P. Raffaele di Bari è il 22° martire comboniano, deceduto un un’imboscata a circa quattro chilometri dalla missione di Pajule, mentre era diretto ad Aciolibur per celebrare la santa Messa. Improvvisamente - erano circa le ore 10.30 locali - si udì una scarica di fucileria e poi l’esplosione di una bomba. Era un colpo di bazooka sparato contro l’auto. La granata colpì la macchina dalla parte del guidatore, trapassò la portiera e il fianco del Padre, quindi s’infilò nel cruscotto e finì la sua corsa nel vano motore.
P. Raffaele fece appena in tempo a gridare per tre volte: “Ahi! Ahi! Ahi!” e non disse altro. Alcuni di quelli che erano con lui, scapparono. Una donna, che casualmente passava per quella strada, fu colpita alla schiena da una raffica di mitra e cadde a terra uccisa.
La suora e gli altri che viaggiavano col Padre si salvarono. La macchina, intanto, senza controllo, proseguì la sua corsa e finì nel bosco ai margini della strada. Eppure il Padre, prima di partire, si era informato presso il capitano della guarnigione governativa di stanza a Pajule, se la strada fosse libera ed aveva ottenuto ampie assicurazioni.
I ribelli, appartenenti all’Esercito della Salvezza del Signore, circondarono l’auto e fecero prigionieri quelli che non erano riusciti a fuggire. Poi rovistarono dappertutto cercando qualcosa da rubare. Per prima cosa presero l’orologio del Padre, poi infilarono le mani nelle sue tasche ma non trovarono neanche uno spicciolo. Ciò li irritò assai.
L’incendio dell’auto e il rapimento dei bambini
Terminata la perquisizione della macchina e delle tasche del Padre, quegli che sembrava il capo, comandò ad un soldato di lanciare una bomba a mano per incendiare l’auto.
Tirarono la bomba, ma l’auto non prese fuoco. Allora il capo mandò un paio dei suoi sgherri a sfilare della paglia che copriva una capanna vicina per appiccare fuoco alla macchina. Questa volta la fiamma divampò improvvisa coinvolgendo anche il corpo, ormai esanime, di P. Raffaele che era rimasto al suo posto di guida. A questo punto gli assassini si allontanarono in tutta fretta con i ragazzi che poi liberarono, eccetto il figlio del cuoco della missione che non tornò mai più a casa. Pare che sia stato sacrificato.
Avvolto nel camice
Mentre in missione, a Pajule, stavano terminando la Messa, arrivò la notizia che il Padre era stato vittima di un’imboscata. P. Antonio Simeoni, si recò sul posto dell’eccidio insieme a qualche altro. Il Pick-up di P. Raffaele era tutto un rogo e non poterono far niente. Allora ritornarono al centro di Pajule, presero acqua e qualche zappa e tornarono sul posto dell’agguato. Ma non riuscirono neppure ad aprire la portiera della macchina. Il corpo del Padre, intanto, bruciava come una torcia.
Alla fine, sempre aiutandosi con zappe e picconi, riuscirono ad aprire la porta della cabina ancora rovente. Quel poco che era rimasto del corpo del Padre cadde a terra in un mucchietto fumante.
Padre Simeoni stese il camice che aveva con sé nell’altarino portatile e, con affetto e venerazione, vi depose quei poveri resti carbonizzati e si diresse verso la missione. Era circa l’una del pomeriggio.
P. Raffaele era solito chiedere al Signore di non finire su una sedia a rotelle (lui che ne procurava tante per i poliomielitici), e di non morire vecchio. Il Signore lo ha ascoltato.
Il funerale ebbe luogo nel pomeriggio del giorno dopo, 2 ottobre. L’Eucaristia di suffragio è stata celebrata dal Vicario generale, P. Sebastiano, rappresentante del Vescovo che si trovava a Roma per un raduno. Erano presenti molti sacerdoti locali, alcuni confratelli (ma altri dovettero rinunciare per la pericolosità delle strade) e anche il Vescovo protestante la cui moglie era stata uccisa da una mina.
Martire, perché?
