A Padova, nella parrocchia di P. Ezechiele Ramin, San Giuseppe, il 23-10-2005, è stato inaugurato il suo busto in bronzo, realizzato dallo scultore Ettore Greco.
Padre Ezechiele Ramin è il 17° «martire» comboniano nella serie dei confratelli e delle consorelle che hanno versato il sangue in ossequio alla fedeltà alla propria vocazione restando sul posto nel momento del pericolo, e per un motivo di carità verso i poveri e gli oppressi.
Padre Ramin è arrivato al sacerdozio dopo un lungo periodo di sofferenza spirituale. Questa sofferenza trova radici. oltre che nel temperamento «radicale» di Lele, anche nelle circostanze storiche in cui è nato ed è stato educato.
Lele era un ragazzo di città e una città come Padova dove le ventate rivoluzionarie scatenate dall’ambiente universitario erano di moda una decina di anni fa; era, inoltre, un «Sessantottino». E tutti sappiamo che cosa voglia dire questa parola.
Nella formula dei Voti perpetui. pronunciati a Cabo san Lucas, Bassa California Sur, Mexico, il 18 maggio 1980, Lele si apre a Dio come forse non si era mai aperto con gli uomini, data la sua riservatezza quanto ad esprimere i propri sentimenti.
"Padre buono, tu mi hai creato. mi hai chiamato al tuo servizio per andare tra i più poveri. Tu mi hai fatto vivere tutti questi anni perché ti riconoscessi come il Dono della mia vita.
Mi hai provato molto, però non mi è mai mancata la tua tenerezza c il tuo aiuto. Per questo. Signore. con molta tranquillità e serenità di cuore. metto tutti i miei giorni nelle tue mani confidando sempre nella tua fedeltà verso di me. Una fedeltà che già molte volte ho sperimentato. Perciò... (segue formula dei Voti), poi: Padre buono. ti chiedo che il mio cuore si converta a te e che tu mi mandi il tuo Santo Spirito. Ricordo e ti raccomando i miei genitori, i miei fratelli c quanti mi resero possibile questa professione. Benedici anche questa comunità che mi accompagna con fraterno affetto.
Madre degli Apostoli, Vergine Santissima di Guadalupe, prega per me. Grazie, Signore. Molte grazie».
Leggendo tra le righe di questa «formula-preghiera» scopriamo gli clementi principali della spiritualit!1 di Lele: la scelta dei poveri, la consapevolezza delle prove sostenute e della fedeltà e tenerezza di Dio, il bisogno della continua conversione del cuore, la devozione alla Madonna, regina degli Apostoli. Constatiamo, inoltre, una pace della mente e del cuore finalmente raggiunta, e il cammino percorso durante gli anni della formazione.
Un ragazzo pulito
Ezechiele Ramin è nato a Padova, parrocchia San Giuseppe, il 9 febbraio 1953. Ha frequentato le elementari presso la scuola Alessandro Manzoni di Padova tra il 1959 e il 1964. Le secondarie e le superiori presso il Collegio Barbarigo dal 1964 al 1972.
«lo non ho studi - dice la mamma ma l'unica cosa di cui mi sono preoccupata è stata la formazione spirituale e religiosa dei miei figli. Avevo sempre paura di non riuscire a pareggiare il loro livello intellettuale con la crescita nella fede. Per questo ho voluto che frequentassero la chiesa e le scuole cattoliche».
«Preghiera e catechismo». fa eco il papà, professionista dello scalpello per il lavoro della pietra.
I 6 fratelli Ramin erano tutti laureati o diplomati. Dico erano perché Gaudenzio, più giovane di Ezechiele, è deceduto in un incidente stradale nel 1983. Aveva deciso di andare con la moglie in Africa. Ora vi è andata lei, come medico pediatra.
Questi frammenti di notizie ci dicono il livello della famiglia Ramin: cristianesimo vissuto senza bigottismo, con convinzione, e idee chiare.
«La vocazione di mio fratello - dice il dottor Paolo, fratello più vecchio dei Ramin - è nata dal cuore di nostra mamma».
