Nato a Mezzane di Sotto, Verona, nel 1914, è entrato ancora ragazzino nell’Istituto Don Mazza, dove aveva studiato anche San Daniele Comboni. Ragazzo intelligente e intraprendente ha fondato con i compagni di liceo la rivista “Helios”, espressione della nuova generazione studentesca mazziana. Durante il liceo ha capito che il Signore lo chiamava alla Missione ed è entrato tra i Comboniani.
Per la teologia è andato a Roma allo scopo di conseguirne la licenza. Ordinato sacerdote nel 1939 è stato subito inviato a Londra per lo studio dell’inglese. Allo scoppio della guerra, è finito nel campo di concentramento dell’isola di Man dove ha fatto prodigi di apostolato mettendo in piedi scuole di lingua e di altre scienze per tenere occupati i prigionieri italiani. Fu il loro padre e apostolo. Qui divenne editore e diffusore del giornale “Sursum corda” un foglio di collegamento per i cappellani militari prigionieri. E per i più di 4.000 prigionieri “spesso afflitti perché lontani dagli affetti familiari e bisognosi di speranza” fondò la rivista “Aurora”.
Terminata la guerra, è diventato superiore provinciale dei Comboniani in Inghilterra e ha dato un determinante sviluppo alle opere dell’Istituto e all’animazione vocazionale nel Regno unito. Solo nel 1954 è potuto partire per il Sudan come fondatore e poi insegnante nel seminario diocesano del Tore, Sudan, che preparava i futuri sacerdoti africani. Dalla sua scuola sono usciti quattro vescovi. Per la sua attività e l’influsso sui futuri sacerdoti, è stato chiamato “padre della Chiesa sudanese”.
Salvare l’Africa con gli Africani
Una delle sue caratteristiche è stato l’influsso che ha esercitato sulle autorità governative e sui diplomatici sudanesi. Sull’esempio di Comboni, accostava le persone che avevano autorità e che dirigevano la storia dei popoli allo scopo di curare lo sviluppo del paese. Ed era ascoltato.
Altra caratteristica è stata quella di far studiare, a sue spese, quanti più giovani poteva, mandandoli all’estero in vista di un’Africa cristiana e ben preparata. Era convinto che in questo modo avrebbe realizzato il piano di Comboni “salvare l’Africa con gli africani”. Fu stimatissimo dalle autorità sudanesi, ed egli ricambiava questa stima, tanto che è stato l’unico tra i sacerdoti comboniani a ottenere il permesso di rientrare in Sudan dopo la grande espulsione di tutti i missionari dal Sudan meridionale nel 1964. Non solo, ma era chiamato alle feste dell’ambasciata sudanese a Roma. A lui i governanti sudanesi chiedevano consigli e suggerimenti.
La missione che viene a noi
Nel periodo in cui è stato in Italia dopo l’espulsione, è stato p. spirituale dei teologi comboniani a Roma, ma intanto aveva scoperto la sua nuova vocazione: assistere gli immigrati africani e asiatici. Egli ha il merito di aver visto nel fenomeno immigratorio “la missione che viene a noi”. Tra contraddizioni e incomprensioni da parte di qualche superiore, ha fondato l’ACSE (Associazione Comboniana Studenti Esteri) che poi è diventata Associazione Comboniana Servizio Emigranti. L’ACSE è stata come il frutto maturo di tutto il suo modo di pensare e di fare per tutta la vita.
In una vecchia chiesa sconsacrata in Via del Buon consiglio, a Roma, ha aperto la sede per accogliere gli immigrati. Molte volte arrivavano ubriachi e chiedevano soldi. Non sempre il Padre aveva disponibilità economica e allora… veniva preso a botte. Alla sera, rientrando in comunità, i confratelli gli dicevano: “Cosa sono quei segni sulla testa?”. “Non è niente, mi sono mosso al buio e ho battuto la testa contro una porta”. “Quando si ama, si perdona – disse un giorno ad un amico – per questo Dio perdona sempre anche noi”. In un anno gli immigrati passati dalle sue mani, e dal suo cuore, erano intorno ai 15.000, un esercito. Egli aiutava tutti, cercava di trovar loro vitto, alloggio e lavoro. Seppe coinvolgere tante famiglie di cristiani romani che aprirono le loro case a questi sfortunati. Ha lottato spesso con la polizia per difendere quei “suoi figli” cercando di giustificarli nei loro limiti e difetti.
Ha influito sulla formulazione della “legge Martelli” per gli immigrati, ha coinvolto la Chiesa di Roma nella sua opera ottenendo aiuti dal Vaticano. All’ACSE sisono aggiunti tanti volontari. Intanto la sede è passata in posti più adeguati: prima in Viale Tirreno e poi in Via Nebby. I superiori, avendo capito il carisma “prettamente comboniano” di p. Bresciani, hanno cominciato a favorirlo assegnandogli qualche aiutante.
Gli strapazzi inauditi ai quali si è sottoposto, i lunghi digiuni, le notti insonni, le corse negli ospedali con gli ammalati, lo hanno portato in poco tempo alla morte, non prima, però, di aver fondato con atto notarile “l’Associazione di volontariato per gli immigrati” (1995). Il Cristo di p. Bresciani aveva il volto dell’immigrato, indipendentemente dalla religione, dalla cultura e dal colore della pelle. È morto a Verona il 22 luglio 1996. Dalla tomba, come Comboni di cui è stato un figlio degnissimo, può dire ai suoi immigrati: “Tra voi ho lasciato il mio cuore e con voi continuo a fare causa comune”. Di lui è stata scritta una biografia con prefazione di Francesco Rutelli, allora sindaco di Roma, col quale il Padre ebbe molto da fare.
(P. Lorenzo Gaiga)