“Sono andato alla sepoltura di un martire, il ventiduesimo nell’elenco dei missionari comboniani che hanno sacrificato la vita per la giustizia, per la carità e per la fedeltà alla loro vocazione – scrive Fr. Croce -. Sì, anche P. Raffaele, come gli altri che lo hanno preceduto nella morte violenta, poteva starsene al sicuro nella sua missione e nessuno lo avrebbe importunato. Oppure avrebbe potuto abbandonare il posto e la gente per ritornare in Italia, ma non l’ha fatto, anche se il Signore stesso ha detto: ‘Se vi perseguitano in un posto, andate in un altro’. P. Raffaele ha voluto condividere fino in fondo la vita e anche la morte del suo popolo, consapevole che la vocazione missionaria gli chiedeva questo”.
La tomba è stata scavata nell’angolo fra il boschetto e il campo delle suore, accanto alla chiesa. Il tutto è stato circondato da uno steccato che è diventato luogo di preghiera.
P. Antonio Simeoni aggiunse:
“Qualche giorno dopo, nel posto dell’imboscata abbiamo eretto una croce perché sia segno di pace e di perdono per tutti, e sia come una memoria per i morti, i feriti e i deportati di quest’assurda guerra”.
Verso il sacerdozio
Raffaele era entrato nel noviziato comboniano di Firenze il 14 settembre 1946. Il maestro era P. Stefano Patroni. Nella domanda d’ammissione ai Voti, così Raffaele si espresse: “Ho capito che la vocazione sacerdotale, religiosa e missionaria è la maggiore di tutte le grazie che il buon Dio potesse farmi. In questo periodo ho cercato di fare del mio meglio per migliorarmi anche se i difetti sono ancora tanti. Tuttavia, dopo aver considerato tutti gli impegni che dovrò assumere con i Voti, le difficoltà che dovrò incontrare, le lotte che dovrò sostenere, umilmente chiedo di essere ammesso alla professione religiosa per santificare me stesso e salvare tante anime a costo pure di dare, anche per una sola di loro, tutto il mio sangue”. Parole profetiche, queste ultime. Era il 9 settembre 1948.
Fu ordinato sacerdote a Milano il 26 maggio 1956 dal card. Montini, futuro Papa. Sperava di poter partire per la missione quanto prima. Invece i superiori lo trattennero per tre anni in Italia, prima a Crema con l’incarico di economo e insegnante degli alunni comboniani, e poi a Troia come vice rettore, P. spirituale ed economo della casa.
In Uganda
Appena giunto in Uganda, nel 1959, P. Raffaele fu destinato a Morulem dove c’era la missione e il lebbrosario. Uno dei suoi primi compiti fu quello di studiare la lingua. Suo maestro fu P. Alfredo Malandra che aveva scritto una grammatica e un vocabolario acioli. Morulem fu una tappa importante e decisiva, per la vita di P. Raffaele, perché poté entrare a contatto con la realtà dei poveri, degli emarginati, rappresentata dai malati di lebbra, che diventarono come i suoi “maestri in umanità”.
Se per tutto il resto della vita P. Raffaele avrà una predilezione per coloro che soffrono, in gran parte lo si deve, oltre agli esempi di Comboni e ai suoi insegnamenti meditati e assorbiti durante gli anni di formazione, ai due anni trascorsi accanto ai lebbrosi che erano raccolti dai vari villaggi per essere curati presso il centro di cura.
Nel 1962 P. Raffaele passò a Kalongo dove, grazie all’apporto di P. Giuseppe Ambrosoli, medico, e oggi Servo di Dio, stava nascendo il grande ospedale. P. Raffaele collaborò facendo tanti viaggi per l’ospedale allo scopo di portare e riportare i dottori o ritirare medicine e macchinari.
Il pozzo di san Giuseppe
Dal 1964 al 1965 P. Raffaele andò in Inghilterra per lo studio della lingua inglese. Dato che era in Europa, dal 1965 al 1966 fece tappa a Roma per il corso di aggiornamento che doveva coronare il suo decimo anniversario d’ordinazione sacerdotale.