«La vocazione di Lele ci colse di sorpresa - dice Antonio, consigliere DC del comune di Padova - perché mai ce ne aveva parlato. E poi aveva sempre un nugolo di ragazze che lo circondavano... Ma fidanzatine non ne aveva mai avute. Le ragazze, sì, erano innamorate di lui, ma già fin dagli anni del liceo capirono che non c'era niente da fare. Pur essendo espansivo, gioviale, sportivo (amava la bicicletta, la montagna e la chitarra), aperto, allegro, accogliente... si vedeva che macinava qualcosa di diverso nella sua testa».
Anche don Floriano Riondato, insegnante al Barbarigo, lo ricorda «gioioso, entusiasta in tutte le cose che faceva, con manifestazioni di gagliardia pulita. Suscitava la simpatia dei compagni e dei professori».
«Non sapeva perdere - riprende Paolo -. Durante le vacanze a Calalzo perse una partita a pallone. Non volle venire a pranzo finché non ebbe la rivincita e la vittoria». E significativo questo giudizio.
Da liceale divenne il coordinatore del movimento Mani Tese a Padova. ll problema del Terzo Mondo, dei poveri, dei miliardi di uomini che non conoscono il Vangelo lo aveva sempre interessato. Nelle vacanze estive intervallava il lavoro nei campi presso uno zio, con i «Campi di lavoro» organizzati dai giovani.
«Comunque - taglia corto Paolo ciò che diciamo di nostro fratello, potrebbe essere di mille altri ragazzi della sua età. Era normale, niente di straordinario... Tra i suoi difetti aveva quello di una calma esasperante per cui riusciva a far arrabbiare gli altri, senza scomporsi».
La vocazione
Ezechiele conseguì la maturità classica nel 1972 con splendidi voti. Alla domanda del papà sulla facoltà da scegliere, chiese tempo.
Finalmente, verso la fine dell'estate, disse ai genitori di salire in macchina perché li avrebbe portati a vedere la facoltà che aveva scelto. Essi salirono e, dopo un lungo giro, finirono davanti all'Istituto dei Missionari Comboniani, in via S. Giovanni da Verdara. «Ecco la mia facoltà». «Cioè?». «Missionario d'Africa!».
«Non è che stai scherzando!». «Dico e faccio sul serio. Punto e basta». Sentendo raccontare il fatto, la moglie di Antonio batte le nocche della mano sul tavolo e commenta sorridendo: «Tutti di carattere in questa casa!».
In realtà, la vocazione missionaria per Ezechiele era nell'aria da alcuni mesi. Fu proprio padre Setti n che parlò, un giorno, ai giovani del Barbarigo. Quando tutti furono usciti dalla sala, si accorse che uno, un atleta di metri 1,83, era rimasto immobile al suo posto.
«Perché non esci?» chiese il missionario. «Lei ha parlato di Giona che aveva paura di andare a Ninive... Sono io quel Giona che ha paura...». «Dove sta la tua Ninive?». «Non certo a Padova».
Questo fu il primo approccio tra Ezechiele e i Comboniani.
Mi hai provato, Signore
Presso lo Studio Teologico Fiorentino conseguì il baccalaureato negli anni 1972-74. Erano anni ancora bollenti: confusione tra i postulanti e anche tra gli educatori.
Il 6 ottobre 1974 Ezechiele entrò nel noviziato di Venegono. Il 5 maggio del 1976 emise i Voti temporanei.
La missione! La missione del dopo Concilio, quella di cui aveva bisogno la Chiesa, come doveva essere realmente? Ezechiele non aveva le idee chiare. E voleva chiarirle, assolutamente, prima di impegnare definitivamente la sua vita. Gli sembrava, questo, un atto di onestà verso se stesso, verso la congregazione e verso la Chiesa.
Chiese di poter fare almeno una parte di scolasticato in terra di missione. Egli stesso optò per l'Uganda. «Quando nel Noviziato mi era stata chiesta l’opzione per lo scolasticato, con grande entusiasmo e come prima preferenza, scelsi Kampala», scrisse.
