo dei locali. Ma non si scoraggiano e continuano a prodigarsi con ogni mezzo nell'impegno sociale: p. Francesco inizia una scuola di agricoltura, mentre fratel Adone Santi fonda e gestisce magistralmente un centro professionale, con lo scopo di frenare – se non proprio bloccare- 1'esodo dei giovani verso la più ricca Nigeria.

Quando, 8 anni dopo, p. Francesco lascia Afagnan, ha coscienza di non aver sfondato. Anche per via della lingua, monosillabica e tonale, che non ha mai imparato al punto da poter fare a meno di un interprete. Al superiore provinciale che è venuto a prenderlo gli anziani del luogo dicono: “Siamo grati per il tanto bene che p. Francesco ha compiuto in mezzo a noi. Peccato che si sia intestardito a parlare una lingua che non capiamo”.

Ed eccolo a Togoville, pronto per una nuova avventura missionaria, anche se può continuare a occuparsi dei Discepoli di Gesù, una comunità di giovani consacrati al servizio della catechesi, da lui fondata gia ad Afagnan. Ma anche questa iniziativa non andrà molto lontano.

La comunità cristiana di Togoville è di antica data. È stata fondata dai missionari tedeschi all'inizio del1'evangelizzazione del paese, alla fine dell'Ottocento. Le cronache di questa missione dicono che a Togoville ci voleva “molta pazienza”, che la gente aveva “un cuore d'acciaio” e che

Che fare? La Provvidenza ha inviato in Togo una singolare figura di volontario che, andando di missione in missione, costruisce scuole, chiese, ospedali, e tutto gratuitamente. In cambio chiede solo un piatto di minestra e una branda per dormire. È Ferdinando Michelini, un architetto di Milano, che pero preferisce fare il pittore. Nel 1959 è stato miracolosamente guarito da fratel Riccardo Pampuri (religioso dell'Ordine ospedaliero di San Giovanni di Dio, morto nel 1930; sarà canonizzato nel 1989) e, nel 1960, è venuto ad Afagnan per redige¬re il progetto del grande ospedale dei Fatebenefratelli.

Proprio conversando con Ferdinando e con mons. Dosseh, p. Francesco riceve l'ispirazione di fare della chiesa di Togoville un santuario alla Madonna. I1 4 novembre 1973, alla presenza di tutti i capi-villaggio situati lungo le rive del lago e di una grande folla, 1'icona della Vergine, disegnata da Michelini, viene "intronizzata". Da subito, il santuario diventa meta di migliaia di pellegrini. Ogni anno vi si celebra 1'anniversario di quella intronizzazione con un pellegrinaggio nazionale cui partecipano decine di migliaia di fedeli. I1 9 agosto 1985, Giovanni Paolo II vi verrà in pellegrinaggio e vi reciterà un atto di consacrazione alla Vergine.

TANTE CAPELE

Nel 1985 p. Francesco è invitato dal vescovo ad andare ad Anfoin per fondarvi una nuova missione. Vi rimarrà fino alla celebrazione del suo 50° di sacerdozio, occupandosi di aprire nuove comunità cristiane con cappelle e scuole. Ha una predilezione per i ragazzi poliomielitici, molto numerosi nella regione: ne finanzia le operazioni ortopediche all'ospedale di Afagnan e procura loro una carrozzella. “Cosi almeno potranno sentirsi piu autonomi, spostarsi dove vogliono e anche apprendere un mestiere”, spiega.

Dove però il nostro si distingue è nella costruzione di chiese. Pensa che un luogo di riunione aiuti la comunità a formarsi. E poiché sogna comunità cristiane molto più numerose di quelle con cui ha a che fare, costruisce sempre in grande. A chi glielo rimprovera, ribatte: “Ma non vedi come le comunità stanno crescendo? Vedrai: presto mi direte che ho costruito chiese troppo piccole”. Poi, orgoglioso, aggiunge: “Quando arriverò alla porta del paradiso e il Signore mi chiederà: "Francesco, cosa hai fatto di bello in Africa?", gli risponderò: "Gho fato tante capèle"», giocando sul doppio senso del termine dialettale ("cappelle" ed "errori madornali").

A 80 anni, non è ancora fiaccato né nello spirito né nel corpo. Anzi, è ancora disponibile ad andare oltre. Cosi, a fine 1998, di ritorno da una vacanza in Italia, accetta di unirsi alla comunità di comboniani che hanno avuto 1'incarico di aprire la missione di Asrama, a metà strada tra Notsè e Tado, nella diocesi di Kpalimé. Si tratta, ancora una volta, di costruire la casa, di scavare il pozzo, di edificare la chiesa... P. Francesco è al settimo cielo. Con 1'entusiasmo del neofita, si getta nell'avventura di apprendere una nuova lingua, 1'àjà. “Non andrò molto lontano nel parlarla, ma posso fare del mio meglio nello studiarla”, dice. È sorprende tutti quando, coordinando il lavoro di alcuni studenti e seminaristi, riesce a completare il primo dizionario àjà -francese e francese- àjà, degno di questo nome (verrà stampato in Italia nel 2006).

Anche ad Asrama p. Francesco non dimentica la sua vocazione sociale. Un progetto agricolo, che impegna una ventina di giovani nella produzione di derrate alimentari destinate al consumo locale e non al commercio, è la sua ultima opera di sviluppo.

E non dimentica nemmeno Bakhita, la santa di origine sudanese, che aveva conosciuto a Schio quando era ancora un giovane sacerdote. Una statua della santa, di ben 5 metri, accoglie i fedeli che si accingono a entrare nella chiesa (1'ultima da lui costruita) che porta il suo nome.

Nel settembre 2004, p. Francesco rientra definitivamente, orgoglioso di aver fatto la sua parte ma consapevole che è giunta l’ora di lasciar andare avanti forze più giovani e africane. Ma l'Africa è il "suo" Togo se li porta nel cuore fino alla fine. Non si stanca di parlarne con chi lo incontra: prima ad Arco, sul Lago di Garda, poi a Thiene, e infine ancora ad Arco. Il 29 ottobre 2009 se ne va in punta di piedi, mentre è ospite della comunità comboniana di Verona. E si presenta a Dio per raccontargli delle sue capèle.

Elio Boscaini