Rientrato in Uganda alla fine del 1966, tornò a Kalongo. Due anni dopo, lo troviamo nella missione di Opit. Scrivendo al superiore generale il 12 marzo 1968 disse: “Due mesi fa ho lasciato Kalongo ed ora sono qui in questa minuscola comunità insieme a P. Clerici e a Fr. Brigadoi. Viviamo in estrema povertà ma abbiamo piena fiducia nella divina Provvidenza che certamente ci aiuterà a tirare avanti.
Non avevamo più neanche acqua da bere, allora abbiamo fatto una novena a San Giuseppe e ci siamo messi a scavare un pozzo. A soli otto metri abbiamo trovato acqua in abbondanza per noi e per la gente. Ora è arrivato Fr. Battistata che lo sistemerà bene.
Vorrei fare quanto prima un catecumenato decente e ben custodito per tenere i catecumeni in missione. Vorrei inoltre dare qualcosa ogni mese ai 15 catechisti, così da invogliarli a fare sempre meglio il loro ministero”.
Dal 1968 al 1975 P. Raffaele fu superiore di missione e poi parroco ad Awac. Questo fu un periodo fortunato per lui. In collaborazione con P. Giovanni Scalabrini, si dedicò alla realizzazione di molteplici progetti in favore della gente. Introdussero nella zona i mulini in modo che le donne non si spezzassero la schiena a macinare il grano tra due pietre o pestandolo nei mortai, moltiplicarono le scuole e le cappelle incrementando i catechisti. Sollecitarono borse di studio per dare la possibilità ai ragazzi maggiormente dotati e di buona volontà di studiare andando anche all’estero. Oggi molti di questi sono “pezzi grossi” in diversi uffici governativi.
Quel periodo fu allietato dalla visita del Papa all’Uganda (13 luglio 1969), dove si era celebrato il Simposio di tutti i presidenti delle conferenze episcopali dell’Africa. Anche P. Raffaele andò a Kampala con un buon gruppo di cristiani per salutare il Vicario di Cristo che, per l’occasione, benediceva l’altare del grande santuario dei Martiri. La marea di gente che si raccolse per l’occasione, dimostrò che la presenza della Chiesa cattolica era veramente massiccia e ben radicata nella gente.
Salvatore di vite umane
Durante il periodo di Amin, P. Raffaele non abbandonò mai le sue posizioni destreggiandosi nel tentativo di risparmiare vite umane e le stesse missioni.
Faceva la spola tra le parrocchie di Lacior e Pabò portando in salvo chiunque fosse in pericolo. Quando arrivarono la fame e il colera si adoperò in ogni modo per arginare quei flagelli “importunando” tutti coloro che potevano aiutarlo.
Ma pagò caro il suo zelo. Infatti un’ulcera duodenale con conseguenti emorragie lo costrinse a rientrare in Italia per un possibile intervento.
Tra sacchi di riso e campi di girasole
“Carissimi cugini – scrisse P. Raffaele da Anaka nel dicembre del 1983 – mi faccio vivo ancora dall’Uganda da me amata anche se tormentata da continue tragiche situazioni… Dopo tre anni trascorsi nelle foreste di Atanga, sono passato alla savana di Anaka, sulla strada che conduce al Nilo che dista circa 70 chilometri dalla residenza centrale.
Vivono ancora in piena libertà elefanti, leoni, coccodrilli, leopardi, gazzelle, antilopi, giraffe, ippopotami, rinoceronti… e ogni giorno c’è qualche entusiasmante, ma sempre pacifico, incontro. Ciò che a me interessa non sono le povere bestie, ma la gente, semplice e simpatica con la quale condivido la situazione gioiosa, ma più spesso dolorosa”.
Di fronte alla situazione di carestia e di fame che le guerre scatenarono, P. Raffaele cercò di reagire a modo suo. Chiamò attorno a sé i giovani più volenterosi e disse che bisognava seminare il riso e coltivare il girasole. Avrebbero avuto cibo e condimento.
Intraprendente e pieno di iniziative come un imprenditore di qualità, non si dava pace finché non vedeva assicurato un decente tenore di vita alla sua gente. “La terra è generosa in Uganda - soleva dire - basta lavorarla come si deve e ci sarà cibo per tutti”. Il suo messaggio fu captato e molti lo seguirono.