Invece fu inviato in Inghilterra dove rimase per tutto l'anno scolastico 1976-77.
Nel 1977 partì per gli Stati Uniti, scolasticato di Chicago. Il giovane stava maturando umanamente e cristianamente. I superiori riscontrarono in lui qualità fisiche, morali, intellettuali e di sensibilità eccellenti. Ma il confronto con la realtà complessa e contraddittoria lo rendeva ansioso, desideroso di analizzare, di approfondire, di giudicare... Lele era un intellettuale. Aveva la stoffa dello scienziato meticoloso che vuole rendersi ragione di tutto.
Dio conduce per sentieri a noi sconosciuti. Lele voleva vederli prima, questi sentieri. E ciò non è sempre possibile. Bisogna credere, fidarsi, «confidare sempre nella tua fedeltà», essere persuasi che anche i limiti degli uomini fanno parte della storia della salvezza.
In Lele c'era anche un altro desiderio: quello di diventare medico-sacerdote-missionario. Era un'idea che aveva manifestato a Firenze e che ora ritornava a galla. Ne scrisse al padre Generale: «Oggi devo constatare con estrema onestà che le due dimensioni (medico-missionario sacerdote) si sono congiunte ancora una volta... Se le serve un missionario che intenda affrontare ancora 6/7 anni di studi in medicina, per essere come Dio vorrà 'una capacità' in più in missione, un segno in più di testimonianza di quel Regno che annuncia il perdono dei peccati e la guarigione dei corpi malati, io mi rendo disponibile.
Le chiedo due righe di risposta. lo non svaluto assolutamente nulla di quanto il Signore sta portando avanti in me chiamandomi al sacerdozio verso il quale mi sto orientando con molta serenità.
Apprezzo i doni e i valori che il Signore mi fa scoprire chiamandomi alla sua sequela, alla quale cerco in ogni modo di rispondere ponendomi in un atteggiamento di totale abbandono (10 nov. 1979).
Invece della laurea in medicina, si diplomò in teologia con la specializzazione in missiologia. La nebbia che gli avvolgeva l'anima, non si era ancora del tutto diradata.
Dopo due anni e pochi mesi di permanenza a Chicago, chiese di poter terminare gli studi, e fare un po' di esperienza pastorale, in un territorio di missione. A Chicago aveva incontrato tanti messicani. Aveva imparato lo spagnolo. Sarebbe andato volentieri nella loro terra d'origine.
«Desidero confrontare lo studio teorico della teologia con la realtà umana tra la. povera gente». Per 4 mesi studiò la lingua a Città del Messico; passò gli altri otto nella pastorale vera e propria in Bassa California.
Intanto i suoi compagni diventarono sacerdoti. Egli attendeva ancora la luce che invocava nella preghiera.
Le referenze che arrivarono dai confratelli della Bassa California furono lusinghiere: grande senso della vita comunitaria, spirito di preghiera, infaticabile nel lavoro, aperto verso tutti specialmente verso i più poveri.
Il sole californiano (ma più ancora lo spirito di Dio) fecero piena luce nella sua anima. La notte oscura era passata. Lele vedeva con chiarezza che cosa il Signore voleva da lui. E quando disse: «Mi hai provato, Signore»sulle sue labbra c'era un gran sorriso di soddisfazione.
La «prova generale» del martirio
Rientrato in patria nel 1980, viene ordinato sacerdote da Mons. Edoardo Mason nella sua parrocchia di San
Giuseppe. Era il 29 settembre 1980.
Sacerdote novello, fu inviato a Napoli (Corso Vittorio Em.) come aiutante di padre Nando Caprini al GIM. Nel novembre ci fu il terremoto in Irpinia. Lele e Caprini furono inviati a San Mango sul Calore, un paesetto dell'interno, totalmente crollato, nel quale anche il parroco era rimasto sotto le macerie.
