(Articolo pubblicato sull'Osservatore Romano - seconda parte)
Santità missionaria e scelte coraggiose
Il privilegiare il rapporto e la stima amorevole verso l’altro, lo avrebbero portato ad esercitare un’azione tanto necessaria quanto rischiosa: la liberazione e il riscatto degli schiavi. La santità missionaria, come avverte Redemptoris Missio porta a scrutare le misteriose vie dello spirito (cf. RM 87), quindi a percorre anche vie rischiose perché vive di quell’affermazione paolina, tante volte ripetuta nella sue lettere: "Disposto a divenire anatema per i fratelli" (Rm 9, 3). Strada maestra della sua spiritualità missionaria furono la fortezza, l’audacia e il discernimento (cf. RM 87). "Con la gente – afferma Katib, il suo servo – era abitualmente sorridente, ma era forte con gli schiavisti, per difendere i poveri neri maltrattati" (f. 39r, ad 23). Suor Caterina Chincarini aggiunge: "Con gli avversari era franco e risoluto, specialmente nell’ottenere giustizia per i neri e umanità per i poveri schiavi" (f. 18r, ad 51).
E qui i testimoni hanno capito che liberazione e ricupero degli schiavi erano uno degli aspetti fondamentali della sua opera. Osman Aly, musulmano: "Il Servo di Dio aveva alla Missione molti schiavi e schiave, che egli riscattava. Li ammaestrava nella religione, insegnava loro a leggere e a scrivere e un mestiere. Gli schiavi venivano trattati molto bene e tutti amavano il Comboni come il loro papà, il loro salvatore" (f. 269r, ad 13). Non si trattava di un mero gesto compassionevole di una persona dal cuore buono, ma alla base di questa azione decisa e rischiosa c’era una opzione: stare a fianco dei poveri e credere nel loro riscatto. Osman Aly, musulmano di Dongola, notava che Comboni "era amico di tutti, ma prediligeva i poveri" (f. 269r, ad 8-9). Hanna Tadros lo aveva potuto comprovare: "se una persona grande lo visitava egli lo trattava bene, se veniva un povero a visitarlo lo trattava meglio ancora, egli preferiva i poveri ai ricchi" (f. 230r, ad 11). Amore e stima, i valori alla base della sua scelta di campo; coraggio e prudenza, le linee della sua azione sempre a servizio della tutela della persona. Un esempio per tutti. Un mercante cattolico libanese, tale Joseph Seicani, depone: "Una domenica c’era un nero, che in chiesa si era seduto su una sedia libera. Ora durante la messa entrò un siriano, il quale non trovando posto, andò vicino a questo nero e con una spallata lo cacciò dalla sedia. Il Comboni allora predicava e vide la cosa. Non disse nulla allora, ma dopo messa chiamò quel bianco e lo ammonì: ‘Guardate che dinnanzi a Dio siamo tutti uguali, e quindi in chiesa non fate più una cosa simile" (f. 90v, ad 39). Il suo servo ricorda bene l’atteggiamento del Comboni di fronte agli untuosi ossequi degli pubblici ufficiali: "Monsignore diceva sovente ad alcuni impiegati governativi che trattavano male i neri: ‘Voi fate complimenti a me, e poi maltrattate questa povera gente; ma ricordatevi che davanti al Signore siamo tutti uguali" (f. 39r/v, ad 25).