“Quest’anno ho potuto distribuire centinaia di zappe e un po’ di aratri. Provvidenzialmente le piogge sono state abbondanti e quindi stanno venendo dei raccolti veramente eccezionali: granoturco, arachidi, sesamo, patate dolci, miglio, girasole, cassava oltre che banane e manghi. La fame è stata terribile, spaventosa. Speriamo che sia finalmente scomparsa”.
I missionari invitano a deporre le armi
A differenza degli altri che volevano stabilire la pace con la violenza, Museveni, giunto al potere nel 1986, tentò di realizzare la concordia usando l’amnistia verso coloro che deponevano le armi. Tutti i missionari collaborarono a quest’opera, convincendo gli ex soldati a lasciare il fucile e a riprendere la zappa per cominciare una vita nuova. P. Raffaele si distinse nel propagandare l’amnistia presentandola, non come un imbroglio dei politici, bensì come l’unica via alla pacificazione. Ciò nonostante molti si tennero care le armi, perché ormai in Uganda un fucile pareva essere l’unico mezzo indispensabile per riavere il potere.
Il 18 agosto 1986 gli acioli iniziarono la guerriglia contro Museveni.
Tra ribelli e formiche carnivore
Nel 1989, P. Raffaele andò a Pajule per sostituire P. Pinuccio che si preparava a tornare in Italia per una meritata vacanza. In questo periodo ci fu un attacco di fanatici che arrivarono in missione cantando e sparando.
Purtroppo l’esercito governativo non aveva il sopravvento su questi numerosi gruppetti che si muovevano nella savana con rapidità. Per questo nella popolazione c’era, e c’è, sfiducia in Museveni che, invece di difendere il suolo ugandese, manda i suoi soldati a combattere nel Congo.
Verso la fine dell’anno P. Raffaele andò a riaprire Kalongo che era stata evacuata, ma ben custodita dai cristiani del luogo.
Per Natale del 1989 scrisse: “Migliorando, grazie a Dio, la situazione, è stato permesso a noi missionari di tornare nelle zone per lungo tempo travagliate e terribilmente devastate dalla guerriglia che ha provocato uccisioni, fame e malattie. Nonostante la mia età di ormai pensionato, riesco ad impegnarmi nelle più svariate mansioni.
Dietro richiesta dell’Ambasciata italiana, il governo ugandese mi ha concesso l’uso di una radio trasmittente per comunicare e ricevere messaggi e notizie dai vari centri di tutta l’Uganda, perciò non mi sento affatto isolato”.
Dal 1994 al 1996 fu a Namokora come parroco. Costruì strutture locali, belle capanne per vecchi e per il gruppo “meeting point” che segue gli ammalati di AIDS. Rafforzò il gruppo di catechisti passando loro molte responsabilità parrocchiali.
Una grande occasione di ecumenismo fu il funerale di Tito Okello, nativo di Namakora e qui ritornato dall’esilio. P. Raffaele aveva preparato il coro e portato tutto il necessario per le esequie, ma lasciò ai protestanti la conduzione del rito, essendo Okello di religione protestante.
Tranquillamente agitato
Nel 1996 altro cambiamento per P. Raffaele. Fu inviato ad Opit insieme a P. Ponziano Velluto. Il 20 febbraio 1997 scriveva: “Scrivo da quest’angolo del Nord Uganda, ai margini della foresta di Opit. Qui la popolazione vive da ben 11 anni in un clima di guerriglia e di terrore per la presenza di criminali e feroci banditi. E’ diventato normale, quindi, vivere in tensione e paura.
Per solidarietà con la gente, anch’io sono tranquillamente agitato, alle volte scosso, traumatizzato e arrabbiato per tutto quello che succede. Sembra strano, ma i ragazzi ignorano cosa vogliano dire pace e benessere, convinti che in tutto il mondo vi sia identica realtà e analoga situazione di guerra.
Sono tanti i bambini denutriti che ti vengono incontro con due occhioni lucidi e con semplicità ti sorridono tristi nella speranza di ricevere qualcosa. Un solo biscotto o una zolletta di zucchero, pur rendendoli momentaneamente felici, non risolvono il loro problema.