Padre Ezechiele non solo dimostrò doti di «capo», di organizzatore preciso e minuzioso, ma seppe farsi amare dalla gente per la sua carità e abnegazione. I quaranta giorni passati lassù sotto il fango e la neve, dormendo qualche ora di notte in una piccola roulotte che fungeva da ufficio parrocchiale, coordinando gli aiuti, seppellendo i morti e consolando i superstiti di giorno, furono come la prova generale del martirio che lo attendeva in Brasile.
Riuscì a mettere in piedi perfino la scuola elementare circondando con fogli di plastica le colonne di una casa in costruzione e facendo venire maestre volontarie dall'alta Italia.
Passata l'emergenza, tornò al suo lavoro di animazione giovanile. I giovani lo capivano perché parlava il loro linguaggio. L'esuberanza napoletana ben si confaceva con quella messicana che aveva da poco lasciata.
Chi era a Napoli in quel tempo, come incaricato di Azione Missionaria, ricorda le meravigliose serate (quelle poche in cui erano a casa) quando Nando e Lele venivano nel suo ufficio, si sedevano sul tavolo e, mentre lui metteva sul fornello il «caffettino», gli raccontavano le loro avventure. Praticamente organizzarono e sostennero la Giornata Mondiale dei Malati di Lebbra ad Acerra, entrando in tutte le scuole di tutti i gradi.
Monsignor Riboldi era entusiasta di quei due giovanotti e li invitava spesso nella sua diocesi a parlare.
Poi Lele dovette sostituire il reclutatore dei ragazzi a Troia. Prima di lasciare la Bassa California per l'Italia, aveva scritto la sua opzione: «Il mondo latino americano non mi ha nascosto il suo fascino. Mi sento molto in sintonia con questo mondo, con le sue angosce e le sue grandi speranze. Opto per il Brasile perché mi sembra che in tutta l'America Latina questo Paese presenti davvero le caratteristiche che ho sempre voluto incontrare».
Così, lui che conosceva l'inglese, lo spagnolo e il francese, chiese di essere mandato dove si parla portoghese.
Il Superiore Generale, dandogli l'obbedienza. gli scrisse: «Ti auguro di trovare quelle soddisfazioni che sono il premio della nostra vocazione». Quale premio più grande del martirio?
Il sangue per i poveri
A questo punto non resta che pubblicare il comunicato ufficiale della morte di padre Lele, inviato in Italia dai confratelli della sua comunità di Cacoal (Rondonia) alla quale il Padre venne destinato il primo settembre 1983.
«Alle ore 12.00 del 24 luglio 1985, P. Ezechiele Ramin cadeva crivellato di colpi, vittima di un'imboscata preparata da 7 jagunços (gente assoldata e armata dai fazendeiros) dentro la fazenda (latifondo) Catuva.
La fazenda si trova nel municipio di «Aripuanà» (Mato Grosso) molto vicina ai confini con la Rondonia, a meno di 100 chilometri da Cacoal.
La targa col nome della fazenda è recente e il titolo di proprietà è molto dubbio. Molto prima che il filo spinato circondasse quell'area, lì lavoravano contadini occupati che facevano le loro coltivazioni.
Ai primi se ne sono uniti molti altri in questi ultimi mesi. Ma quando la fazenda si è installata, per i contadini sono incominciate le minacce e le persecuzioni da parte dei jagunços.
Era prudente consigliare i contadini a ritirarsi dall'area per evitare maggiori pericoli.
La mattina del 24 luglio, P. Ezechiele, accompagnato dal Presidente del sindacato dei Lavoratori Rurali di Cacoal, Adilio di Souza, partì di buon mattino per questa missione di pace.
Entrarono nella fazenda senza venire ostacolati e riunirono i contadini, ai quali comunicarono le preoccupazioni dei missionari. La riunione fu breve e prima di mezzogiorno già stavano ritornando; ma i jagunços che li avevano lasciati entrare, li circondarono all'uscita.