Non si accontentava dei grandi proclami sull’abolizione della schiavitù; perciò non disdegnava ogni azione che si muovesse in questa direzione, avvalendosi anche dell’autorità politica preposta, ma ciò che percepirono i testimoni fu che la sua azione andava al di là delle formalità ed egli rischiava tutto se stesso per tutelare lo schiavo. In mezzo al clima di omertà, di paura, di violenza, di abuso della dignità dello schiavo o della schiava si imponeva la sua figura come di uno che non solo aveva sposato una causa, ma in essa si era totalmente identificato, disponibile a giocare la sua persona in favore del più disprezzato e vilipeso. Mohammed Joseph el Ezzi, musulmano: "Al tempo del Comboni c’erano alla missione moltissimi schiavi e schiave, ragazzi e ragazze. Il Comboni in parte li riscattava con denaro, in parte li riceveva in dono, in parte si rifugiavano da lui perché venivano trattati male dai loro padroni" (f. 261v, ad 13). Mohammed Saleh Ibrahim, musulmano aggiunge: "In missione gli schiavi venivano trattati benissimo ed erano pienamente liberi. Non li chiamavano neppure più col nome di schiavi. Alla missione imparavano un mestiere" (f. 253r, ad 13). "Se qualcuno poi voleva lasciare la Missione – fa notare Surial Daud, copto ortodosso, - era pienamente libero" (f. 249r, ad 13).
La sua scelta non era dunque il risultato di un movimento passeggero dell’anima, né di un’emozione esasperatamente risentita, né di una situazione in cui vi si era ritrovato costretto da circostanze impreviste o sfavorevoli, ma era il frutto del suo costante porsi davanti a Dio dopo esperienze concrete della sua vita di missionario in cui aveva visto, ascoltato e patito per le abominevoli crudeltà inflitte all’elemento africano. Cosi ancora i piccoli colgono l’intreccio che si stabilisce tra esperienza di Dio, partecipazione alla sorte dei poveri e umiltà. Una gerarchia che conferisce il coraggio delle scelte e il rigore nella collocazione di fronte alle situazioni perché tutto va commisurato sulla qualità della relazione e sulla dignità della persona. Osman Aly, musulmano di Dongola notava che : "amava i poveri, era umile e pregava molto" (f. 268v, ad 4). Interessante, ma non sorprendente questo intreccio di umiltà, di amore per i poveri e di preghiera. Alla scuola di Dio gli occhi diventano più acuti e l’avvicinarsi alla sofferenza umana non può avvenire che per condivisione e abbassamento.
Comboni, anche in questa scelta di campo, si mostra l’uomo delle beatitudini. Redemptoris Missio avverte che"il missionario è l’uomo delle beatitudini" (RM 91)e deve percorrere "le vie della missione: povertà, mitezza, accettazione delle sofferenze e persecuzioni, desiderio di giustizia e di pace, carità" (RM 91). Comboni dunque uomo delle beatitudini, tutt’altro che remissivo e chiuso nel suo piccolo orto religioso. Nelle Proposizioni del Sinodo per l’Africa si afferma che di fronte alle ingiustizie e al mancato rispetto per la dignità umana, quale frutto di situazioni oppressive le cui cause sono tanto all’interno quanto all’esterno del Continente, "la Chiesa dovrà continuare a svolgere il suo ruolo profetico e a essere la voce di chi non ha voce" (Prop. 45, e: ECM 2309). I poveri del suo tempo hanno riconosciuto in lui l’espressione del loro desiderio di pari dignità e di libertà.
Santità missionaria e dialogo
Un ulteriore aspetto che i testimoni evidenziano è il rapporto di Comboni con i musulmani. Oggi, uno degli aspetti cruciali di questo momento di transizione epocale, è la possibilità non remota che l’incontro tra religioni e civiltà diventi scontro e che, in alcuni casi, il compattarsi della religione con la politica generi le pericolosa mistica della conquista o peggio ancora della guerra santa. Il Comboni non anticipa formule, perché anche lui è debitore di una mentalità datata nei confronti dell’Islam e del suo irrimediabile proselitismo aggressivo. Indica tuttavia una strada: avvicinarsi all’altro dentro una spiritualità vissuta, capace di generare atteggiamenti e rapporti umani coinvolgenti. Impossibile affrontare l’ambiente musulmano e il musulmano in concreto, sembra suggerire il Comboni, senza una profonda spiritualità.