Attualmente, nella nostra residenza di Opit, abbiamo moltissimi rifugiati o sfollati che sono stati costretti ad abbandonare i loro villaggi. Ognuno ha da raccontare tragici episodi di parenti uccisi, bambini e giovani rapiti e portati in Sudan, capanne e case bruciate e tanti mutilati per lo scoppio delle mine.
Non credo di essere incosciente e spericolato vivendo in questa zona ad alto rischio, tra gente poverissima, in balia di tante calamità. Sempre con grande prudenza, bisogna scomodarsi e saper rischiare. E’ proprio nella solidarietà con questa gente che mi sento realizzato per manifestare con coerenza la mia fede”.
Due attentati
Ad Opit P. Raffaele dovette subire due attacchi alla casa dei missionari. Il 1° novembre 1997, alle ore 6 del mattino, un commando di guerriglieri assalì la missione di Opit. La raffica di mitra, esplosa accanto ad un quadro di P. Pio da Pietralcina, colpì l’immagine del Santo, ma lasciò illeso P. Raffaele e le suore. In quella circostanza il Padre sentì con certezza di essere stato salvato grazie ad un intervento del beato di Pietralcina, di cui era particolarmente devoto. L’ultima volta che è tornato in Italia, ha portato con sé quel quadro crivellato dalle raffiche di proiettili e lo ha donato ai Cappuccini di San Giovanni Rotondo, come gesto di ringraziamento per una sicura protezione.
Subì un altro attentato il 29 settembre 2000, questa volta a Pajule. Anche questa volta fu solo sfiorato dai proiettili.
Anni prima era stato messo al muro per essere fucilato. Allora si salvò per il rotto della cuffia, scambiando poche ma efficaci parole con uno dei guerriglieri, l’unico che conoscesse l’inglese in una banda in cui tutti parlavano una lingua locale.
Nonostante questi attentati che avrebbero consigliato chiunque a ritirarsi, almeno momentaneamente, dal luogo del pericolo, egli non si era dato per vinto e continuava nel suo lavoro in favore della gente. La missione, infatti, era ormai diventata la sua vita e non riusciva a staccarsene salvo che per brevi vacanze in Italia, ogni tre o quattro anni, per riposarsi e per raccontare la sua esperienza.
Ultima tappa della vita missionaria di P. Raffaele fu la parrocchia di Pajule. P. Raffaele vi arrivò nel luglio 1998. Era parroco P. Tarcisio Pazzaglia, che per motivi di salute rientrò in Italia. P. Raffaele accettò con fatica l’onere di fare il parroco, comunque sperava che fosse per breve durata.
Perché la morte di P. Raffaele? E perché quel tipo di morte? Ci ha dato lui stesso la risposta con una telefonata alla MISNA (l’Agenzia informativa missionaria) pochi giorni prima di essere ucciso:
“In tanti anni di Africa, la missione più grande che abbia ricevuto dal Signore è stata quella di dare voce a questa gente, denunciando al mondo le atrocità che i ribelli commettono quasi quotidianamente contro i vecchi e soprattutto le donne e i bambini che per colpa di questa guerra vengono rapiti, drogati, trasformati in soldati e assassini e anche usati per la pedofilia o per il commercio di organi”.
Parlando di questi bambini soldato, in una lettera al fratello Enzo, P. Raffaele li chiamava: “creature terrorizzate e traumatizzate, veri martiri di una situazione allucinante che continua a caratterizzare la vita del Nord Uganda, grazie alle azioni ignominiose dei guerriglieri appartenenti al movimento LRA”.
Quando Marcella de Palma, corrispondente di RAI 3, andò a Pajule, P. Raffaele si fece in quattro per farla incontrare con i genitori dei rapiti, per intervistare i fortunati che erano riusciti a scappare dal campo di Kony del Sudan.
“Non posso tacere di fronte a queste atrocità”, scrisse. Per questa sua azione di “corrispondente dalle prime linee” P. Raffaele era stata minacciato più volte. Ed ora non parla più, ma è il suo martirio che grida.