Padre Giovanni Clark e io aspettavamo invano il ritorno di P. Ezechiele quella sera. Fu all'una di notte che Adilio ci chiamò battendo alla porta di casa nostra. Aperta la porta vidi il suo volto insanguinato e la camicia macchiata di sangue. Subito ci diede la notizia dell'imboscata. Lui era riuscito a fuggire nella foresta, in mezzo alla sparatoria. Ma temeva per il P. Ezechiele, che in quel momento era uscito dalla jeep in direzione opposta alla sua, attirando su di sé il fuoco più violento dei jagunços.
Nonostante tutto, ci lasciò un filo di speranza.
Con Adilio arrivarono a Cacoal anche 12 contadini che avevano partecipato alla riunione con P. Ezechiele dentro la fazenda. Essi udirono da lontano gli spari dell'imboscata e furono aggrediti da un altro gruppo di jagunços e costretti a fuggire dal luogo.
Per un caso quasi miracoloso si incontrarono con Adilio quando uscirono dalla foresta all'inizio della strada 7, a 70 km da Cacoal.
Lì (era già notte) ebbero la fortuna di incontrare un camion che li portò fino a Cacoal. Immediatamente P. Giovanni e io, uscimmo di casa con la nostra jeep nella speranza di portare qualche possibile aiuto a P. Ezechiele. Ci dirigemmo al posto di polizia di Cacoal, ma questa ritenne impossibile darci qualsiasi aiuto a quell'ora inoltrata.
Alla ricerca di Lele
Ci dirigemmo allora a Ji-Paranà, insieme a Severino Cezanne, uno dei contadini che il giorno prima aveva partecipato alla riunione con P. Ezechiele. Ancora di notte il Vescovo. Mons. Antonio ottenne la collaborazione della polizia distrettuale di Ji-Paranà. Volevamo arrivare sul posto dell'imboscata il più rapidamente possibile. Ma non conoscendo la via di accesso alla fazenda, dovemmo aspettare che si facesse giorno e anche, perché la polizia organizzasse una qualche protezione.
Con la collaborazione del Vescovo, Mons. Atari, lasciammo Ji-Paranà alle 8 del mattino del 25, seguendo un distaccamento di polizia. Verso mezzogiorno attraversammo il cancello della fazenda, e alcuni chilometri più avanti avvistammo la jeep crivellata di pallottole e P. Ezechiele caduto a circa 50 metri di distanza.
Il suo corpo crivellato da pallottole e da piombini di fucile da caccia non aveva segni di qualsiasi altro tipo di violenza.
La camicia e i calzoni macchiati di sangue, il volto sfigurato da un tiro di schioppo a bruciapelo, le braccia incrociate come in un atteggiamento di difesa. Gli assassini non lo avevano toccato neanche con un dito, né prima, né dopo la morte. L'orologio ancora al polso, la collanina di cocco regalo degli indios Suruì - ancora al collo, i sandali ai piedi. Nella jeep trovammo le sue cose: la chiave della macchina, il mazzo delle chiavi di casa, una amaca, la borsa con la macchina fotografica, i suoi documenti e quelli della macchina.
L'unica finalità degli assassini era quella di uccidere P. Ezechiele.
Perché?
Perché P. Ezechiele è stato ucciso? Alcuni antecedenti possono suggerire una risposta.
Ezechiele era uomo coerente con la scelta per i poveri, e coraggiosamente - senza molti calcoli - si esprimeva con un linguaggio franco, diretto. Aveva preso particolarmente a cuore la causa degli indios e dei contadini senza terra. Si era accattivato la fiducia dei capi indios. Frequentemente venivano per esporgli i loro problemi nella nostra casa di Cacoal.
E i problemi erano gravi e delicati. Gli indios accusavano la FUNAI (Associazione Nazionale d'assistenza agli Indios) di omissione e corruzione. Le accuse dei capi indios furono pubblicate dal giornale locale. La risposta della FUNAI sullo stesso giornale insinuò il sospetto che l'iniziativa non fosse degli indios, benché P. Ezechiele non avesse responsabilità in questo fatto.
Lui era consigliere ed amico, e rispettava profondamente le decisioni degli indios, non prendendo mai iniziative al posto di altri.