Il Comboni attuava il dialogo di vita; non però come tattica o tecnica di proselitismo o espediente per carpire l’altro, ma come irradiazione delle proprie convinzioni personali e della propria interiorità. Viveva di Cristo e lasciava che questo Cristo, irradiante attraverso la sua persona, incontrasse l’altro nella maniera umana più vera e più semplice. Metodo dell’incontro e del dialogo di vita, del fare riscoprire all’altro le proprie radici, la propria religione, mentre si palesa la propria in una disponibilità a tutta prova. Said Mohammed Taha, musulmano, nella sua testimonianza lascia intravedere questo approccio: "Egli mi voleva molto bene. Quando mi veniva a trovare si informava della mia famiglia, del mio paese, della mia religione, dei miei lavori. Mi parlava di Gesù e della sua religione e mi diceva che per salvarmi dovevo pentirmi dei miei peccati. E mi spiegava la differenza che passa tra la religione musulmana e la religione cristiana. Il Comboni era un uomo buono: io ora, vedi, servo la mia religione di tutto cuore, e difatti dopodomani imprendo il pellegrinaggio della Mecca, ove voglio morire: ebbene il Comboni era assai più attaccato alla sua religione di quello che io sono alla mia" (f. 243v, ad 3-4).
La vicinanza e la credibilità di cui godeva il Comboni in ambiente musulmano è evidenziata anche dallo speciale potere propiziatorio riconosciuto alla sua tomba. La tomba era divenuta luogo di venerazione e di pellegrinaggio. Tutta una serie di fioretti nasce sul potere di quella tomba: la povera che dorme accanto alla tomba e vive delle elemosine di coloro che hanno ricevuto grazie; la donna musulmana che perde le capre e le ritrova presso ladroni arabi dopo il voto fatto al Comboni di preparare un banchetto per i poveri in caso di esito positivo; la donna che seppellisce il denaro accanto alla tomba perché il Comboni glielo custodisca e il ritrovamento del malloppo avvenuto molti anni dopo che la tomba era stata devastata; la terra prelevata dalla tomba stessa per curare le malattie ecc. (ff. 216v-217r, ad 26). Khatib, servo per 8 anni del Comboni afferma che: "Tutti cristiani e musulmani piansero la sua morte; i musulmani gridarono per tre giorni" (f. 40r, ad 31-34).
Certamente i problemi dell’approccio al mondo musulmano sono complessi, comunque la prassi del Comboni può costituire uno stimolo di non piccolo valore. "Anche oggi la missione rimane difficile e complessa come in passato e richiede ugualmente il coraggio e la luce dello Spirito: viviamo spesso il dramma della prima comunità cristiana, che vedeva forze incredule e ostili ‘radunarsi insieme contro il Signore e il suo Cristo’ (At 4, 26)" (RM 88). Sappiamo come il dialogo possa diventare difficile e, in certi casi, possa essere accusato di costituire una diminuzione della propria identità religiosa. Comunque, il dialogo di vita, nonostante tutte le remore, deve essere perseguito una volta che alla base dell’incontro si colloca la santità. Solo a questo titolo l’incontro con l’altro diventa producente nel senso che non sarà mai uno svendere la propria identità, ma un offrirla con umiltà, come termine di confronto e di mutua crescita.
Per il Comboni fu proprio la sua santità vissuta e tramandata, la via di una presenza possibile e capibile nei confronti dei musulmani. Del resto, alla luce della santità il dialogo diviene espressione di nuovi rapporti tra le religioni coma afferma il Santo Padre. Nel documento Dialogo e Annuncio, tra le varie forme di dialogo (della vita, delle opere,degli scambi teologici e dell’esperienza religiosa), si menziona al primo posto quello di vita "dove le persone si sforzano di vivere in uno spirito di apertura e di buon vicinato, condividendo le loro gioie e le loro pene, i loro problemi e le loro preoccupazioni umane" (DA 42, a: ECM 1985) (La sigla ECM sta per Enchiridion della Chiesa Missionaria, EDB, Bologna, 1997). Dialogo la cui importanza è ripresa anche nelle Proposizioni del Sinodo per l’Africa, in particolare con i musulmani: "Questo sforzo di dialogo deve abbracciare ugualmente tutti i musulmani di buona volontà. […] I cattolici sono inoltre invitati a praticare insieme a loro un dialogo di vita nell’ambito della famiglia e della vita pubblica, in modo da promuovere la realizzazione di una società giusta dove un vero pluralismo garantisca ogni libertà, e specialmente la libertà religiosa" (Prop. 41: ECM 2301).