All’inizio del 1999 i ribelli tornarono in Sudan e per un po’ di mesi ci fu pace, tanto che P. Raffaele scriveva: “Al tramonto di questo secolo, e prima che inizi il nuovo millennio, pare che stia fiorendo la speranza. Almeno qui nella mia zona fra gli Acioli, si riesce finalmente a vivere in clima di relativa pace e distensione dopo 13 anni di guerra con tutte le sue disastrose conseguenze.
Ma a Natale del 1999 i lanzichenecchi di Kony attraversarono il confine e rientrarono in Uganda iniziando di nuovo la serie di saccheggi e sequestri.
Personalità forte e generosa
“P. Raffaele era amato da tutti per la sua grande umanità – scrive il suo ultimo superiore, P. Tarcisio Pazzaglia -. Tutti quelli che ricorrevano a lui, trovavano aiuto. Potevi arrivare alla sua missione a qualsiasi ora e con quante persone volevi, e lui ti faceva festa e si faceva in quattro per preparare da mangiare tirando fuori tutto quello che aveva di buono e preparava da dormire per tutti, senza problemi, proprio come fossero arrivati i suoi fratelli.
Ognuno si sentiva a suo agio con lui. Pochi giorni prima della sua uccisione si era recato a Kampala per fare provvista di coperte e di altre cose che servivano alla gente. Nessuno doveva allontanarsi dalla missione a mani vuote”.
Dice don Donini, sacerdote bresciano e medico missionario a Kalongo:
“P. Raffaele aveva come un’immediata, istintiva disponibilità a dare. Vorrei quasi affermare che la sua generosità pareva perfino esagerata. Dava via la sua roba, i suoi indumenti, pagava per altri, qualche volta anche lasciandosi imbrogliare. Ma non si rammaricava per questo. Diceva che è meglio farsi imbrogliare, donando, che negare qualcosa a chi è nel bisogno.
Quante volte i ladri gli rubarono roba o anche denaro. In un primo tempo si arrabbiava poi, per riparare il cattivo esempio dato con la sua arrabbiatura, chiamava il ladro e gli aggiungeva dell’altro. Sapeva che rubavano per bisogno.
Nella pastorale era zelantissimo. Kalongo ha 52 cappelle; P. Raffaele le percorreva tutte in continuazione perché non voleva che la gente rimanesse senza sacerdote per troppo tempo. Coltivava i catechisti, li seguiva, li preparava e li pagava perché potessero fare bene il loro ministero senza altre preoccupazioni di ordine materiale”.
Formare dirigenti cristiani
“Una delle prime cose che ho fatto in Africa - scrisse P. Raffaele - fu quella di reperire borse di studio per inviare in Italia dei giovani in vista di una qualifica professionale. (Pagava in tutto o in parte le tasse scolastiche a ventisei persone, più otto seminaristi di Pajule. Quattro suoi assistiti sono già sacerdoti N.d.R.).
Dopo mi sono interessato di agricoltura. Da un gruppo di cinesi venni a conoscenza della possibilità di coltivare il riso anche dove non c’è acqua. Dagli stessi mi feci mandare venti sacchi di semente che piantai nel terreno della nostra missione. Il ricavato fu oltre ogni aspettativa, tanto che ne distribuii anche ai prigionieri che ebbero la possibilità di seminarlo nel territorio delle carceri. Aiutato dalla Caritas, arrivarono le prime macchine pulisci-riso… Dopo 25 anni il Nord Uganda esporta riso nel Sud.
La stessa cosa ho fatto per il granoturco e per il girasole, naturalmente con l’aiuto di altri confratelli, in particolare Elio Croce. Qualcuno ha obiettato che queste cose non sono compito del missionario. Teniamo presente che il Concilio Vaticano II ha detto chiaramente che la missione, oltre che evangelizzazione, è anche promozione umana. Del resto questo è sempre stato l’esempio di tutti i missionari, di quelli della prima ora, e di Comboni stesso.
Non ho mai fatto il commerciante, ho solo fornito alla gente una serie di strumenti perché potesse elevare il suo tenore di vita che, molto spesso, era al di sotto della miseria. Al primo posto, tuttavia, ho sempre messo l’evangelizzazione, la catechesi, la formazione dei catechisti, i sacramenti”.