E in questa attitudine di amore e servizio agli indios non si sentiva solo. Infatti c'è sempre stato un coinvolgimento dei missionari e delle missionarie della parrocchia. C'è sempre stata piena collaborazione della Chiesa Luterana del Brasile in vari momenti, come nella celebrazione della settimana dell'indio e nell'intervista collettiva dei capi indios Suruì con il popolo di Cacoal.
Il villaggio degli indios Suruì è confinante con la fazenda Catuva. dove esistono seri problemi di terra. Centinaia di piccoli agricoltori hanno delimitato piccole aree di terra, che, in una specie di cooperativa, stanno coltivando con la speranza di ottenere in seguito il titolo giuridico di proprietà.
Il conflitto tra fazendeiros e i piccoli contadini è molto grande, perché il fazendeiro tiene al soldo decine di jagunços fortemente armati che minacciano continuamente i contadini.
In questi ultimi due mesi, molti contadini di quell'area vennero a chiederci consiglio.
Avevamo pensato di assisterli giuridicamente per mezzo della CPT (Commissione Pastorale della Terra) di Cuiabà, che aveva messo a disposizione un avvocato, Wilmar Schrader, al quale si dava delega degli agricoltori per essere difesi giuridicamente.
Stavamo studiando il caso dal punto di vista giuridico per fare, subito dopo, una visita all'aerea in conflitto con le idee più chiare.
Il giorno 23 luglio, martedì, il P. Ezechiele visitò le comunità della strada 7 e parlando con quei coloni intuì l'urgenza di prendere delle misure immediate sul caso dei contadini della fazenda Catuva. Perciò il 24 mattina si diresse a Ji-Paranà da dove, per la strada 94, raggiunse la fazenda Catuva. Di là i jagunços non lo lasciarono tornare vivo.
Il problema di terre in Rondonia è molto grave. 40.000 famiglie di agricoltori non hanno terra per coltivare. 20 gruppi indigeni sono minacciati nella loro cultura e sopravvivenza; ciò rappresenta una situazione di ingiustizia sociale assurda e opprimente.
La Chiesa si è messa dalla loro parte con una chiara scelta a favore dei più poveri e per questo è costantemente perseguitata e minacciata.
La morte di P. Ezechiele accusa e condanna il peccato di questa società con una forza ancora maggiore delle sue coraggiose parole». L'équipe pastorale: P. José Simionato, P. João Clark, Sr. Rita, Sr. Elide, Sr. Lourdes.
Il perdono
I genitori vollero portare la salma del loro figlio a Padova. «In Brasile è rimasto tutto il suo sangue» ha detto il vecchio padre. Prima dell'inumazione, il fratello medico e il professor Viterbo di Venezia eseguirono l'autopsia. Lele è morto per due pallottole all'emitorace destro che gli avevano forato la pleura e il polmone, provocando il collasso del medesimo e la relativa pressione sul cuore e sull'aorta. La circolazione sanguigna fu impedita per cui, nel giro di cinque minuti, perse i sensi e, poco dopo, per effetto dell'emorragia interna, cessò di vivere. «Fece certamente in tempo a rendersi conto della morte», ha detto il fratello.
Antonio, parlando a nome della famiglia, ha detto: «Noi perdoniamo e non vogliamo dare il via a processi da parte nostra. Primo, perché siamo cristiani; secondo, perché Ezechiele avrebbe certamente perdonato i suoi uccisori; terzo, perché là restano altri missionari che devono lavorare in pace, per quanto è possibile». Questi sentimenti. contenuti in una commovente preghiera, sono stati espressi da Antonio durante la messa funebre del 2 agosto, a Padova.
In una lettera ad un amico Lele aveva scritto: «Qui la vita è buona anche se qualche volta ti capita di dormire nelle baracche dei contadini su un letto di canne piene di nodi. Solo la grande stanchezza fa sì che un cristiano possa dormire senza doversi dimenare per tutta la notte. Eppure questa è la situazione normale della gente. Gente che è trattata come cuccioli di cane ai quali sono riservati solo gli ossi. Molte volte sento una stretta alla gola che non ti dico.