Santità percorribile ed efficace anche oggi
L’effetto della santità del Comboni può essere letta in questa affermazione di Khatib, servo per 8 anni del Comboni: "Per quanto dovesse tribolare, non perdeva mai la pace" (f. 36r, ad 17). Tale controllo di sé e delle sue emozioni, attribuitogli da chi lo scrutava giornalmente, è il frutto più importante e decisivo della sua dedicazione missionaria. Frutto e segno inequivocabile insieme che, in situazioni così difficili, il punto di riferimento non era primariamente ciò che faceva o i risultati che otteneva, ma ciò in cui credeva e la comunione che lo legava alla Chiesa. "Monsignore ci parlava con grande entusiasmo del Papa Pio IX e ci faceva pregare spesso per lui( f. 35v, ad 15). "Il Servo di Dio era molto attaccato alla S. Sede, faceva suoi tutti i desideri del Sommo Pontefice, e diceva e ripeteva: ‘Il Papa vuole questo, il Papa vuole così, e altre e simili parole formavano la sua legge" (14r/v, ad 35). "Il Papa poi era la sua vita – depone Teresa Grignolini. – In tutte le sue lettere ne parlava" (105r, ad 43).
Comboni insomma fu tutto, fuorché un libero battitore. Si sentì e visse da uomo incatenato volontariamente da molteplici vincoli d’amore: alle splendenti icone della sua spiritualità (Cuore di Cristo, Vergine Immacolata Nostra Signora del Sacro Cuore, S. Giuseppe ecc.), alle concrete figure di Chiesa del suo tempo (Pio IX, i cardinali prefetti di Propaganda, il Card. di Canossa ecc.); alla sua vocazione missionaria (genitori, Istituto Mazza, ispirazione del Piano, benefattori ecc.) e all’Africa, perdutamente.
La santità del Comboni invita missionari e missione a dotarsi di alcuni atteggiamenti imprescindibili: focalizzarsi sull’esperienza di un Dio che abbraccia tutti prediligendo i più abbandonati; coltivare un vero senso di comunione ecclesiale come via al discernimento e alla stabilità dell’opera; proporre un orizzonte di salvezza in cui i valori eterni siano ispiratori di una trasformazione e crescita integrale dei destinatari dell’annuncio; collocare a fondamento dell’attività evangelizzatrice il dialogo di vita e infine, non ultimo però in ordine di urgenza, curare un rapporto umano equilibrato, partecipativo, empatico e positivo con le persone.
I poveri capiscono che questi sono frutti duraturi e consistenti di santità. Bachit Caenda, il nubano che Comboni aveva conosciuto nella casa del conte Miniscalchi, in occasione della morte scrisse al padre parole indimenticabili: "Signor Luigi, lei ha perduto l’unico, il più caro dei figli; il mondo uno dei più zelanti missionari, e noi poveri africani il più amoroso dei padri, il caro amico di tutti, il liberatore e redentore dell’Africa. […] Il nome Comboni sarà immortale in quelle terre infuocate e tutti i miei fratelli, che furono, che saranno, lo venereranno come salvatore benigno. Si degni accettare questa mia, […] come ossequio distinto a quell’anima, che nel cielo sarà sempre attorniata da uno stuolo di Negri da lui liberati".
P. Arnaldo Baritussio
Postulatore Generale dei M.C.C.I