Barletta ricorda
Una nuda croce di legno, semplice e povera come la vita di P. Raffaele, ai piedi dell’altare nella cattedrale di Santa Maria Maggiore di Barletta ha ricordato il Martire durante la solenne messa funebre che è stata presieduta dal vescovo mons. Giovan Battista Pichierri, martedì 3 ottobre 2000 alle ore 17.00.
All’omelia, il Vescovo ha ricordato alle autorità e ai fedeli che gremivano la chiesa, come il corpo del missionario fosse rimasto in terra d’Uganda (questo era stato il suo desiderio più volte espresso ai confratelli e ai familiari), quale segno di condivisione con i più poveri, con gli oppressi.
Alla fine della messa ha lanciato una sfida ai numerosi giovani presenti in chiesa:
“Il suo corpo è rimasto in terra d’Uganda, così come egli ha voluto, tra gli innocenti tra i quali è vissuto. P. Raffaele era un barlettano ed un barlettano deve sostituirlo in Uganda per proseguire il lavoro da lui iniziato”.
Cose analoghe sono state dette dal superiore Provinciale dei Combonini d’Uganda, P. Guido Oliana, il quale, presentando due sacerdoti ugandesi, ha sottolineato come l’opera di P. Raffaele fosse materialmente visibile in quei due giovani sacerdoti.
Il Consiglio comunale di Barletta ha voluto ricordare P. Raffaele proponendo la dedicazione di una via a suo nome. Non solo, ma il 13 gennaio 2001, il Comune, nell’ambito di una solenne cerimonia, presenti le autorità civili e religiose, e molti cittadini, ha destinato la cifra di 80 milioni per l’acquisto di un’auto uguale a quella distrutta nell’agguato, per la missione di Pajule.
I ragazzi delle scuole di tutti i gradi, animati dai loro insegnanti, hanno svolto temi e ricerche su P. Raffaele e sulla sua esperienza missionaria. Si può veramente affermare che la città di Barletta si è stretta attorno al suo missionario in maniera mirabile e compatta.
Il Segretario generale della Conferenza Episcopale Italiana, mons. Ennio Antonelli, scrivendo al superiore generale dei Comboniani, ha fatto giungere le condoglianze e il cordoglio della Conferenza Episcopale Italiana e di quanti, nelle diverse comunità ecclesiali del nostro Paese, si impegnano a sostegno della missione universale della Chiesa.
I sogni di P. Raffaele
Il ricordo che ci resta di P. Raffaele è quello di un missionario entusiasta della sua vocazione, di un uomo conosciuto da tutti per la sua estrosità simpatica, generosità e volontà d’animo. Un uomo mai stanco di aiutare e sempre aperto ad utili iniziative.
Il ritornello che P. Raffaele ripeteva spesso nelle conversazioni sotto la veranda di casa, quasi fosse un sogno, riguardava alcune poche cose, ma essenziali, per la sua gente. Le troviamo scritte su un pezzo di carta che è stato trovato nella sua stanza
Viaggiare senza paura di imboscate.
Passare una notte senza sentire spari.
Vedere la gente andare nei campi senza paura.
Vedere i bambini rapiti, restituiti ai genitori.
Vedere un maestro che insegna in un’aula e non sotto una pianta.
Vedere la gente del posto protagonista del proprio sviluppo.
Vedere gli ammalati con un’adeguata assistenza.
Vedere un’assemblea liturgica riunita senza paura di assalti e che loda Dio con canti di gioia.
“Stava dalla parte dei poveri perché vedeva in loro Cristo crocifisso - ha scritto un confratello -. Non ha mai detto di no a nessuno, neanche alla morte. E noi davanti a lui chiniamo la testa”.
Davvero P. Raffaele, autentico strumento di pace, ha realizzato nella sua vita la famosa preghiera attribuita a San Francesco: “Dov’è odio che io porti amore; dov’è divisione, che io porti unità; dov’è disperazione, che io porti speranza: perché su tutti gli uomini splenda la tua luce”.
P. Lorenzo Gaiga