Eppure tutto intorno ci sono grandi estensioni di terre e ancor più grandi ingiustizie e ruberie da parte dei padroni.
Ascolta Carlo, sarà possibile che qualche stella cada finalmente su questa povera terra? O dovrò ancora avere pazienza? Anche nei miei sogni vedo questa povera gente che prende coltellate nel petto e nella schiena...».
La lettera termina con una frase che ha del profetico. «Il 25 luglio 1984, giorno dedicato al lavoratore, a Ripuanta, diocesi di Ji-Paranà, il capo della polizia ha sparato contro il popolo, presente il vescovo. Vogliono la testa del sacerdote. Il Brasile non cambia; è lo stesso da molto tempo, da troppo tempo».
Proprio alla vigilia del 25 luglio dell'anno dopo, padre Ezechiele veniva ucciso.
In un'altra lettera, ricalcando un concetto di Santa Teresa del Bambino Gesù, disse: «Io, in questa Chiesa di cui Cristo è il capo, vorrei essere il cuore. Chiedo troppo? Chiedete alla Madonna che mi aiuti ad essere cuore».
Testimone della carità
«Con l'omicidio di padre Ezechiele - ha detto il Provinciale dei comboniani in Brasile - è stata fucilata la Chiesa brasiliana che è scesa in campo per difendere i diritti dell'uomo e quindi gli interessi dei contadini. Anche il Papa, del resto, ha confermato l'appoggio della Chiesa ai vescovi, seguendo così una linea di opzione preferenziale nei confronti dei poveri».
Domenica 28 luglio il Papa, parlando ai fedeli da Castelgandolfo, volle ricordare padre Ezechiele con queste parole: «Ed ora, una particolare intenzione di preghiera per Padre Ezechiele Ramin, missionario comboniano di origine italiana, assassinato martedì scorso in Brasile.
Desidero unire la mia voce a quella dei Vescovi brasiliani e italiani, che hanno espresso dolore ed esecrazione per questo atto di violenza crudele contro un religioso, testimone della carità di Cristo.
Il mio pensiero affettuoso va ai familiari di Padre Ramin, ai suoi confratelli comboniani, a tutti i missionari che, inviati in ogni parte del mondo ad annunciare la Buona Novella, portano la croce del sacrificio, dell'incomprensione e, talora della persecuzione.
Vorrei anche ricordare con voi, in questa preghiera mariana, la Chiesa che è in Brasile e, in modo particolare, i fedeli ai quali il missionario ucciso dedicava le sue giovanili energie per aiutarli a sconfiggere la povertà e l'ingiustizia, senza violenza, attraverso la via evangelica dell'amore, della pace e del rispetto per la dignità di ogni uomo».
La mamma, con il buon senso degli umili, disse al giornalista che la intervistava: «Desidero solo che mio figlio sia in paradiso. Tutto questo baccano, questo scrivere e questo parlare mi disturbano. A quante mamme sono stati uccisi i figli, eppure nessuno li ricorda!».
Mentre il Vescovo di Padova presiedeva la concelebrazione che vedeva uniti attorno alla bara una settantina di sacerdoti e parlava della morte di Ezechiele come mistero di amore e di fedeltà, come motivo di memoria perché si sappia cosa comporta l'amore per Cristo e per i fratelli, e come stimolo perché gli altri giovani sappiano prendere il suo posto rimasto vuoto, la schola sottolineava:
Canto per Cristo che mi libererà,
quando verrà nella gloria;
quando la vita con lui rinascerà, Alleluja.
Canto per Cristo, in lui rifiorirà
ogni speranza perduta;
ogni creatura con lui risorgerà. Alleluja.
Niente di più significativo per padre Ezechiele, l'allegro ragazzo di Padova che a 32 anni ha saputo amare i poveri fino al punto di dare la vita per essi.
Proprio come insegna il Vangelo.
E la gente di Padova, i suoi compagni di scuola, i professori e i confratelli lo hanno capito. Infatti per ben due volte il rito funebre è stato interrotto da scroscianti applausi, come a un trionfo. Era un trionfo.
P. Lorenzo Gaiga